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Inarrestabile Mara Maionchi. Classe 1941, donna di ferro, produttrice discografica, che vanta nel suo curriculum la scoperta di e la collaborazione con numerosi talenti della musica italiana (da Fabrizio de André a Gianna Nannini a Tiziano Ferro): Mara Maionchi quest’anno si sdoppia.

Già giudice dell’edizione 2018 di X-Factor – quest’anno gestirà la categoria degli Under Uomini – e conduttrice per due anni dello spin-off Xtra Factor, la produttrice bolognese dal 29 ottobre al 2 novembre condurrà un nuovo programma: “Mara Impara – La nuova musica”. Andrà in onda su Sky Uno alle 19:25, con replica alle 13:00 e alle 16:45 del giorno successivo, e sarà disponibile anche su Sky On Demand

Come da titolo, la veterana dell’industria discografica italiana si renderà disponibile a esplorare il mondo degli astri nascenti della musica nostrana. Cinque puntate monografiche, ognuna con un ospite diverso, che Mara Maionchi si premurerà di intervistare, per conoscere meglio la persona dietro l’artista ma anche per approfondire la loro produzione musicale.

Mara Impara 2

I cinque ospiti scelti sono personaggi noti soprattutto ai giovanissimi e ai frequentatori delle nuove tendenze rap e pop: Achille Lauro, Cosmo, M¥ss Keta, Nitro e Takagi&Ketra. Questi ultimi e Achille Lauro non sono nomi nuovi neanche agli affezionati di X-Factor: sia il duo di produttori dietro “Assenzio”, “Vorrei ma non posto” e “Roma-Bangkok” che il rapper romano hanno fatto la loro comparsa durante gli Homevisit, per consigliare, rispettivamente, Fedez e la stessa Mara Maionchi durante la scelta dei concorrenti che sarebbero arrivati ai live.

La struttura della trasmissione prevederà ogni sera che la conduttrice, seduta nel suo salotto, chiami il misterioso Mr Billboard per trovare l’artista che sederà accanto a lei e sarà il soggetto unico della puntata. Ovviamente, quello che aspetta lo spettatore non è un semplice approfondimento ma un’intervista condotta secondo gli standard intelligenti e salaci, a cui Mara Maionchi ci ha abituato già come giudice inflessibile durante le passate edizioni del talent musicale di punta di SKY. Mara Impara 3

A promuovere questa iniziativa c’è Billboard Italia, che con “Mara Impara” ha realizzato il suo primo format televisivo in Italia. Il magazine è arrivato in Italia un anno fa, grazie alla mediazione di Parcle Group, e ha fin da subito avuto come obiettivo principale quello di creare una piattaforma multimediale, per avvicinare il variegato mondo dell’industria discografica (fra major, indipendenti, radio e artisti) a un grande pubblico, sempre più desideroso di approfondire con l’aiuto di una giusta guida. E scegliere uno spirito critico, esperto di questo mondo, come Mara Maionchi va senza dubbio in questa direzione.

Adesso tocca aspettare il 29 ottobre, per scoprire quanto potrà essere efficace questo programma. L’intento è nobile: esplorare l’innovazione musicale in tutte le sue sfaccettature e senza riserve snobistiche di sorta. Il buon risultato potrà essere garantito solo dallo spessore artistico e umano degli ospiti.

Di Ilaria Vigorito, 23/10/2018

Francesca Incudine è ormai pronta a ricevere sul palco del Tenco 2018, il prossimo 20 ottobre, la Targa Tenco per migliore disco in dialetto con il suo Tarakè, secondo dopo Iettavuci (2013), esordio già capace di raccogliere attorno a sé attenzioni e premi della critica. Tarakè è un altro passo deciso sul medesimo sentiero: musica tra il popolare e il fiabesco, con il primo aspetto rappresentato da ritmi spesso saltellanti e un siciliano, nel testo, onnipresente, e il secondo raggiunto da armonie corali e strumentali tipiche del folk internazionale.
Ago della bilancia, anzi, ponte solido tra i due argini è la voce brillante a suo agio nel raccogliere qui l’euforia di un “ta ra ra” e altrove nel comunicare, oltre la comprensione, le emozioni sonore di un gergo non sempre facilmente digeribile. Molte tracce, infatti, già dal titolo presentano dialettismi. Tuttavia, anche laddove non si mastichi siciliano, il messaggio musicale resta sempre integro, talvolta persino rinforzato nel suo aroma di mistico e lontananza.
È così che si arriva a comprendere il punto forte di Francesca Incudine. La sua opera non è duplice, contesa tra la Sicilia e il resto del mondo. Tarakè, al contrario, è un unicum, bagnato allo stesso tempo dall’acqua salata del nostro mare e dalla rugiada di boschi notturni, lontani, abitati da creature magiche e storie cavalleresche. Difficile non pensare a suggestioni celtiche del folk, al sopraggiungere dei flauti (“Rosa Spinusa”, “Tarakè”, “Dormi figghiu”, “Na bona parola”).
Sul resto dell’arrangiamento strumentale, la chitarra acustica la fa da padrone, incaricata pure di scandire il ritmo stesso delle tracce, a volte esclusivamente, altre volte anticipando per ordine e importanza la sezione dei tamburi (deformazione professionale dell’autrice, amante dello strumento sin da adolescente). Su “Tarakè”, che dà il nome all’album, la ritmica è tanto centrale che, quando cambia d’improvviso, dona l’impressione di aver ascoltato due canzoni diverse.
Chiudono il cerchio influenze, saltuarie ma potenti, di acoustic pop, che però in questo particolare contesto musicale più che avvicinare l’album alla scena musicale attuale, lo fanno assomigliare alle atmosfere empatiche del musical (fatta eccezione per la brevissima contaminazione di autotune, in apertura di “Linzolu di mari”). Questo avviene ciclicamente durante l’ascolto dell’intero disco, e come una profezia auto-avverantesi, diventa consapevolezza più forte in chiusura e, fortissima, nell’ultima, undicesima canzone, la gioiosa “Come fussi picciridda”.

