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Dopo il magistrale e dolente “Che Dio ci perdoni”, Rodrigo Sorogoyen torna ad approfondire le mille sfumature del noir in “El reino”, presentato al Festival del Cinema Spagnolo di Roma e già vincitore in patria di sette premi Goya (regia, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura originale, musica, suono, montaggio). Per la seconda volta, il regista madrileno, al terzo lungometraggio, sceglie come protagonista il magnifico Antonio de la Torre, pluripremiato divo del cinema iberico in grado di sorprendere ogni volta per la sapienza della sua recitazione vigorosa e stratificata. Qui, incrociando nervoso cinismo ed impetuosa lacerazione interioree, interpreta Manuel López Vidal, autorevole vicesegretario di una comunità autonoma nonché ingranaggio fondamentale di un consolidato quanto losco sistema di potere.

Il regno, infatti, è quello che lega ambiziosi politici locali e scaltri esponenti nazionali del partito, tutti dominati dalla superbia (“il vizio di questo Paese”, sentenzia il presidente in un momento di spietata lucidità), dentro una rete di corruzione che dura da oltre un decennio. Quando viene travolto da pesantissime accuse (tra le altre: appropriazione indebita, traffico di influenze, evasione fiscale; più la gogna mediatica), Manuel, che comunque non è l’unico responsabile delle malefatte, si rende conto di essere l’agnello sacrificale sull’altare della trasparenza, nuovo totem di una dirigenza che scelto di combattere il diffuso malcostume della disonestà. E allora decide che, se crolla lui, devono crollare tutti, a costo di far saltare in aria l’intero Paese. Perché? È una battaglia ideale fondata sulla rivendicazione di una nuova verginità? O è una questione personale, una resa dei conti con chi l’ha tradito e condannato?

una scena del film

A partire da un contesto apparentemente piccolo eppure emblematico per la sua capacità allegorica, “El reino” racconta la caduta di un mondo, la trenodia di una nazione travolta dalla cupidigia, rivolgendo lo sguardo al recente passato e senza mai specificare di quale partito si tratti. È, appunto, interessante rilevare che siamo nel 2008, in una fase transitoria tra il riflusso dell’epoca analogica (le carte, le microspie) e i progressi tecnologici (l’invenzione del touch screen, le videocamere ad alta definizione), così da sottolineare quanto sia complesso per Manuel e i suoi sodali diventati nemici – che in Italia non avremmo problemi nel definire animali politici da prima repubblica – adattarsi ad un nuovo mondo, diverso da quello che hanno contribuito a costruire. Montando una tensione che non lascia un attimo di fiato, Sorogoyen trova il suo tempo ideale nella incessante musica elettronica di Olivier Arson, alternando lunghe sequenze – che danno respiro alla chirurgica sceneggiatura scritta con Isabel Peña, spesso brulicante di feroci faccia a faccia – ad altre più sincopate e convulse grazie clamoroso montaggio di Alberto del Campo.

Nel solco del thriller politico che è tra i filoni più intriganti del cinema e della serialità contemporanei (da “L’uomo nell’ombra” e “Le idi di marzo” fino a “House of Cards” passando per prodotti più di nicchia come l’argentino “Il presidente” o il francese “Il ministro – L’esercizio dello stato”, per citare qualche esempio), diretta filiazione della paranoia new-hollywoodiana, “El reino” è uno spettacolare intrattenimento d’alta scuola che non rinuncia a sprazzi di acida ironia, un oggetto incandescente che sa emanciparsi dalla trappola del film a tesi o della dittatura del tema e trova uno strepitoso finale-parafrasi.

Lorenzo Ciofani 

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