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Difficile approcciarsi ad un classico della letteratura di un paese in maniera emblematica, esaustiva e definitiva. Naturalmente se si è stranieri, ma anche e soprattutto se il tutto viene considerato all'interno dello stesso contesto specifico, in cui ci si affaccia ad un classico del proprio paese.

La cultura, la storia, la tradizione di un popolo si lega infatti indissolubilmente a quella delle sue narrazioni specifiche, delle sue storie, dei suoi sogni. Capitolo di prima serata di sabato 5 Maggio 2018 al Nordic Film Festival a Roma, Den allvarsamma leken (A Serious Game) di Penilla August presenta infatti il discorso di adattamento di un simbolo della letteratura svedese: il romanzo d'amore di  Hjalmar Söderberg. Scelta sicuramente non casuale per un discorso di presentazione non solo di un film ma di un cinema e di una cultura specifici. A serious game 1

Perfette dunque le coordinate all'interno delle quali viene presentato il film in questione, uscito nel 2016 e quindi già circolato nei festival e in rete, inserito poco dopo la proiezione del ben più visionario Blind, che presentava invece la contrapposta sperimentazione del cinema norvegese di Eskil Vogt.

Il lavoro della August, attrice storica di Ingmar Bergman e nota anche per il ruolo di Shmi Skywalker in Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma e Star Wars: Episodio II – L'attacco dei cloni,  già dopo la presentazione dei suoi personaggi portanti, stenta però a decollare e ad instillare quel pathos che la narrazione d'epoca del romanzo avrebbe dovuto portare con sé, inquadrandosi subito come standard di genere.

Il formato 1.33 non sembra neanche essere stato così necessario al film, e nemmeno quel lavoro di macchine da presa a mano -forse per trasmettere quel senso di infinita insicurezza esistenziale- sembrano essere punti a favore di un lavoro che sembra mancare di quel fattore x specifico che possa rendere speciale il film. Il melodramma in costume ripercorre le tappe della storia d'amore tra Arvid Stjarnblom (Sverrir Gudnason) e Lydia Stille (Karin Franz Körlof) senza però mai trasformarsi in mito senza tempo, narrazione simbolo, documento storico di sogni, vite e generazioni. Senza il fremito delle carni, le passioni dei baci, le inquietudini delle lontananze, il sogno di carezze e di un caldo abbraccio contro l'avversità del mondo e della società nemici.a serious game 3

L'esistenza relegata ad una difficile convivenza con la felicità, considerata nel film come pericolosa e mortale, sembra però essere relegata alla trasposizione di parole più che effettive passioni, il desiderio e la bramosia degli amanti esula dalla carnalità del loro amore, dei loro corpi, dei loro sessi. Gli angoli di vita in cui si rinchiudono le esistenze stesse dei personaggi sono quasi specchio di un modo di fare cinema ormai sorpassato, descrittivo ma inefficace, melodrammatico ma incapace di emozionare la pelle dello spettatore.

La lunghezza del film è inferiore alla percezione che si ha del succedersi delle scene e anche questo gioca profondamente a sfavore di una trasposizione di una storia d'amore che dovrebbe essere simbolica e capace di porre sì le radici nel suo tempo ma anche trasporsi, come tutte le grandi storie, nelle epoche che gli sono figlie. E se gli attori funzionano è forse per un bravura che sembra però lontana dai personaggi presentati, in cui la semplicistica -talvolta- rappresentazione manichea dell'innocenza e della colpevolezza smuove poco gli animi e annoia più in fretta della sua capacità di imprimersi di azioni, momenti e baci tra amanti, scontri tra mondi e classi sociali, rappresentazioni di culture e storie specifiche.

A serious game si presenta come film classico, ma non si impone come tale, risultando retrò senza un motivo specifico e soprattutto senza la potenza della rappresentazione dell'epoca, capace di trasmettere sentimenti vicini a quelli dell'opera di  Hjalmar Söderberg. A differenza del melodramma classico dell'autore svedese il film della August si riduce ad un classico melodramma, riproposto depotenziato e lasciato invecchiato come -purtroppo- molta della grande letteratura europea.

