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Cannes giunge alla sua 76esima edizione, delineando i suoi contorni tra la Palma d’Oro che aspetta di essere impugnata e i colori verde smeraldo del mare che si confonde tra la linea infinita del cielo e tramonti sfumati in rosati che sembrano affrescati. Giunge la Luna e cala il “Red Carpet”, sulla quale sfilano le celebrità del cinema mondiale, (Brad Pitt, Robert De Niro, Martin Scorzese, Marco Bellocchio, Nanni Moretti ecc.). L’Hotel Majestic resta ormai da 25 anni il luogo centrale di incontro tra gli addetti ai lavori con la presenza dell’Italia Pavillon, dove si svolgono tutte le conferenze legate ai film italiani in concorso e dove vengono presentati le diverse promozioni cinematografiche future. Questa logistica dimostra quanto sia forte il rapporto con l’Italia, poiché il resto delle produzioni cinematografiche è stata disposta al Palais Marchè Du Film. Il Festival è tornato sulla Croisette, le ore della giornata cessano di avere un proprio significato, e acquistano rilevanza solo in relazione al vero protagonista dell’evento: il programma. Attesissimo nei giorni precedenti, quando arriva richiede l’attivazione di ogni risorsa mentale per poter incastrare tutti gli spettacoli a cui si desidera assistere, memorizzando nel frattempo tutte le repliche per i cambi all’ultimo momento. I ritmi serrati del festival permettono di non scadere nel sentimentale, di non crogiolarsi in pensieri ridondanti come l’amore per il cinema che ci tiene in sala per ore e ore di fila. Bisogna essere pratici, spietati e avere un fondoschiena di ferro – sia in senso letterale che figurato, perché la riuscita della propria esperienza dipende anche dai colpi di fortuna insperati, un posto che si libera all’ultimo nello spettacolo che si puntava da giorni e che era andato esaurito trenta secondi dopo l’apertura, oppure riuscire a parlare con qualche regista o produttore importante. Arrivati verso la seconda metà del festival si ha già l’occasione di orecchiare le conversazioni delle persone in coda: quali film si possono evitare, quali sono invece imperdibili. Ci si orienta tra preferenze personali e quelli che vanno assolutamente visti per cogliere lo spirito del festival. Il Festival è stato inaugurato dalla proiezione di Jeanne du Barry – “La favorita del re” di Maïwenn e chiuso da quella del film d’animazione Pixar “Elemental. La giuria internazionale del concorso, presieduta dal regista Ruben Östlund, già vincitore della precedente edizione del Festival, ha assegnato la Palma d’oro al Francese Anatomie d’une chute della regista Justine Triet.

Anatomie d’une chute, film della regista francese Justine Triet. È un thriller psicologico e racconta la storia di una coppia che vive in montagna con il figlio undicenne, cieco: il padre viene trovato improvvisamente morto e la madre viene sospettata. Il Grand Prix della giuria è andato invece a The zone of interest, film del regista inglese Jonathan Glazer su Rudolf Höss, comandante delle SS e responsabile del campo di sterminio nazista di Auschwitz, di cui è raccontata la quotidianità famigliare. A vincere il premio per la miglior regia (Prix de la Mise en scène) è stato il vietnamita naturalizzato francese Trần Anh Hùng per La Passion de Dodin Bouffant, sul rapporto tra una cuoca (Juliette Binoche) e il gastronomo Dodin Bouffant nella Francia degli anni Ottanta dell’Ottocento. Kuolleet lehdet, film del celebre regista finlandese Aki Kaurismäki su una donna single che lavora a chiamata in un supermercato di Helsinki e stringe una relazione con un uomo alcolista, ha invece vinto il premio della giuria. Kaurismäki aveva già vinto il Grand Prix Speciale della Giuria per L’uomo senza passato nel 2002. La turca Merve Dizdar ha vinto il premio come migliore attrice per la sua interpretazione in Kuru otlar üstüne, mentre come migliore attore ha vinto il giapponese Koji Yakusho, che ha interpretato l’addetto alle pulizie dei bagni di Tokyo in Perfect Days del regista tedesco Wim Wenders. Il giapponese Yuji Sakamoto ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura per Kaibutsu di Hirokazu Koreeda. La Camera d’or, assegnata al miglior film di un regista esordiente, è andata a L’albero delle farfalle d’oro del vietnamita Phạm Thiên Ân. Non hanno invece ricevuto premi The Old Oak, del regista inglese Ken Loach, La chimera dell’italiana Alice Rohrwacher, Asteroid City dell’americano Wes Anderson, Rapito di Marco Bellocchio e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. La giuria del festival era presieduta dal regista svedese Ruben Östlund, che aveva vinto l’anno scorso con Triangle of Sadness, e includeva tra gli altri la regista francese Julia Ducournau (vincitrice nel 2021 con Titane), e gli attori Paul Dano e Brie Larson.