Andrea Giovalè  

18/10/2018

L’evocativo “Lingue” di Tommaso Di Giulio, prodotto da Leave Music, è un album pieno di parole e di storie, ma comincia con una semplice immagine sonora, emblematica della stagione estiva: frinire di cicale. Immediata è l’associazione al caldo, al mare, ai nostri ricordi in spiaggia. Si apre così (e si chiuderà, pure) un’amplissima serie di nostalgiche polaroid musicali, canzoni che, spesso e volentieri, ci distraggono da loro stesse per farci viaggiare con la mente.
Non è un caso, affatto, che l’operato di Tommaso Di Giulio sia stato definito appartenente al genere del “pop cinematografico”. In effetti, non sarebbe difficile accostare "A chi la sa più lunga" o "Prendiamo esempio", tanto per fare due titoli, ai vecchi e gloriosi film di Aldo, Giovanni e Giacomo o a altri modelli positivi del cinema italiano. tommaso 2Ma la ragione autentica di tale meccanismo è, a pieno titolo, ben più profonda.
Il cantautore combina spesso e volentieri un accompagnamento strumentale ricco, un ritmo morbido e frammenti di testo volti a dipingere non una trama precisa, ma a suggerirne tante, diverse e composite. Per questo la nostra memoria, che funziona allo stesso modo, trova in “Lingue” note perfette per reagire, agitarsi e ascoltarlo insieme a noi. Il disco diventa un caleidoscopio rotante e colorato attraverso cui rivivere tanto del nostro passato, sbirciando forse qualcosa di quello di Tommaso Di Giulio.
La voce, a metà tra Silvestri e Grignani, accarezza storie quel tanto che basta per lasciarcele immaginare. È la potenza visiva di questo tipo di musica che fa pensare al cinema, ma quello dell’autore, più che cinematografico, è “pop audiovisivo”. Un qualcosa che precede, e ora va oltre, l’attuale categoria onnivora dell’indie, anche se ne subisce inevitabilmente la pesante influenza. "Le notti difficili", a esempio, somiglia all’ultimo Calcutta, "L'umidità" (che azzarda, peraltro, una spruzzata di autotune) invece ricorda vagamente i primi The Giornalisti.
Tommaso Di Giulio, classe 1986, non è tuttavia elemento passivo di un fenomeno musicale come quello odierno. Al contrario, ne è parte integrante, e dopo nove tracce spese a delineare il suo preciso ego musicale, premia l’ascolto con un’ultima gemma: la lenta ballata di pianoforte "Quello nello specchio", dalle sonorità blues e il canto quasi recitato, a sigillare anche la dedica del disco intero, a suo padre. Un intimo arrivederci, suonato poco e sottovoce, che più di altre canzoni rivela il carattere dell’uomo dietro l’autore. Un’occhiata sfuggente, per l’appunto, all’uomo nello specchio, prima di tornare alle cicale.

Andrea Giovalè 25/07/2018

È stato tuffo nel passato, ancora recente, e qualche anteprima di un futuro tutto da sentire, il concerto di Maldestro a ‘Na cosetta estiva. Il cantautore napoletano è tornato a Roma, domenica 8 luglio, per riabbracciare il suo pubblico e per presentare sul palco alcuni inediti che confermano, ancora una volta, la sua scrittura sempre più matura e la voglia di continuare a raccontare la realtà intorno, quella che, ad esempio, vive “Tra Venere e la Terra”, ossia a Scampia, quartiere di Napoli in cui Antonio Prestieri è nato e cresciuto e che gli ha regalato una grande sensibilità umana e artistica. Non è la prima volta che l’artista omaggia la sua terra attraverso la musica; proprio nell'album di esordio - dal titolo “Non trovo le parole” -, è presente “Io sono nato qui”: una poesia tanto evocativa quanto malinconica, suggestiva e vera nella sua capacità di descrivere una porzione di mondo “dove le vele hanno una rotta da seguire, dove chi sogna di poterci rimanere, dove chi crede che è possibile cambiare e da un balcone vedere persino il mare”. maldestro-foto-2016
È con il fortunato brano “Abbi cura di te” che inizia il concerto a ‘Na cosetta estiva; Maldestro viene accompagnato dalle voci del suo pubblico, da chi lo stava aspettando da tempo nella Capitale e da chi era lì per la prima volta, con la sensazione di conoscerlo da sempre, per le storie di vita che canta, in cui è possibile rivedere uno o tanti nostri momenti. È il caso, ad esempio, delle parole di “Sopra il tetto del comune” – brano vincitore della XXV edizione di Musicultura – oppure di “Dannato amore”, storia che ha il sapore di whiskey e di carnalità, o “Dimmi come ti posso amare”, che disegna la sensazione di precarietà economica e, di conseguenza e in maniera forzata, di quella sentimentale in cui siamo intrappolati, le stesse a cui cerchiamo di sfuggire coltivando attimi fatti di sguardi e di certezze che si possono avere solo tra le mani, scavalcando le domande sul futuro. Il pubblico di ‘Na cosetta aveva già ascoltato dal vivo i pezzi del secondo disco – “Che ora è”, “Prenditi quello che vuoi”, “Arrivederci allora”, “Io non ne posso più” e “Tutto quello che ci resta” -, in occasione del tour solo acustico durante la scorsa stagione invernale del locale romano; questa volta invece Maldestro li ripresenta sotto una nuova veste, grazie agli arrangiamenti rivisitati con la collaborazione dei suoi nuovi compagni di viaggio, Paolo del Vecchio (bouzouki, chitarra elettrica, mandolino, ukulele), Luigi Pelosi (contrabasso), Sara Sgueglia (percussioni, tastiere, cori), Nicolò Fornabaio (percussioni, batteria). Non poteva poi mancare in scaletta “Canzone per Federica”, presentata sul palco dell’Ariston nel 2017, quando il cantautore napoletano si è aggiudicato il secondo posto a Sanremo Giovani e ha ottenuto grandi riconoscimenti artistici, tra cui il Premio della Critica Mia Martini.
Con la chitarra tra le mani, in attesa di essere suonata, Maldestro si lascia andare a riflessioni sull’attualità, pensieri da condividere con la speranza di essere non solo ascoltati, ma percepiti nella loro grande forza: così lui, poco prima di cantare “Sporco clandestino”, ha voluto dare sfogo, nel suo piccolo, davanti a un microfono e di fronte a occhi attenti, all’insofferenza della società in cui viviamo, la stessa in cui, ricorda bene, l’attuale Ministro dell’Interno sta seminando il terrore nei confronti delle tante persone che lasciano la propria casa per tentare di vivere; però le parole di Maldestro ci ricordano che siamo tutti stranieri, estranei al mondo e a noi stessi, diversi nella concezione più affascinante, più ricca e non sappiamo, a volte, riconoscere il bello in questa nostra forza. Ci si aiuta così, con la musica e la poesia, a riscoprire noi stessi, impolverati dalla cattiveria umana, bersagliati da voci che conducono ad altre voci, come quella del verbo “annegare”, e azioni che dovrebbero non appartenerci.
E allora “Arriverà la pace”, si augura il cantautore in un suo brano: un gesto di speranza, la voglia di una consapevolezza che, si spera, possa essere non troppo remota, ma più vicina possibile ai nostri giorni, agli uomini che fuggono da guerre civili, interiori, dalla malattia della povertà d’animo. Chi andrà ai prossimi concerti di questo tour estivo dell’artista partenopeo avrà anche il piacere di ascoltare, per la prima volta, “Dadaista”, “Tutto come prima”, “Treni a vapore” e “Catene”.
Il concerto termina con un abbraccio, tra Maldestro e i musicisti, con lo sguardo del cantautore nascosto dagli occhiali, che memorizza i volti di chi era lì per condividere una serata di suoni, di parole che si rincorrono in versi, di brindisi e di auguri, quelli che sfidano la guerra e la paura a ritmo di poesie e di applausi.

