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Lo scorso 29 agosto ha debuttato nei cinema di tutto il mondo l’ultimo capitolo della saga cinematografica ormai più che ventennale “Mission: Impossible”. Era il 1996 quando esordiva, con record al botteghino, la prima avventura cinematografica di Ethan Hunt, interpretato da un giovane Tom Cruise (in realtà, già allora trentaquattrenne) e diretto da un hitchcockiano Brian De Palma. Si trattava di quello che oggi, comunemente, definiamo un “reboot”, da una celebre serie anni ’60. Ironico che lo stesso film si sarebbe trasformato presto in un franchise seriale di altrettanto, anzi maggiore successo.
Oggi la saga conta 6 pellicole, per 5 registi (De Palma, Woo, Abrams, Bird e McQuarrie per gli ultimi due) e un solo, iconico, sorriso smagliante: Tom Cruise che, oltre al volto, produce la saga di tasca propria. L’investimento si rivela una scommessa vinta, ma la sua opera travalica persino questo. L’ultimo "Mission Impossible: Fallout" riconferma il mito di Ethan Hunt come uno dei pochi rimasti a non aver tradito né diviso i suoi fan, e lo consacra nel pantheon del cinema action.
Mission: Impossible è, da sempre, sinonimo di dinamismo, spari e inseguimenti. Cosa lo distingue, dunque, dal resto dei film che compongono di questi elementi il proprio DNA? Niente. La missione impossibile sembra incarnata da questo, al di qua del grande schermo: essere consapevoli della propria anima e rinnovarla, senza snaturarla, lustro dopo lustro, iterazione dopo iterazione. Tutto ciò, nonostante le preziose sfumature di chi siede in cabina di regia o del cast variato quasi interamente, negli anni, sempre con la grande eccezione dell’attore protagonista. Attore, peraltro, ormai celeberrimo per girare personalmente ogni scena, per pericolosa o impressionante che sia. Il pubblico lo sa e prova un autentico brivido ogni volta che Tom Cruise scala davvero un grattacielo (Protocollo Fantasma), si appende davvero a un aereo che decolla (Rogue Nation) o salta davvero dal cornicione di un palazzo all’altro, rompendosi davvero la caviglia durante le riprese e terminando il ciak, con l’osso fratturato, per il bene del cinema (Fallout).
Il resto sembra semplice, ma è in realtà prodotto di un’alchimia delicata quanto funzionale. Trame da spy-thriller sotto steroidi, trucchi e imbrogli da heist movie (nell’ultimo film, il meta-testo è chiarissimo: “Un branco di adulti che gioca ancora con le maschere facciali!”) e sceneggiature progettate a tavolino per produrre il minimo dei dialoghi e il massimo delle situazioni al limite.
Fallout è il coronamento di tutto questo, con un Henry Cavill in grande spolvero nei panni baffuti e forzuti del villain, e un uso narrativo potente dell’immagine talvolta sostituito completamente a quello della parola. Mission: Impossible è sempre un film immediatamente riconoscibile, spintosi fino a sviluppare una continuity orizzontale (di cui, a proposito, quest’ultimo capitolo chiude qualche conto in sospeso), sì, ma mai invadente. La sua efficacia semplice, istintiva e coerente ha reso Ethan Hunt, lo 007 d’America, un esempio che ha saputo imparare tanto e insegnare tantissimo ai suoi colleghi illustri (James Bond, Jason Bourne), pur senza condividerne le iniziali. Nel panorama attuale del cinema di puro intrattenimento, quando quest’ultimo sembra inscindibile da trame piatte e pretestuose, tradizioni opprimenti e tradimenti del mito, un eroe torna puntuale a ricordarci che la moderna fiaba action non solo resiste, ma si evolve. Una missione impossibile, forse, ma finora compiuta.

Andrea Giovalè
9/9/2018

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