Davide Romagnoli 06/05/2018

Quest’anno Ingmar Bergman, regista, sceneggiatore, drammaturgo e scrittore svedese, avrebbe compiuto 100 anni: oltre 60 i lungometraggi realizzati, più di 170 le pièce teatrali, tre i Premi Oscar e centinaia i libri e gli articoli scritti nella sua carriera. Nonostante per lui il vero ‘matrimonio’ artistico fosse quello col teatro e considerasse il cinema una ‘amante’, Bergman è ricordato, più che per le regie teatrali, soprattutto per capolavori come “Il Settimo Sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Persona”, “Come in uno specchio”. Sin da giovanissimo ha messo in scena testi importanti, da Shakespeare a Ibsen a Strindberg, lavori che - a suo stesso dire inspiegabilmente - non hanno mai eguagliato la fama internazionale raggiunta con TV e cinema. 

Nel segno di questa figura di spicco della settima arte (e non solo) si è aperto il “Nordic Film Fest”, che fino al 6 maggio porterà alla Casa del Cinema di Roma opere appartenenti alla cinematografia dei Paesi Nordici (Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia). Verranno proiettati sia film in anteprima che inediti in Italia, sottotitolati e in lingua originale.

L’inaugurazione della rassegna è stata affidata proprio a “Bergman Island”, il documentario (mai mostrato integralmente prima, in Italia) in cui il regista si racconta e descrive la sua vita sulla desolataBergman Island ma poetica isola di Fårö (isola svedese del Mar Baltico dove è sepolto). Lì si era ritirato in solitudine, in seguito alla morte dell'amata moglie Ingrid. A raccogliere le sue confidenze, i suoi ricordi, le sue riflessioni è la giornalista Marie Nyreröd: quello che viene fuori è una sorta di intervista-testamento, lunga ed articolata, in cui si toccano temi legati all'arte in tutte le sue forme, ai rapporti con le tante donne della sua vita (cinque mogli e nove figli), con la morte, con la famiglia.

Bergman racconta anche della precoce passione per il cinema, già forte quando aveva otto anni. A quegli anni è legato il ricordo di un Natale, in cui la zia regalò a suo fratello un piccolo cinematografo. Pianse tutta la notte, umiliato dall’aver ricevuto un orsacchiotto al posto di quel magnifico oggetto, finito nelle mani di un ragazzino a cui nulla importava dei film. Pur di averlo, lo barattò con 150 soldatini.

Emerge il ritratto di un uomo lucido nonostante i suoi ottant’anni e più, schivo, pieno di paure e demoni, ironico, disorganizzato ma abitudinario: ogni mattina dopo colazione una passeggiata e ogni giorno uno spazio dedicato alla scrittura. Bergman si presenta molto legato ai suoi momenti (anche prolungati) di solitudine e silenzio: «C’è qualcosa di piacevole nel non parlare», dice. Sull’isola di Fårö dichiara di essersi sentito fin da subito a casa, sin dai tempi dei cinque film girati su quelle spiagge sassose, molto tempo prima di maturare la decisione di ritirarsi lì, lontano da tutto e tutti. Verso gli abitanti del posto dice di provare grande gratitudine. Gli isolani, infatti, lo protessero molto durante il suo lungo soggiorno, evitando che curiosi e giornalisti lo importunassero: la posizione esatta della sua abitazione non fu mai rivelata, ma fu anzi ben custodita da tutti come un segreto.

Bergman aveva l'abitudine di girare dei brevi filmini sul set dei suoi film, una sorta di 'dietro le quinte': alcuni vengono mostrati alla giornalista e commentati con lei nel documentario. Tutto questo materiale fa oggi parte dello sterminato archivio della Fondazione che porta il nome del regista. La grande ossessione da lui maturata negli ultimi anni riguardava ciò che avrebbe lasciato dopo la sua morte. Per questo fu sua premura raccogliere il suo patrimonio artistico - 60 anni di carriera sotto forma di pellicole, lettere, foto, materiale inedito - e dargli una collocazione unitaria. Nel 2002 è nata la Ingmar Bergman Foundation, con sede a Stoccolma, la cui sterminata collezione è stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO. Molti di quel filmini sono stati girati proprio sull'isola di Fårö, a dimostrazione dell'importanza che quel luogo ha avuto per il Bergman regista, ma ancor di più per Bergman uomo.

Quell'isola è stata prima fonte di felice ispirazione artistica, poi silenziosa e serena casa dove riposare. Oggi è diventata una sorta di luogo mitico e di culto per i cineasti di tutto il mondo. 

Giuseppina Dente  03/05/2018

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