Lucia Santarelli 10/07/2018

 

Da Pantelleria a Roma. Questo è il viaggio di Danilo Ruggero, siciliano trapiantato nella Capitale cinque anni fa. Cinque sono anche le canzoni del suo primo EP "In realtà è solo paura", in cui il cantautore siculo classe ’91 attraversa i suoi ultimi anni condensandoli in brani intensi che passano da racconti intimistici ad altri più universali, oltre ai quali però non mancano critiche aspre ma dannatamente attuali del mondo che ci circonda.
La regista palermitana Emma Dante ha portato il dialetto siciliano a teatro, proponendo non solo storie di Sicilia, ma ricreando atmosfere in cui i sentimenti più profondi dell’Io e un’estetica eterea erano protagonisti di storie umane. Allo stesso modo Ruggero propone, in brani come "Agghiri ddrà" o "Damu foco ai pinsera", testi in siciliano che però non escludono coloro ai quali il dialetto non è familiare, ma anzi li invitano, con musicalità acustiche in cui la voce è accompagnata maggiormente dalla chitarra, ad entrare in questo microcosmo di storie di umanità. "Agghiri ddrà" racconta degli sbarchi in Sicilia, tematica molto sentita nella sua isola di origine, Pantelleria, descritta dal punto di vista di chi arriva. Ma questo brano inruggero1 dialetto siciliano è anche la storia di chi abbandona la propria terra e approda in una sconosciuta, che risulta diversa da come ce la si era immaginata. Danilo Ruggero spiega così il brano "Damu foco ai pinsera": ”è per me forse il brano più importante dell’EP, forse per come mi ci sento emotivamente legato [...]. La mia prima canzone in dialetto, nata forse per sbaglio, in maniera istintiva e poco consapevole a Pantelleria. […] Racconto di come possa accadere di rimanere attaccati, incastrati al proprio passato e di come questo possa condizionare irrimediabilmente ogni scelta futura.”
Non solo coraggio quello di Danilo Ruggero, ma forse anche un po’ paura, una paura però che tramuta in fucina creativa esprimendone le sfumature in ognuno dei 5 brani. Il fil rouge che unisce l’EP d’esordio è sicuramente l’esperienza di vita del cantautore, che descrive la sua crescita musicale e personale, i suoi timori nel tentare di pubblicare i suoi brani per la prima volta e la paura che sta dominando il mondo reale e virtuale, e lo fa però non diventando autoreferenziale, ma ampliando la sua storia in pezzi universali e coinvolgenti, che fluttuano dal folk a brani più cantautoriali, fino a pezzi di matrice pop rock. Il genere è vario, ma allo stesso tempo rimane coerente all’interno di tutto l’EP.
Il cantautore è al momento finalista al Premio Fabrizio De André 2017 con il brano "I figli dei figli degli altri", nel quale articola le paure della società attuale: dalla minaccia concreta del terrorismo fino all’ipocrisia e alla finzione che impera nella realtà di oggi, specialmente quella dei social, la cui più grande paura è forse quella di doversi mostrare ed essere riconosciuti socialmente; un brano duro e sincero: “Le coscienze pulite, l’occidente, le bombe le barriere occidentali, il gioco del terrore, le nuove frontiere del turismo sul barcone. [...] con chi pensa che vada sempre tutto bene e si abitua a dire che è normale fino a quando non succede a due centimetri dal cuore e se succede il dito sul fucile o sulle tastiere. Tutti pronti a sparare.”

L'EP si chiude con "È una questione di scelta", brano 'dedicato' a coloro che non scelgono mai la strada più corretta, ma barano per arrivare, e con "Lo spazio", unica canzone d'amore. "In realtà è solo paura" è un EP sincero, che racconta l’essere umano e la società di oggi senza filtri, così com’è.

