Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 731

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 694

Appena terminata la stagione dei premi, il cinema statunitense riparte ad alta velocità, con l’incredibile successo dell’horror Noi (Us) di Jordan Peele, in arrivo nelle sale italiane dal 4 aprile. Se già nel 2017 Peele aveva dimostrato con un unico e piccolo film indipendente (Scappa - Get Out) una visionarietà tale da rivoluzionare tanto il black film politico quanto il cinema di genere, con la sua opera seconda ribadisce e consacra definitivamente un riconoscibile stile di regia e un grande potenziale di innovazione nel cinema contemporaneo.

Senza spiegare troppi dettagli di una trama che fa della rivelazione graduale il suo punto di forza, Noi è una storia interamente basata sui doppelgänger, sul tema del doppio, del riflesso e dello specchio. Insiste sull’idea del conflitto interno e irrisolvibile di corpi identici che condividono una sola anima, connessi per l’eternità in ogni azione e ogni scelta compiuta.

Apparentemente meno politico del precedente lavoro di Peele, esso sfrutta maggiormente l’estetica propria dell’horror, risultando non solo più cruento di Scappa - Get Out, ma anche molto più estremo nel rapporto con il pubblico.

È strutturato, infatti, come un home invasion, in cui la minaccia, costituita dai cloni della famiglia protagonista, irrompe inizialmente nella tranquillità domestica per poi ampliarsi a un contesto molto più vasto e incontrollabile, in modo da intrappolare lo spettatore in una gabbia di continua tensione, dal primo all’ultimo minuto, smorzata solo da brevi e ottimi tempi comici a cui Peele non rinuncia nemmeno in questo film.

La critica sociale e politica, a un livello più profondo, si instaura invece intorno al rapporto fra la protagonista Adelaide e la sua Ombra, Red, entrambe interpretate da un’eccezionale Lupita Nyong’o, che già segna una delle performance più interessanti dell’anno. In questo doppio ruolo, per esempio, confluisce il conflitto fra la coscienza di classe e la coscienza di razza, declinato sempre e ovviamente dalla prospettiva afroamericana, in cui è radicata l’idea che l’agio borghese sia spesso simbolo di tradimento nei confronti delle condizioni di diseguaglianza della maggioranza sottoproletaria ed emarginata, come è chiaro nel riferimento diretto del film all’iniziativa sociale statunitense del 1986, Hands Across the America, che ne diventa anche un elemento simbolico non indifferente.

Si tratta, tuttavia, di un sottotesto, quello socio-politico, percepibile chiaramente solo in alcune battute e altrimenti lasciato solo intendere, a favore invece della spettacolarità della messa in scena, dei plot twists e di una costruzione magistrale dell’emozione spettatoriale, di quella sana paura che tiene il pubblico incollato alla poltrona, con gli occhi sbarrati come i personaggi di Peele, pronto a lasciarsi trascinare in un altro Mondo Sommerso, questa volta ancora più complesso e popolato di visioni, terrori ancestrali e inquietanti conigli bianchi al di là degli specchi.

Valeria Verbaro, 28/03/2019

I film che hanno la parola “esorcismo” nel titolo invadono le sale cinematografiche dal 1973, l'anno in cui "L'Esorcista"  si erse a capostipite di un sottogenere tra i più prolifici e profittevoli, spianando la strada agli epigoni come L'Esorcismo di Hannah Grace (The Possession of Hannah Grace).
Spesso il successo di questi prodotti consiste nel reinterpretare con poca inventiva la ricetta di William Friedkin e Peter Blatty (rispettivamente regista e sceneggiatore de L'Esorcista), riscaldando male una minestra – ne approfondiremo in seguito i motivi – che ha fatto la storia del cinema. Perché? La risposta è banale, ed il caso di Hannah Grace è esemplificativo: a fronte degli otto milioni di dollari da inserire sotto la voce budget, il film diretto da Diederik Van Rooijen ne ha già incassati 36. L'usato garantito va bene ovunque nel mercato audiovisivo, prova tangibile è l'uscita – risalente a qualche mese fa - della seconda stagione de L'Esorcista, serie televisiva prodotta dalla Fox. 

Il problema degli emuli è che tendono a prendere dal capostipite gli accessori della sua grandezza – le contorsioni del corpo indemoniato a ritmo di ossa scricchiolanti, onnipresenti in Hannah Grace – senza sfiorare il dilemma morale tra fede e ragione, stretto nella morsa angosciante della sopravvivenza. Perché L'Esorcista è molto più di un horror: lo ha capito il riuscito L'Esorcismo di Emily Rose, mescolando l'orrore al dramma giudiziario e portandolo nel microcosmo delle aule di tribunale dove i dilemmi morali sono al centro di tutto.

