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Confine labile tra fantasia e realtà. Visione sinestetica di un universo cangiante e iperbolico. Gioco metacinematografico perfetto. Questo e molto altro è “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, sogno tramutatosi in incubo perché ritenuto per anni “progetto irrealizzabile” e ora divenuto realtà firmato Terry Gilliam.

Il regista prende solo a prestito il romanzo di Cervantes, qui utilizzato più come canovaccio, che prototesto d’origine da cui attingere pedissequamente. Al centro della pellicola non troviamo infatti la coppia Sancho Panza e Don Chisciotte, bensì Toby, un regista dall’ego smisurato che, per girare uno spot ispirato a Don Chisciotte, ritorna nei pressi di un villaggio spagnolo dove, dieci anni prima, ambientò il suo primo film da studente di cinema, e il calzolaio Javier, la star dello spot di Toby, ormai auto-convintosi, fino ad impazzire, di essere lui il vero Don Chisciotte.

Un emblema di testardaggine e ambiziosa fantasia, spettro utopistico di una personalità allegra, proprio come utopistiche e allegre sono le (dis)avventure in cui si imbatte il personaggio interpretato da Jonathan Pryce. Non a caso il paese in cui il giovane viene catapultato nelle sequenze iniziali del film si chiama proprio “Los Suenos”, “i sogni”; la città si fa mise en abyme della testa del regista, sia quello diegetico (Toby) che reale (Gilliam). La metaletteratura del Don Chisciotte di Cervantes si reduplica nell’universo cangiante, iperbolico del cineasta di Minneapolis. L’errare del protagonista è un viaggio a tappe che ripercorre le fantastiche ossessioni affrontate nella costruzione e realizzazione di questo progetto. Difficile stabilire il confine tra immaginazione e realtà; uno straniamento onirico enfatizzato da inquadrature fuori bolla, angolate, che esacerbano lo stato allucinatorio che permea la pellicola. A contribuire in questa ostentazione immaginifica è anche la scenografia, volutamente artificiosa, e una fotografia dai toni accesi e onirici. “Qualcuno dice che sono pazzo, che vivo solo nei miei sogni” afferma a tal proposito il vecchio protagonista, ignaro del proprio potere di creare universi nuovi e diversi, e di coinvolgere chi lo affianca in continue avventure realizzate con pochi mezzi, proprio come un giovane regista alle prime armi e senza budget.  E così era in effetti il suo compagno di avventure Toby. Un cineasta con tanta passione ma pochi fondi, rinvigorito dal solo obiettivo di riportare sullo schermo una propria versione dell’iconico personaggio di Cervantes. C’è tanto Terry Gilliam nel personaggio di Adam Driver, e ce ne è altrettanto – se non di più – in quello di Jonathan Pryce. Un Terry Gilliam caparbio e deciso a portare a compimento la propria opera, immergendosi nelle proprie – e altrui – ossessioni, scavando sotto lo stato epidermico della normalità. Ed è proprio questo che vuol fare il cineasta, ossia ricondurre i propri spettatori nei meandri più atavici e inconsci della propria psiche, fino a farli impazzire, nel vero senso clinico della parola. Non a caso, fino a quando il suo alter-ego più razionale, Toby, si concentra sui problemi della realtà, dotando la propria opera di una visione neorealista, è bloccato, privo di ispirazione, disidratato e prosciugato artisticamente. Nel momento in cui egli guarda il mondo con gli occhi fanciulleschi della sua controparte più spensierata, un nuovo mondo gli si spalancherà davanti, attraversato da fiumi di fantasia e avventura. L’introduzione del cavallo a dondolo non è un caso; è una macchina del tempo capace di riportare verso tempo perduti; un simbolo d’infanzia e di universi ludici in anni spensierati e pieni di innocenza. Un mondo The Man Who Killed Don Quixote terry gilliam driverdi cui Don Chisciotte, naif e in preda alle proprie fantasie, è il degno guardiano. L’uccisione finale di Don Chisciotte non è l’uccisione dell’immaginazione, quanto l’apertura per una sua ultima ed ennesima rinascita. Don Chisciotte vive, muore e si rigenera in una palingenesi infinita; è una fenice araba che si ricrea continuamente così come il mondo immaginifico che simboleggia: immortale e indistruttibile. Un fuoco artistico impossibile da spegnere, destinato a illuminare le strade di coloro che vivono d’arte, aiutandoli a districarsi tra intemperie e ostacoli che, inevitabilmente – come ben insegna l’esperienza personale di Gilliam -  lastricano il loro tragitto.  

“L’uomo che uccise Don Chisciotte” è molto più che un film; è una sfida, un capriccio lungo 25 anni, uno strumento ludico con cui il regista si diverte a tralasciare parti di sé in ogni dove. Ogni singolo elemento sul set è uno strumento ipertrofico del proprio essere. Un amalgama alquanto riuscito di tutta quella confusione fantastica che abita la mente del suo creatore e che concorre a dar vita al suo immaginario autoriale. Ci sono voluti quasi trent’anni per tradurre questo universo in film e alla fine, con il senno di poi, è stato meglio così. L’attesa ha a tutti gli effetti giovato al risultato finale dell’opera. Non perché questa risenta di una maturità acquisita recentemente dal regista – per uno spirito fanciullesco e da eterno Peter Pan come il suo, pare poco probabile assistere a un’esposizione mediatica del suo lato più maturo e saggio – quanto perché c’era bisogno non solo di poter disporre di una coppia di attori così agli antipodi per età e recitazione come Adam Driver e Jonathan Pryce, ma soprattutto di un background fatto di cadute e risalite produttive capaci di consolidare la creazione di un mondo come quello qui proposto. Un mondo dove si rasenta il grottesco, l’imprevedibile, senza mai cadere nell’assurdo. Tralasciando quella parte più sentimentale che inferisce negativamente sul risultato finale, L’uomo che uccise Don Chisciotte è un film abbastanza riuscito, impregnato di quel tratto autoriale fatto di onirismo surreale e simbolismi psicanalitici atti a indagare l’identità umana nelle sue realtà parallele e possibili, che da sempre caratterizzano il modus operandi di Gilliam.

Elisa Torsiello, 25 settembre 2018

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