Foto a destra: Tamara Casula

Giordana Marsilio 19/06/2018

Oggi avrebbe 80 anni. Nel maggio del ’68, ne aveva 30. In quasi quarant’anni di attività, ha avuto il tempo di comporre numerosi tasselli centrali, nel ricco puzzle del cantautorato italiano, di raccontare storie con la delicatezza e l’eloquio della poesia, forte di un’incrollabile raffinatezza musicale. È Fabrizio De André, artista amato e apprezzato quanto, talvolta, contestato, frainteso. È naturale, quando un genio compositivo si scontra con una qualsiasi cultura, persino se è quella in cui nasce, che questa reagisca in maniera complessa e composita, come lo stesso compositore è cresciuto reagendo irregolarmente al proprio contesto sociopolitico.
Ma, oggi, cosa è cambiato nella nostra percezione di De André? Più difficile ancora, qual è la percezione che ne hanno le generazioni nate senza di lui? Alla Sala Umberto di Roma, il 21 maggio, per l’appunto, ottantesimo anniversario della sua nascita, lo spettacolo musicale del gruppo Mercantinfiera2.0 spazia tra questa domanda e un’altra, opposta, istanza. Da una parte, la ricerca della sua eredità, della sua resiliente attualità, dall’altra la (legittima) celebrazione malinconica di una personalità musicale e poetica la cui eco risuona ancora nei cantautori odierni.

Foto ninè ingiulla e mercantinfiera 2.0.jpgIl tributo che ne risulta, intitolato “Anche se il nostro maggio…”, è una composta riscoperta della sua opera, con particolare attenzione letteraria al disco post-’68, il suo “Storia di un impiegato” arrivato nel 1973 dopo una riflessione lunga un lustro sull’annosa, e mai sanata, questione dell’impegno politico. Districa i nodi del disagio del cantautore, nell’accettare tale impegno, o del parziale sollievo nell’universalizzarlo, il doppio intervento dello scrittore e critico Stefano Gallerani.
Il gruppo musicale, invece, guidato dalla voce faberiana di Ninè Ingiulla, si produce in un’inevitabilmente crudele ma puntuale selezione di brani, dai classici ai più controversi, eseguiti tutti con fedeltà e ricchezza di arrangiamenti (d’altronde, la prima richiede la seconda). La formazione, fortunatamente, lo permette: Giovanni Baldin a tastiere e chitarra, Eleonora Elio al violino, Maurizio Leone ai fiati, tanti e tali che gli valgono una nota di merito, Paolo Pasqualetti alle chitarre e mandolino, Giovanni Romio alla batteria e Giampaolo Roncoletta al basso.
Allo show, preciso e distinto, forse non guasterebbe un pizzico di energia in più, scatenata dal semplice alzarsi in piedi degli interpreti, stavolta soltanto saltuario. Impossibile, però, non restare convinti da una performance preparata e solida, protesa nel giorno della mancata ricorrenza più alle generazioni nostalgiche che all’esplorazione delle nuove. Dimostra, a ogni modo, il grande coraggio di confrontarsi con un mito titanico e complesso come quello di Fabrizio De André. Lui, ne siamo certi, è ancora lungi dal cessare, ogni giorno, d’essere riscoperto.

Andrea Giovalè 22/05/2018

"NuoveCanzoni" è l’ultimo disco di inediti di Edoardo De Angelis e segna l’esordio dell’etichetta Il Cantautore Necessario. “Ecco che arriva il tempo di celebrare il tempo”, canta l’autore romano, che omaggia le sue poesie in una raccolta di canzoni che attraversano le tante sfumature di sentimenti come l’amicizia, la gratitudine, la malinconia.
Si tratta inoltre di un album considerato un gesto d’amore verso la musica, racchiuso in dodici tracce. “Cerco un filo rosso, una ragione che leghi e tenga insieme le undici canzoni di questa raccolta, un cestino di frutti diversi uno dall’altro. Direi che questa volta i fili sono due: il tempo, la sua trama invisibile mai ferma che lega passato e futuro e ci fa toccare il presente e, ancora una volta nelle mie storie, il valore del confine. Quella linea sottilissima, elastica, mutevole che divide, ma tiene vicine, la realtà e l’immaginazione”: questa è la premessa che De Angelis ha tenuto a precisare, nel booklet di "NuoveCanzoni".1525119631edo
Il disco si apre con "Il mago e le stelle" e termina con la seconda parte del brano, una bonus track solo strumentale: un percorso circolare che vede nell’inizio e nella fine una struttura equilibrata, un ciclo che ha un punto di partenza che converge verso un approdo, il proseguimento di una storia la cui trama, ora, viene affidata all’ascoltatore e al sentimento che la melodia riesce a suscitare in esso; un atto di fedeltà e di fiducia, quello del cantautore nei confronti dell’animo umano. "Abbracciami", seconda traccia del disco, è stata scritta a quattro mani con Fabrizio Emigli; l’amore, qui, ammutolisce le voci, mentre le braccia si fanno casa, fortezza di un affetto sfuggente, ritrovato o da ritrovare. Poi c’è "Anna è un nome bellissimo": una dedica ad Anna Magnani, l’”attrice romana, così fragile e forte che tutto il mondo ama, perché da quello sguardo fioriscono parole che scaldano un sorriso”. È una ballad dai toni folkloristici - dettati anche dall’organetto di Alessandro D’Alessandro - da tratti popolari e genuini, caratteristiche poi tipiche della Magnani.
Con "Sponde", De Angelis torna a cantare del suo impegno civile che si fa portavoce, con musica e parole, dell’annientamento dei mali del tempo, dell’ignoranza nel concepire “nemico” un individuo. "Galileo", sesta traccia del disco, ha invece una storia lunga alle spalle: “Trent’anni, il tempo occorso per scriverla, dalla prima all’ultima nota. Non voleva uscire dal cassetto, questo segno d’amore per la libertà dell’uomo, per il valore delle sue idee. Poi ho pensato che dovesse essere Galileo stesso a parlare, ho aspettato che lo facesse e fedelmente ho riportato le sue parole e il suo pensiero”.
Il concetto di tempo ritorna più volte nell’album: dopo l’elogio della sua attesa in "Arriva il tempo", ci sono "Il Tempo sconosciuto e Alleggiu", canzone di Ezio Noto e Francesco Giunta; tre concezioni diverse di intendere, aspettare o percepire un attimo, come un qualcosa che viene da sé, che hai sempre atteso e incontrato, oppure come un concetto estraneo, a cui non riuscire a dare un nome.
C’è anche il momento di una preghiera laica, quella di Ibrahim in " Padre nostro"; tra le parole e tra i suoni, più cupi, s’invoca un “Dio degli invisibili, con le braccia aperte e senza religione”, quando si è in balìa delle onde in un mare in tempesta, in un mondo dove la terra, quella che gli uomini dominano con prepotenza, è amara e inospitale; un bambino che dovrebbe essere cullato dal rumore dell’acqua, viene invece spaventato da un incubo troppo attuale, troppo vero, quello dell’immigrazione, della partenza alla ricerca di un posto da sentire casa, dove poter vivere senza sentirsi in colpa di esistere.
Le percussioni e poi la chitarra introducono le parole di "Scegli il nome di un fiore", un rimando alla poetica di Goethe e alla sua Gefunden, un componimento, questo, che ha segnato l’animo bambino e poi adulto del cantautore. In "Una notte romana" ritroviamo l’uomo che vaga tra le strade della sua città, che viene spesso elogiata, amata nelle produzioni dell’artista e che rappresenta la certezza di essere casa, confidente e compagna: “Anche questa è una storia vera, passo per passo, un breve film girato in una delle piazze più belle di Roma. Quattro protagonisti e il racconto di un nodo di amicizia che lentamente si scioglie, nell’indifferenza dei sentimenti e dei palazzi intorno”.
"NuoveCanzoni", i cui arrangiamenti sono stati curati con maestria da Primiano Di Biase, è il frutto di un intenso lavoro in cui hanno collaborato grandi musicisti come Fabrizio Guarino, Simone Federicuccio Talone, Guerino Rondolone, Nhare Testi, Fabrizia Pandimiglio, Alessandro D’Alessandro, Giovanni Pelosi e Alessandro Tomei.
È dunque un album che testimonia come Edoardo De Angelis riesca sempre a far vivere, con parole gentili e vere, quella poesia che è baluardo della canzone d’autore.