Il festival di Cannes è “Artismo” (la fusione tra ciò che si vive realmente proiettandosi in ciò che si sogna) nell’essenza “dannica”, per alcuni che ritornano a mani vuote ma con l’anima piena di emozioni che solo la maestria del genio in generale può restituire. Il cinema settima arte blocca lo scorrere del tempo, e non te lo fa percepire.

Carmela De Rose 01/06/2023

Le opere d’arte più belle e significative hanno il raro dono di racchiudere in sé lo spirito del proprio tempo e, in parallelo, di esprimere dei concetti esistenziali che travalicano i confini del presente e che si rispecchiano tanto nel passato quanto nel futuro. È questo il caso di Parasite del regista sudcoreano Bong Joon-ho, un film di straordinario pregio per l’efficacia con cui scandaglia i conflitti sociali della nostra epoca e per il modo arguto e coerente con il quale costruisce una narrazione ricca di sorprese, dai riflessi grotteschi e che suscita nello spettatore delle risate assai amare.
La vicenda si apre come una commedia e ha per protagoniste due famiglie agli antipodi della scala sociale: da una parte c’è il giovane Ki-woo (Choi Woo-shik) che vive con i genitori e la sorella in uno squallido e angusto seminterrato di un quartiere popolare dove la massima prospettiva lavorativa consiste nel confezionare delle scatole per le pizze; all’altra estremità vi è la benestante famiglia Park che abita in una lussuosa villa posta su una collina di Seul insieme alla propria nutrita servitù. Un giorno, sfruttando un aggancio fortuito, Ki-woo riesce a entrare nella casa dei Park spacciandosi per uno studente universitario disposto a dare ripetizioni di inglese alla figlia e a poco a poco, tramite una serie di geniali stratagemmi e assurdi inganni, anche il resto della famiglia si insedia nella villa per svolgere le mansioni di babysitter, autista e governante. La distanza tra i due gruppi umani rimane però immutata: Mr. Park ribadisce più volte l’importanza per la servitù di «non superare la linea» e il cattivo odore che Ki-woo e i suoi si portano dietro rappresenta un marchio infame e indelebile che ne identifica il rango di origine. Ma proprio a questo punto il film, attraverso un colpo di scena di grande effetto, cambia gradualmente tono e direzione, aggiungendo un ulteriore livello di scontro che va oltre quello classico tra ricchi e poveri e che, in un crescendo drammatico, pone in lotta i poveri e i più poveri fino a culminare in un violento e durissimo epilogo che esplica il radicale pessimismo dell’autore.Parasite 02
L’immagine che emerge con maggior forza dal film di Bong Joon-ho è quella di una società postmoderna saldamente individualista e capitalista, del tutto incapace di provare alcun sentimento di solidarietà, dove le relazioni tra le persone sono sempre regolate dal denaro. Gli unici barlumi di umanità residua sembrano conservarsi dentro i nuclei familiari ma pure in questo senso Bong insinua dei dubbi nel pubblico: a ben vedere, la famiglia di Ki-woo interagisce spesso in maniera artificiosa e calcolata, spinta dal comune interesse del guadagno economico, mentre i coniugi Park non hanno un rapporto autentico con i propri figli e si illudono di conoscerli solo perché in grado di poter comprare loro qualsiasi cosa. In una simile realtà, così arida e alienata, nessuno può uscirne vincitore ma ciò non significa che l’ordine gerarchico venga in qualche modo messo in discussione: per quanto infelici e feriti, i ricchi rimangono sopra i poveri e questa antitesi tra alto e basso costituisce uno dei motivi ricorrenti del film, come dimostrano sia la posizione delle rispettive dimore delle due famiglie sia la stessa struttura interna della villa dei Park. Se in Snowpiercer, uno dei più celebri lavori dell’autore, tale contrapposizione veniva espressa tramite una direttrice orizzontale – in riferimento alle classi dei vagoni del futuristico treno al centro della vicenda – qui la differenza di status sociale si manifesta in una verticalità che si fa metafora portante dell’intero film, grazie anche all’assoluta naturalezza con cui viene resa sul piano registico.Parasite 05
A questo proposito, è necessario evidenziare il valore della raffinata, brillante e rigorosa messa in scena di Bong, che esibisce una piena padronanza nella gestione degli spazi, nella meticolosa scelta dei quadri e nei misurati movimenti di macchina. Non si intravedono mai sbavature, ogni elemento trova una sua precisa collocazione e abbondano le invenzioni visive e sonore, alcune destinate a diventare cult – e vale la pena di citare almeno l’improbabile e spassosa sequenza che si sviluppa sulle note di In ginocchio da te di Gianni Morandi.
Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove è stato acclamato e ha ottenuto con merito l’ambita Palma d’oro, Parasite è un’opera che, come accennato in apertura, riesce a parlare del nostro mondo in modo semplice e caustico e lo fa andando a toccare dei temi universali con sincera ispirazione e profonda acutezza di sguardo. Forse è presto per gridare al capolavoro ma l’impressione è che il tempo saprà confermare un simile, entusiastico giudizio.

Francesco Biselli  23/06/2019

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