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Sono poche le certezze assolute degli amanti del cinema e tra queste vi è la grandezza autoriale di Luis Buñuel, una delle personalità più brillanti e influenti della settima arte che, con sguardo critico e vivace arguzia, ha saputo scombussolare un secolo complesso quale il Novecento attraverso le sue numerose, e non di rado straordinarie, opere filmiche. Risulta quindi comprensibile che in occasione della dodicesima edizione del Festival del cine español, tenutosi nei giorni scorsi a Roma presso il cinema Farnese, si sia voluto rendere omaggio al maestro di Calanda con la proiezione di La via lattea, distribuito nelle sale esattamente cinquant’anni fa.La via lattea 03
Opera meno nota, senz’altro meno celebrata, all’interno della ricca filmografia di Buñuel, La via lattea si inserisce pienamente nella stagione francese che prende avvio intorno alla metà degli anni Sessanta e che si sviluppa sul felice sodalizio con il produttore Serge Silberman, lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière e una fitta schiera di interpreti ricorrenti. Il tema portante del film, che emerge già dal prologo, è la religione, autentico tarlo del regista fin dal suo folgorante esordio con Un cane andaluso – dove il protagonista, in una sequenza memorabile, vede frenati i propri istinti sessuali dal peso delle tavole dei dieci comandamenti e di due preti a cui è letteralmente imbrigliato –, e viene messo in scena tramite il pellegrinaggio di due vagabondi, Pierre (Paul Frankeur) e Jean (Laurent Terzieff), che da Parigi sono diretti al santuario di Santiago di Compostela e che, nel corso del loro cammino, si trovano a essere testimoni di una serie di surreali e improbabili dispute teologiche. Non ci vuole molto a intuire come la narrazione per Buñuel sia solo una scusa per porre in discussione i principali dogmi alla base della fede cristiana: la transustanziazione, la Trinità, la natura di Gesù, l’origine del male, il libero arbitrio, tutti questi argomenti vengono passati in rassegna confrontando – con il massimo rigore filologico e un evidente gusto enciclopedico – il canone ufficiale della dottrina con alcune delle maggiori correnti eretiche sorte all’alba del cristianesimo e presto bandite o represse con la violenza. La struttura a episodi del film, che si mantiene solida grazie al filo conduttore rappresentato dal tragitto dei due protagonisti verso la loro meta, assolve allo scopo in modo efficace e le contraddizioni, le ingiustizie e le ipocrisie del cristianesimo affiorano a più riprese, anche se non sempre si riesce a evitare di cadere in un certo didascalismo ideologico di fondo. Ma se pure qualche passaggio risulta un po’ farraginoso, ciò non toglie che in diversi momenti don Luis arriva a sfoderare il meglio del suo spirito dissacrante e della sua sferzante ironia: dalla visionaria scena della fucilazione del papa alla recita dei bambini che intonano severi anatemi contro i vegetariani e i non credenti; dalla breve sequenza in cui un infervorato marchese de Sade (interpretato da Michel Piccoli) cerca di convincere una fanciulla della non esistenza di Dio alla straniante apparizione dell’angelo della morte (Pierre Clémenti) che si definisce come «un operaio che non sciopera mai»; senza infine scordare le varie scene che hanno per protagonista lo stesso Gesù e che ne restituiscono un’immagine terrena assai guascona e ben lontana dall’austero ritratto imposto dai testi sacri.La via lattea 02
Opera ambiziosa, dotata di una intrinseca valenza eversiva e pertanto profondamente coerente con la poetica del suo autore, La via lattea non rientra tra i capolavori del regista spagnolo e appare meno incisiva rispetto ad altre pellicole che, nel focalizzarsi sulla religione, mantengono comunque una più articolata e ispirata visione d’insieme (si pensi a Viridiana, a Nazarín ma anche all’incompleto e sottovalutato Simon del deserto); eppure, questo non gli impedisce di mostrarsi ai nostri occhi, a così tanti anni di distanza dalla sua realizzazione, come un film prezioso, suggestivo, provocatorio e a suo modo indimenticabile, segnato da quella sana e anarchica spregiudicatezza che troppo spesso tende a mancare nel cinema contemporaneo.