Lucia Santarelli 28/05/2018

Roma, 10 maggio. Il tempo dà una tregua, dopo la pioggia, e lo fa nel momento giusto. Al botteghino del Quirinetta c’è molta gente e manca ancora qualche minuto prima dell’atteso concerto di Mirkoeilcane. In strada, sui marciapiedi a due passi dal locale, vicino al palco, al bancone del bar, ci sono i suoi amici, quelli di sempre o che adesso stanno iniziando ad amarlo, quelli che lo conoscono da una vita o che lo hanno scoperto per caso, ai suoi live per l’Italia e chi a Musicultura, ad esempio; i parenti si guardano intorno, i fan temporeggiano a ritmo di aneddoti sui brani, su come abbiano conosciuto il loro Mirko, “Aò ma te ricordi quanno lo sentimmo per la prima volta?”; poi ci sono i sostenitori “che osano ‘npo di più”: si riconoscono da magliette personalizzate e palloncini verdi, appartengono alla cerchia del Fanclub ufficiale di Mirkoeilcane; loro sono i “pocodemoscopici”, dicitura che ha tutta una storia dietro, che forse sarebbe meglio indagare sulla loro pagina Facebook dove, perché no, iscriversi per condividere video, foto, impressioni e storie. Tra tutti, poi, ci sono tante coppie di fidanzati in attesa di cantare il brano che fa da sottofondo alla loro storia, “quella che mi ricorda la volta in cui”; sì, questa potrebbe anche essere interpretata come un’immagine a tratti ansiogena, però per i più romantici potrebbe apparire come una bella cartolina di una serata da condividere con una persona importante.Mirkoeilcane
In ogni caso erano moltissime le persone al Quirinetta, per la prima data romana del tour “Poco demoscopico” del cantautore. Tutti, chi per un motivo e chi per un altro, erano lì per abbracciare la musica di un ragazzo che, dopo la giusta gavetta, il successo a Sanremo Giovani e dopo aver calcato il palco del concertone del Primo maggio, sta continuando la sua carriera in ascesa senza snaturarsi, mantenendo l’ironia che lo contraddistingue anche quando dice di essere un “cantautore triste”, che sta avendo successo.
Questo lo dimostra il fatto che sul palco Mirko Mancini entra con i suoi compagni di viaggio, gli amici, musicisti che meritano di essere al suo fianco e viceversa: Domenico Labanca (tastiere), Francesco Luzio (basso) e Alessandro “Duccio” Luccioli (batteria). Il concerto inizia partendo dal passato, con i pezzi del suo primo disco omonimo: “Salvatore”, “La giuria”, “La fre(tta)”, “Lady di ghiaccio”, “Incontriravvicinatidelterzotipo”; poi il pubblico rimane in silenzio, all’ascolto del racconto recitato di “Stiamo tutti bene” - brano presentato lo scorso febbraio sul palco dell'Ariston -, che non ha bisogno di essere interpretato o di essere canticchiato, perché è forte, soprattutto tristemente vero. Il silenzio intorno aiuta a sentire, mentre gli occhi sono chiusi.
Mirkoeilcane5Il tempo per ballare e per cantare c’è, con “Epurestestate”, “Se ne riparla a settembre”, “Gusti”, brani contenuti nel secondo album “Secondo me”; e dopo arriva “Beatrice”, duetto con Ilaria De Rosa. Nel frattempo volano palloncini verdi e rossi, quando Mancini e la sua band si divertono con il loro pubblico. Lo meritano, come meritano le canzoni di essere condivise.
Poi non può che arrivare il momento di “Per fortuna”, canzone vincitrice della XXVIII edizione di Musicultura, e che aspira, con il tempo, ad avere sempre più rilevanza, per la vicenda raccontata, nel momento storico che stiamo attraversando; così è anche per “Ventunorighe”, che ricorda uno e tanti Morelli Alberto, di uomini messi in bilico da una società che non è in grado di garantire la dignità di un posto nel mondo e semplicemente, dunque, la vita. Dopo un sorso al bicchiere, Mirko Mancini è pronto per fare di nuovo un passo indietro, in quell’istante in cui tutto è iniziato con “Whiskey per favore”. Poi tutti intonano un coro, a volte anticipando le strofe, presi dalla volontà di condividere ogni istante della serata, in un giorno importante per un cantautore che si esibisce nella sua città, quella rievocata in “Da qui”. Alcuni si stringono forte abbassando lo sguardo, quando viene eseguita “Sulle spalle di Maria”. Loro sanno bene il motivo. 
Il concerto è a pochi minuti dal termine ma già viene richiesto il bis, che non tarda ad arrivare con “Gusti” e “Se ne riparla a settembre”. Si spengono i riflettori sul palco del Quirinetta, ma il tour di Mirkoeilcane continua; dopo esser stato inaugurato alla Santeria Social Club di Milano, passando per il Vinile a Bassano del Grappa, sono in programma per ora altre sei date in giro per l’Italia, ad Aversa (CE), Livorno, Ancona, Torino, Bologna e Sant’Egidio alla Vibrata (TE).

