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Mercoledì, 02 Maggio 2018 19:51

Manuel: rinascere imparando a soffocare

Manuel ha gli occhi grandi e un po’ stanchi. Sul suo volto la spensieratezza dei diciott’anni e l’aria di chi è dovuto crescere troppo in fretta. Manuel è giovane, ma su di sé ha un fardello di vita che lo schiaccia; l’anima scheggiata e segnata da chi sente di portare il peso del mondo sulle proprie spalle, un po’ come il Jude beatlesiano. Ciononostante Manuel cammina dritto, fiero. Emblema della contraddittorietà, tra una sigaretta e l’altra alterna sorrisi a labbra serrate dietro cui nascondere urla interiori. Manuel, dalla vita passata in un istituto minorile, è come un bambino al primo giorno di scuola. Preparato lo zaino è pronto a incamminarsi verso una nuova strada; è pronto, cioè, ad abbracciare a braccia aperte quel mondo esterno che per anni ha immaginato dalle mura di quell’edificio che l’ha fatto crescere, maturare, diventare l’uomo responsabile che è. Manuel è adesso un ragazzo del mondo, deciso a gestire una casa e accogliere la madre in attesa degli arresti domiciliari. Manuel è, soprattutto, il protagonista della seconda opera firmata da Dario Albertini dopo il documentario “La Repubblica dei Ragazzi” (2015) – storia incentrata sulla nascita di una struttura nel dopoguerra che aiutava i giovani privi di sostegno familiare - ma può benissimo essere qualsiasi ragazzo che si incrocia per strada. Ed è proprio dietro questo aspetto che si nasconde la buona riuscita di quest’opera. Il regista, attraverso un modus operandi che ricorda da vicino quello dell’inglese Andrea Arnold (“Fish Tank”, “American Honey”) lascia che il protagonista si sveli da solo. La cinepresa vive del respiro - o della mancanza di esso - di coloro che le passano davanti. Non indugia con fare curioso nelle loro storie o nei loro tormenti. I (numerosi) primi piani servono solo a sottolineare come tanti evidenziatori un dato momento o un certo mutamento d’animo, senza per questo cadere nella retorica o nel facile bigottismo. La macchina da presa registra in un silenzio quasi sacrale il mondo che le si prostra davanti, immortalando gli scarti di sguardo tra il punto di vista di Manuel e quello dell’ambiente che lo circonda.
manuelVi è una linea sottile, quasi impercettibile, che separa l’atto del recitare, da quello di far proprio un personaggio, di immergersi in esso fino a diventare un tutt’uno. Per un’opera come “Manuel”, così semplice da risultare per questo ancora più verosimile e realistica, era quantomeno necessario che l’attore destinato a tradurre delle scritte stampate su un copione in un essere umano, si sentisse completamente parte integrante del suo personaggio. Andrea Lattanzi non si limita a vestire i panni di Manuel; è Manuel. Un gioco di creazione, questo dell’attore, che ha trasportato in scena un universo contorto, disordinato, proprio come caotico e mutevole è l’animo di un ragazzo di diciotto anni. il maelstrom emotivo che domina Manuel è stato ben tradotto in termini di mimica facciale e corporea. Le pupille dilatate, i tic e i versi fatti con la bocca durante le notti insonne, non sembrano frutto di un’interpretazione attoriale. Vi è una sincerità di fondo, di comprensione reciproca che sottende la performance di Lattanzi e che la distanzia da quella degli altri colleghi di set, limitatesi a comparire come semplici macchiette. L’opera di Albertini si ammanta dunque dello stesso abito del genere documentaristico. Un gioco di ruoli supportato da una messa in scena impeccabile e da una vulgata dialettale tanto realistica quanto facilmente accessibile a tutti. In un mondo che alza la testa al cielo nell’attesa di scorgere l’avvento di un qualche supereroe, Lattanzi preferisce battere le strade di un sottobosco popolare, fatto di gente comune e umile. Le urla di Manuel non hanno dunque nulla di eroico, così come al costume da Avenger, il giovane protagonista, nel corso della sua crociata personale atta salvare la madre dalle grinfie del temibile carcere, preferisce indossare un semplice smoking.
“Manuel” non è un romanzo di formazione, e nemmeno una fiaba dal finale strappa applausi; è uno sguardo discreto nella vita di un ragazzo ordinario. Un’avventura introspettiva, in cui gli alti e bassi della vita si affiancano ai movimenti ondulatori delle riprese in handycam. È un mondo dove la vita reale corre sullo stesso binario di quella cinematografica, trovando nell’occhio della cinepresa un giusto e degno punto di incontro.

Elisa Torsiello, 2/5/2018

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