Francesco Biselli  10/05/2019

Dopo il magistrale e dolente “Che Dio ci perdoni”, Rodrigo Sorogoyen torna ad approfondire le mille sfumature del noir in “El reino”, presentato al Festival del Cinema Spagnolo di Roma e già vincitore in patria di sette premi Goya (regia, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura originale, musica, suono, montaggio). Per la seconda volta, il regista madrileno, al terzo lungometraggio, sceglie come protagonista il magnifico Antonio de la Torre, pluripremiato divo del cinema iberico in grado di sorprendere ogni volta per la sapienza della sua recitazione vigorosa e stratificata. Qui, incrociando nervoso cinismo ed impetuosa lacerazione interioree, interpreta Manuel López Vidal, autorevole vicesegretario di una comunità autonoma nonché ingranaggio fondamentale di un consolidato quanto losco sistema di potere.

Il regno, infatti, è quello che lega ambiziosi politici locali e scaltri esponenti nazionali del partito, tutti dominati dalla superbia (“il vizio di questo Paese”, sentenzia il presidente in un momento di spietata lucidità), dentro una rete di corruzione che dura da oltre un decennio. Quando viene travolto da pesantissime accuse (tra le altre: appropriazione indebita, traffico di influenze, evasione fiscale; più la gogna mediatica), Manuel, che comunque non è l’unico responsabile delle malefatte, si rende conto di essere l’agnello sacrificale sull’altare della trasparenza, nuovo totem di una dirigenza che scelto di combattere il diffuso malcostume della disonestà. E allora decide che, se crolla lui, devono crollare tutti, a costo di far saltare in aria l’intero Paese. Perché? È una battaglia ideale fondata sulla rivendicazione di una nuova verginità? O è una questione personale, una resa dei conti con chi l’ha tradito e condannato?

una scena del film

A partire da un contesto apparentemente piccolo eppure emblematico per la sua capacità allegorica, “El reino” racconta la caduta di un mondo, la trenodia di una nazione travolta dalla cupidigia, rivolgendo lo sguardo al recente passato e senza mai specificare di quale partito si tratti. È, appunto, interessante rilevare che siamo nel 2008, in una fase transitoria tra il riflusso dell’epoca analogica (le carte, le microspie) e i progressi tecnologici (l’invenzione del touch screen, le videocamere ad alta definizione), così da sottolineare quanto sia complesso per Manuel e i suoi sodali diventati nemici – che in Italia non avremmo problemi nel definire animali politici da prima repubblica – adattarsi ad un nuovo mondo, diverso da quello che hanno contribuito a costruire. Montando una tensione che non lascia un attimo di fiato, Sorogoyen trova il suo tempo ideale nella incessante musica elettronica di Olivier Arson, alternando lunghe sequenze – che danno respiro alla chirurgica sceneggiatura scritta con Isabel Peña, spesso brulicante di feroci faccia a faccia – ad altre più sincopate e convulse grazie clamoroso montaggio di Alberto del Campo.

Nel solco del thriller politico che è tra i filoni più intriganti del cinema e della serialità contemporanei (da “L’uomo nell’ombra” e “Le idi di marzo” fino a “House of Cards” passando per prodotti più di nicchia come l’argentino “Il presidente” o il francese “Il ministro – L’esercizio dello stato”, per citare qualche esempio), diretta filiazione della paranoia new-hollywoodiana, “El reino” è uno spettacolare intrattenimento d’alta scuola che non rinuncia a sprazzi di acida ironia, un oggetto incandescente che sa emanciparsi dalla trappola del film a tesi o della dittatura del tema e trova uno strepitoso finale-parafrasi.

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