Lucia Santarelli 11/05/2018

 Photo credits: Viticulture Quirinetta

La primavera romana è più torrida che mai ma i ROS – Camilla Giannelli, Kevin Rossetti e Lorenzo Peruzzi – misurano già a grandi passi i locali ancora chiusi del Quirinetta, dove si consumerà la tappa conclusiva della prima tranche del #Rumoreintour. La penombra indaffarata dell’ingresso è interrotta solo dal rumore dei tecnici, impegnati a scaricare e montare tutta la strumentazione. I ROS hanno molto da dire, tanto che le domande sembrano non bastare, e il tour che sta per concludersi è solo un pezzo della lunga chiacchierata che abbiamo fatto con loro.

Siete alla tappa conclusiva del vostro #Rumoreintour: come è andata questa avventura nei club? Com’è trovarsi davanti a un pubblico radunato a cantare le vostre canzoni?
Camilla Giannelli: La prima cosa che mi viene da dire è: una bomba! Per la prima volta suoniamo in tutta Italia, nei club a cui abbiamo sempre aspirato, e finalmente siamo tornati a farlo davanti alle persone e non davanti a uno schermo televisivo. L’avventura di X Factor (i ROS sono stati eliminati in semifinale nell'edizione 2017 del talent di Skyuno, ndr) è stata funzionale per quello che vogliamo fare, ma è stato un piacere potersi ritrovare di nuovo a cantare per un pubblico che è lì per noi.

Il 10 aprile avete aperto il concerto degli Afterhours al Forum di Assago. Com’è stato ritrovarsi in un contesto molto più grande e caotico dei club?
Kevin Rossetti: Sicuramente abbiamo notato la differenza, poi il Forum era anche sold out quindi ci siamo trovati davanti a un mare di gente. Abbiamo suonato e abbiamo spaccato in ogni caso.
C.G.: Diciamo che nei club abbiamo di più il controllo della situazione. Lì invece è stato un po’ come vivere un sogno in terza persona: siamo saliti sul palco, ci siamo goduti la folla ma è stata un’esperienza quasi straniante per noi.

Nel vostro tour state presentando in anteprima anche alcuni inediti che finiranno nel nuovo disco. X Factor vi aveva abituati a lavorare sulle cover, com’è stato tornare a poter esprimere la vostra voce?
C. G.: Innanzitutto non ci siamo mai abituati a fare cover. Noi avevamo già molti pezzi nostri, ma abbiamo scritto anche “Rumore” durante X Factor, perché dopo un po’ le cover erano diventate un peso. Le abbiamo solo sfruttate per capire al meglio il nostro sound. Al Quirinetta porteremo il passato con i nostri vecchi inediti, il presente, quello che è stato il percorso a X Factor, e il futuro, quello che sarà il nostro disco. Sono i pezzi originali, in fondo, che fanno l’essenza di un gruppo.
ROS 3
Come avete vissuto il passaggio a X Factor? E cosa vi ha lasciato l’incontro con Manuel Agnelli?
C. G.: Abbiamo scelto di partecipare a X Factor con l’intenzione di provare tutte le strade. Eravamo pronti a mollare, nel caso non si fosse rivelato il format giusto per noi, ma anche ad andare avanti, se invece avessimo trovato quello che cercavamo. Sapevamo che c’era Manuel Agnelli e speravamo di lavorare con lui. Il caso ci ha accontentati e, fuori da ogni aspettativa, si è rivelata un’esperienza molto formativa. Abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con professionisti veri come Manuel e Rodrigo (d’Erasmo, ndr) e abbiamo preso da loro tutto ciò che di formativo e musicale ci potesse essere, al di là della televisione. Ci sentiamo già cresciuti sotto molti punti di vista.

Dal vostro percorso a X Factor si evince che avete lavorato molto anche sulla tecnica. Nel mondo della musica quanto pesa il talento e quanto pesa educare le proprie abilità per andare avanti?
Lorenzo Peruzzi: Allenarsi pesa, perché la tecnica fa da base. Se non ci fossero le conoscenze tecniche, tutto quello che poi sentono gli ascoltatori, anche quelli non addetti ai lavori, sarebbe di qualità pessima. Non si tratta di perdersi in tecnicismi e virtuosismi, quanto di avere la capacità di offrire all’audience il miglior prodotto possibile.
C. G.: Purtroppo in Italia non è sentita tanto l’esigenza di saper padroneggiare la tecnica, infatti c’è chi sfonda pur non avendo alcun tipo di base. Però per noi saper suonare e andare sul palco con la consapevolezza di saper fare musica è molto importante. Cerchiamo di rivolgerci a quella parte del pubblico che ama sentire gli strumenti e non si ferma al tormentone.