Poiché questo articolo non deve intitolarsi “42 motivi per rivedere L'Esorcista”, è bene segnalare che L'Esorcismo di Hannah Grace – pescando a piene mani dal buon Autopsy, di cui in origine rivelava la fonte secondaria perché l'intenzione di Van Rooijen e compagnia era chiamarlo Cadaverribalta la premessa drammaturgica del capolavoro di Friedkin e Blatty: inizia alla fine di un esorcismo andato male e si sposta nell'obitorio del Boston Metropolitan Hospital, durante il primo giorno di lavoro di Megan (Shay Mitchell), ex poliziotta alle prese coi demoni interiori causati dalla morte di un collega. Le camere mortuarie sono lo scenario claustrofobico su cui è giocata la partita a scacchi tra il demone e la protagonista (con i comprimari, piatti come santini, a rivestire unicamente il ruolo delle pedine da sacrificare), in mezzo al ronzio asettico delle luci al neon che si accendono attraverso i sensori di movimento, cifra stilistica – qui l'intuizione visiva è derivata da Lights Out – utile a creare qualche sobbalzo, e niente di più. Quello che manca a livello di scrittura, sopratutto l'orrore procurato dalla perdita dell'identità, non può essere colmato a colpi di jump scare, né da espedienti scontati che non riescono a tirar fuori il film dalle sabbie mobili di una mediocrità sempre più banale e derivativa.

Alessandro Ottaviani 30/01/2019

Fonte immagini: universalmovies.it 

È sicuramente un periodo difficile per la cinematografia indipendente italiana. Questo senza dubbio. Non tanto una questione di soggetti strampalati e belle idee. Difficile infatti riuscire non solo ad emergere nel Belpaese ma anche e soprattutto essere prodotti. Poi c'è la distribuzione. Il riuscire a rimanere in qualche -almeno- piccola sala di città. Altrettanto indubbio, però, che il cinema indipendente possa e debba per suo statuto tentare di proporre qualcosa che possa renderlo autentico e significativo, non tanto come competitor -per usare un termine agevole nel business odierno- quanto più come baluardo dove poter portare avanti delle idee di cinema che possano, almeno quelle, esulare da certi standard delle produzioni più mainstream. Fungere da roccaforte, quasi, se volessimo parlare di schieramenti in gioco.1 le grida del silenzio

Ed è con gli occhi di un certo tipo che dunque ci si affaccia su un lavoro come quello di Sasha Alessandra Carlesi, presentato al cinema Barberini il 30 Aprile 2018 e al cinema dal 10 Maggio successivo. "Questo film nasce in primis dall'esigenza di scrivere", comunica subito la regista, cosciente di una certa banalità d'affermazione, come spiega poco dopo, ma con una buona dose di orgoglio e coraggio per immettersi nello schieramento del cinema indipendente. Un'esigenza di parlare dei silenzi che attanagliano l'anima, correlati ai rumori che un gruppo di giovani romani sentono provenire intorno al locus amoenus dove si sono accampati per una gita fuori porta.

Lontano sia da Wes Craven che dal Boccaccio, il plot del film si trincea in uno standard di genere di cui fin dalle prime scene si nota come quel vibrato di telecamera e quella prospettiva voyeuristica da horror/thriller voglia subito far capolino per esplicitare al massimo il canone, molto più che il ritmo della trama e delle battute possa far intendere. Il topos del locus amoenus dove ritirare gli spiriti aggrovigliati della città non è senz'altro un setting stravagante e nemmeno alcune caratteristiche di personaggi-tipo su cui gli attori si ritrovano a mascherarsi. Gli attori provengono dal teatro, piuttosto giovani, qualcuno con esperienze di cinema più ampie che altri, ma tutto sommato, pur non regalando nessuna emozione particolare, non sfigurano di certo per loro difetti specifici.

E se nelle premesse del film si legge come ci si volesse portare dietro una passione per il cinema che superasse le barriere di genere e sfiorasse un po' di pazzia risulta poi difficile, arrivati ai titoli di testa, riuscire a mantenere fede a questi dettami presentati. Anche il "voler riportare il thriller di genere al cinema" non sembra un'affermazione così ardita come sembra, a vedere le locandine settimanali dei multisala italiani, nelle quali si arrocca sempre il film di adolescenti che accampati con birra, droga e qualche pazzo maniaco nei dintorni. Il grigiore delle esistenze da cui fuggire, poi, risulta iper-realisticamente ridotto ad un compagno che continua a chiamare al telefono, a delle madri preoccupate (si tratta dopotutto di figli trentenni che stanno via una notte), a ex-fidanzate a cui non si è riusciti a donare tutto il proprio amore. Le maschere che la società ci impone, come viene detto, sono tutto sommato le stesse che il film della Carlesi mette ai suoi personaggi, ma anche se consapevolmente è un qualcosa che depotenzia il messaggio più che rinvigorirne la linfa.3 le grida del silenzio

A voler bene al film si può certamente, ma è più un discorso di affetto nei confronti di una produzione cinematografica che cerca, encomiabilmente, di farsi spazio in un territorio commerciale e industriale difficile, con tanto lavoro e tanto ardore. Anche un certo risvolto, nel quale i rumori che si sentono sono semplicemente le vite che non ci lasciano e che non lasciamo andare fino in fondo, avrebbe avuto da dire qualcosa di più. Dall'altro lato della medaglia, però, se neanche in queste cornici si riesce ad uscire dai dialoghi poveri di una realtà che si conosce fin troppo bene, da quelle orchestrazioni di archi programmati e pianoforte che subentrano d'emblèe per le epifaniche considerazioni amorose di certi personaggi, da turning point citofonati e da ossimori grossolani come quelli delle grida del silenzio, non sembra che gli schieramenti in gioco siano poi così diversi.

Forse è più questo il peccato di un film che tutto sommato non è, se non altro, per nulla antipatico.

 

Davide Romagnoli, 30/04/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM