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Quando sei un giovane bianco e vuoi farti strada nella Detroit criminale dei ghetti neri non passi di certo inosservato. Né alle gang che ti affibbiano il soprannome più ovvio (White Boy Rick) né alla polizia che cerca di farti cantare. Divisa tra questi due mondi si consuma la caduta senza ascesa del quattordicenne Richard Wershe Jr, il trafficante d'armi che ha scontato la pena più lunga per crimini non violenti nello Stato del Michigan, nonché il più giovane informatore nella storia dell'FBI. whiteboyrick

Poteva una storia vera di questa portata, come non perdono mai occasione di sottolineare i distributori, sfuggire all'industria hollywoodiana? Ovviamente no. La sceneggiatura scritta nel 2015 tratta dal bestseller dello stesso Wershe, l'ingaggio del nome di richiamo (Matthew McConaughey) e la macchina da soldi pronta a partire. Ma non è andata così, c'è stato un intoppo: per tre anni lo script è finito nella black list degli aborti cinematografici, quella dei film che non vedranno mai la luce, destinati a rimanere parole morte sulla carta. Poi la sceneggiatura è stata riscritta da Weiss, Silver e Kloves e il progetto è passato nelle mani di Darren Aronofsky – stavolta nelle vesti del produttore – che ha affidato la regia al francese Yann Demange, fattosi notare per '71, thriller che riesce a far convivere l'anima di genere con la scorza dura del realismo. 

Siamo nella Detroit anni '80 devastata dal crack, e non dalla cocaine richiamata furbescamente dal titolo italiano per attirare i nostalgici di Scarface o dei cloni alla Blow. Mentre Reagan si impegna nella sua personale guerra alla droga, la war on drugs che attira facili consensi marginalizzando gli emarginati, i ragazzi diventano padri per caso, si curano degli AK47, ne sanno riconoscere la provenienza, li truccano e li rivendono al mercato nero. Rick è uno di loro, nato perdente nella shithole – ci si riferisce sempre così a Detroit – la latrina a stelle e strisce dove il sogno americano rimarrà sempre un incubo.

Lo sguardo di Demange indugia sui primi piani del volto innocente di White Boy Rick, alternandoli a tremolanti piani sequenza che si aggirano nel sottobosco corrotto e degradato della Motor City, inferno a luci rosse e blu senza uscite di emergenza. In bilico tra il biopic e il crime movie, Cocaine non riesce a trovare la strada che faccia convivere i due generi: ne risulta una narrazione poliziesca depotenziata e una tragedia umana priva di pathos che tocca il punto più basso nell'anticlimax finale, quando le didascalie prendono maldestramente il posto delle immagini. Possiamo ricavarne due conferme: se una sceneggiatura finisce nella black list, è bene che rimanga lì; Demange conosce bene i trucchi del mestiere ed è un regista da tenere d'occhio.

Alessandro Ottaviani – 4/03/2018

Fonte immagini: comingsoon.it

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