Quali sono le vostre figure di riferimento, quelle da cui siete partiti per arrivare qui?
K. R.: Per me i Muse e i Foo Fighters.
L. P.: Per me Jack White, i Placebo, i Royal Blood.
C. G.: Io direi i Rage Against the Machine, gli Arctic Monkeys e tutta quella che è la scena internazionale del rock moderno. Ci appigliamo un po’ a quella ma poi cerchiamo di riportare tutto sul suolo italiano, rifacendoci anche a gruppi come gli Afterhours, i Verdena, i Prozac+.

Voi avete molto insistito a cantare in italiano, pur facendo un rock che ha anche venature internazionali. Come mai questa scelta?
C.G.: Nonostante i ROS siano nati da me e Kevin, è stato Lorenzo a portare questo suono più italiano nel gruppo. All’inizio eravamo un po’ spaventati, ma si è rivelata la scelta più giusta, ed è diventata il nostro marchio di fabbrica. Facciamo un genere dal sapore più internazionale, ma lo riportiamo alla realtà italiana. È stato stimolante poter creare sonorità con la voce in italiano, è stato anche difficile ma è molto bello potersi esprimere e sapere che quello che stiamo dicendo lo stanno capendo tutti gli ascoltatori.

Siete pronti per il concerto? Come pensate che andrà?
L. P. Stasera sarà la perfetta conclusione di questa prima tranche di tour.
C.G.: Questa sera vogliamo dare tutto. Abbiamo preso qualcosa dal pubblico in ogni club e porteremo sul palco davvero tutto quello che è #Rumoreintour e che siamo noi come gruppo.

ROS 4
Le attese non vengono smentite. Quando, alle dieci e mezza, lo spettacolo comincia, nessuno dei ROS è intenzionato a scendere dal palco senza aver lasciato un segno sul pubblico. Ragazzini si mescolano a fan adulti e persino i genitori accompagnatori si lasciano trascinare dalla richiesta di Camilla Giannelli di “fare rumore”.
È un mix ben calibrato di cover, vecchi brani e nuovi inediti a riecheggiare fra le pareti del Quirinetta per un’ora e mezza. Tutti e tre i membri del gruppo sono molto più rilassati rispetto alla cornice più televisiva e confezionata di X Factor: Peruzzi e Rossetti producono assoli potenti e la Giannelli dialoga continuamente con i fan, senza mai lasciar scendere la tensione fino all’ultimo bis.
E se l’entusiasmo si spreca sui brani già conosciuti, il pubblico dimostra di apprezzare anche le prime anticipazioni del disco che verrà, da "Selvatica" a "Valzer sul mondo". È un suono potente e arrabbiato quello a cui la band sta lavorando, poco pop e molto duro. I Ros non sono intenzionati a tradire le loro radici.
Hanno ancora molto spazio per crescere, ma quello che hanno messo in scena al Quirinetta si è rivelato uno spettacolo di tutto rispetto – con tanto di incursione adrenalinica della Giannelli fra il pubblico, durante l’esecuzione di "Song 2". Il #Rumoreintour finisce a Roma, con la promessa che dopo ci sarà ancora più rumore da fare. Di quello che fa ballare fino a notte fonda, ovviamente.

Ilaria Vigorito  27/04/2018

Il dittico “Cavalleria Rusticana/Pagliacci”, presentato al Teatro dell’Opera di Roma dal 5 al 15 aprile, dimostra che il teatro lirico ha un cuore vivo e pulsante, capace ancora di appassionare e accalorare il pubblico. Le due colonne della tradizione operistica erano assenti dalla scena romana da quasi mezzo secolo. Ritorno attesissimo, soprattutto per “Cavalleria rusticana” che proprio al Costanzi aveva visto la luce il 17 maggio 1890. Non sorprende, quindi, che già prima della prima il botteghino avesse registrato sold out. La bacchetta vanta il nitore di Carlo Rizzi, al suo debutto romano ma già impegnato con “Cavalleria” all’Opéra Bastille nell’inverno 2016. La regia, invece, porta l’inconfondibile firma di Pippo Delbono. Cavalleria Anita Rachvelishvili SantuzzaEd è qui l’oggetto del contendere, perché sulle performance nulla da eccepire: i “Bravo” riempivano il teatro. Meritatamente. Soprattutto per Anita Rachvelishvili, soprano al suo debutto come Santuzza, e Gevorg Hakobyan, baritono nella doppia veste di Alfio e Tonio: voce piena e avvolgente lui, voce vellutata, materna e accogliente lei, anche quando intona disperata e furente la delusione per il tradimento dell’amato (come nell’insistito “Lola e Turiddu s’amano, io piango, io piango”). Meno convincenti proprio i tenori: Alfred Kim (Turiddu), troppo urlato, e Fabio Sartori (Canio/Pagliaccio), troppo meccanica l’esecuzione di “Vesti la giubba”, più partecipata la scena del doppio assassinio.
Pagliacci Tonio

Si tratta di due esempi sommi del cosiddetto verismo musicale, corrente di difficile definizione che dall’omonima letteratura mutua l’attenzione alla vita vera, ma lo fa con i mezzi a sua disposizione, quella musica ora liturgica ora popolaresca ora sconvolgente e universale. Minore attenzione è dedicata alla denuncia sociale e allo sviluppo psicologico dei personaggi, massimo spazio, invece, alla ricreazione delle atmosfere, sanguigne e popolaresche come il liquido amniotico nel quale si muovono Santuzza, Turiddu, Lola e Alfio in “Cavalleria”, Nedda, Canio e Tonio in “Pagliacci”. La cifra verista e popolaresca è nel dialetto siculo con il quale si apre “Cavalleria” (“si ce muoro e vaju’n paradisu / si nun ce truovo a ttia, mancu ce trasu”, chiosa Turiddu fuori campo), nelle campane che suonano la lòria (ovvero il “Gloria”, lo scampanio tipico della liturgia della notte di Pasqua in Sicilia) e, ancora, nello stornello “Fior di giaggiolo” di Lola. Si gioca poi sui diversi piani, aulico popolare metateatrale, con l’inserimento del minuetto settecentesco, della serenata e della gavotta in “Pagliacci”. È un Meridione sanguigno, arcaico, esotico quello di Pietro Mascagni e Ruggero Leoncavallo. Protagonista indiscussa è la passione. Tanto in Mascagni quanto in Leoncavallo, l’azione ha il suo cardine nel tradimento e nella gelosia coronati dal delitto d’onore. Se in “Cavalleria” il punto di vista scelto è quello della gelosa Santuzza i cui sospetti innescano il dramma, in “Pagliacci” ad essere motore dell’azione è piuttosto la commistione del risentimento di Canio, il marito tradito, e di Tonio, l’amante rifiutato. Se nell’una i sentimenti sono di pubblico dominio, nell’altra, invece, il coro non è onnisciente e al precipitare degli eventi canta attonito “Fanno davvero? Sembrami seria la cosa, e scura!”. Il finale cruento suggella entrambe le opere: in duello muore Turiddu per mano di Alfio, nel teatrino della fiera cadono Nedda e Silvio feriti dal pugnale di Canio. Eppure, dalle due ouverture è possibile trarre suggestioni diverse: delicata e toccante è la melodia che attraversa sinuosa gli archi, il flauto e l’arpa in “Cavalleria”; festosa ed eroica in “Pagliacci”, con un ottavino che fischietta birichino al di sopra di una trionfante fanfara di ottoni e percussioni. Entrambe condividono la grandiosità maestosa e magniloquente cui è abituato certo pubblico di un cinema epico e spettacolare, in particolare al momento dell’intermezzo sinfonico che sospende e rinvigorisce la tensione drammatica arrivata all’apice. 
Cavalleria scena di insieme vino spumeggiante

Già alla fine dell’Ottocento le due opere erano spesso eseguite in forma di dittico. Lecito, quasi obbligato, rappresentare in un’unica serata il duo Mascagni-Leoncavallo. Lecito, del tutto naturale, legarle con un’unica regia e, meglio ancora, con un’unica scenografia (Sergio Tramonti) che ne sottolinei anche visivamente la parentela. Pippo Delbono è chiamato dal Teatro di Carlo Fuortes a produrre un nuovo allestimento di “Pagliacci” da affiancare alla soluzione ideata nel 2012 per la “Cavalleria” del San Carlo di Napoli. Riprende quella immensa camera color cinabro e la fa diventare la chiesa di “Cavalleria” a Pasqua e la piazza di “Pagliacci” il giorno dell’Assunzione. Pur non prestandosi, per verosimiglianza, a simboleggiare contemporaneamente un interno e un esterno, il lavoro sulle luci (Enrico Bagnoli) completa la tavolozza e conferisce assolutezza a un luogo che è nessun luogo e tutti i luoghi, spazio fisico e mentale dell’eterna storia di passione delusa e consumata fino alla morte. I colori carnevaleschi della troupe di pagliacci e maschere itineranti si staccano dall’intonazione autunnale predominante, richiamando gli Arlecchini e i saltimbanchi della pittura di Picasso e di Chagall, mentre nella Sicilia di “Cavalleria” risaltano i colori ancestrali della scialletta scarlatta di Santuzza e la vistina dalla fantasia floreale e dai toni pastello della sensuale Lola. I costumi (Giusi Giustino) anni Cinquanta sono un omaggio all’infanzia del regista (classe 1959) che alla madre e alla Pasqua dedica lo spettacolo, leggendo un personalissimo appello al pubblico prima che il direttore faccia il suo ingresso nella buca dell’orchestra. Ecco la prima intromissione del regista sgradita al pubblico.
Pagliacci Fabio Sartori e Carmela Remigio

Pippo Delbono ha confessato in varie occasioni di essere un direttore d’orchestra mancato: l’orecchio assoluto non bastava, quei legamenti delicati ereditati dal padre violinista dilettante non gli hanno permesso di diventare musicista professionista, ma non gli hanno impedito di sviluppare una sensibilità musicale. Gli spettatori di “Cavalleria” e di “Pagliacci” lo hanno visto così in scena, impegnato ad aprire porte, spostare sedie e dirigere il traffico umano di coro e comparse (inequivocabile il marchio di fabbrica del “Kontakthof” di Pina Bausch, con la quale aveva lavorato durante la sua formazione). In scena accompagna Bobo, l’anziano sordomuto incontrato al manicomio di Aversa e diventato la presenza fétiche dei suoi spettacoli. E danza. Si esibisce in un valzer solitario mentre imita la gestualità di un direttore d’orchestra, seguendo la musica e guidando idealmente i solisti e i maestri del coro in scena. Questo Mascagni e Leoncavallo non lo avevano previsto. Quando il regista si sostituisce a Canio in chiusura di “Pagliacci” (e del dittico) ed è lui ad annunciare “La commedia è finita!”, l’insofferenza del pubblico in sala è alle stelle. E il cortocircuito tra realtà e finzione altrettanto. Chissà, magari oltre a realizzare un sogno nel cassetto, Pippo Delbono ha voluto esplicitare quel conflitto ontologico irrisolto che attraversa da sempre il teatro, da Calderón a Pirandello. L’ammonimento che con tragica ironia Leoncavallo fa pronunciare da Canio alla ribelle moglie Nedda, è sempre valido: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”.

 

Spettacolo visto il 15 aprile 2018
Ph. Yasuko Kageyama

Alessandra Pratesi
26/04/2018

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