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Perché andiamo al cinema? Una bibliografia immensa ha provato a rispondere a tale quesito. Ci piace andare al cinema essenzialmente per ritrovare in quelle storie narrate elementi combacianti con la nostra realtà personale, oppure caratteri totalmente opposti e per questo capaci di espiare un nostro dolore o esorcizzare le nostre paure. Entriamo nella sala buia di un cinema come se rientrassimo nel grembo materno, uscendovi rinati dopo una gestazione di novanta o più minuti. Con lo sguardo rivolto verso l’alto viviamo vite diverse, pur restando noi stessi. Siamo uno, nessuno e centomila. siamo ora una ragazza adolescente incinta, adesso un aspirante musicista jazz, e poi un soldato sul confine messicano, o un cacciatore di replicanti. Ed è proprio su questa stessa sete di identificazione che amiamo così tanto i biopic.
Se prima ci limitavamo a leggere libri dedicati a una tale figura storica, o guardare ammaliati infiniti documentari, con il cinema lo spettatore compie un ulteriore passo in avanti nel tortuoso cammino della conoscenza. Il filtro della realtà che separava il personaggio dal pubblico viene per un momento azzerato. Attraverso l’intermediazione dello schermo cinematografico e dell’interpretazione attoriale, può attivarsi quel processo di immedesimazione che fa del pubblico un surrogato indiretto del cantante/scrittore/ scienziato che compare sullo schermo. Lo spettatore vanta ora un accesso prioritario e privilegiato nella conoscenza (più o meno manipolata dalle licenze poetiche prese dal regista e dallo sceneggiatore) della vita vera o presunta di quel dato personaggio famoso. E anche se molto spesso un dato passaggio non corrisponde con quanto accaduto realmente nella vita di questi uomini e donne stra-ordinari (nel senso proprio di extra-ordinari, quindi fuori da quella che per noi è la normalità) solo perché esso viene mostrato sullo schermo, verrà interpretato come veritiero. È il dono (o la maledizione) del cinema, quello di usare il vero per autentificare il falso, giocando con molteplici codici, anche extra-diegetici quali i ricordi e le emozioni del pubblico in sala.


The imitation gameSorta di arte vampiresca, capace di succhiare la bellezza di ogni fenomeno artistico per aumentare il proprio prestigio e successo, il cinema dopo la letteratura e il teatro, ha iniziato ben presto a trarre linfa vitale dalla vita vera; ed ecco che la straordinarietà di vite al limite, la loro indole ribelle, anticonformista, o la loro aura alacre e geniale si trasmuta in benzina pronta ad accendere i motori della produzione cinematografica; un filtro di potenza e (in)successo che riempie la fonte del cinema da cui lo spettatore assetato di storie in cui ritrovarsi, o con cui sognare, è sempre pronto ad abbeverarsi. Come sottolinea anche Sandro Bernardi il cinema, alla stregua del racconto mitologico, si appropria degli aspetti misteriosi del mondo rendendoli accessibili. Con esso si tenta di dare un senso alla vita e, allo stesso tempo, si genera una parvenza di immortalità alla storia narrata e all’uomo o alla donna che ne è protagonista.
Colette, Freddie Mercury, Marie Colvin, Stanlio e Ollio sono scrittori, cantanti, giornalisti, attori che avevano già reso straordinarie le proprie esistenze, ma adesso, grazie a una cinepresa, sono a tutti gli effetti immortali.
Quelli citati sono solo gli ultimi protagonisti di pellicole giunte adesso nelle sale cinematografiche (“Colette”, “Bohemian Rhapsody”, “A private war”, “Stanlio & Ollio”), eppure la storia del cinema è ricca di quelli che ben presto abbiamo imparato a chiamare “biopic”.
Che tu sia stato un attore, regista, cantante, scienziato, scrittore, politico, perfino un criminale non ha importanza; se hai lasciato un segno nella storia ben presto ritroverai il tuo nome preceduto dalla tanto reiterata frase “tratto dalla storia vera di…”. Poter elencare tutti i film biografici comparsi sulla scena negli ultimi anni sarebbe impossibile. Sono centinaia i titoli meritevoli di una citazione, e lo spazio di un articolo è troppo limitato per nominarli tutti. Qui di seguito vi segnaliamo allora non solo i biopic più famosi, ma i più fedeli allo spirito del personaggio ritratto.

Bright star
Così è stato per Bob Dylan con “Io non sono qui”. Per un artista immenso come Dylan non bastava un solo attore per interpretarlo. E così Todd Haynes chiama a sé sei attori di sesso, razza ed età differenti tra loro (tra cui Christian Bale, Heath Ledger e Cate Blanchett) per dar vita alle diverse maschere che hanno segnato il carnevale personale del cantautore, intervallato da successi, cadute e risurrezioni.
La carriera e la notorietà del pugile Jake LaMotta costituiscono uno di quei rari esempi in cui il successo del film supera quello della vita da cui è stato tratto. E così nel 1980 “Toro Scatenato” divenne un’opera capace di recidere i fili che la legavano alla realtà, fino ad appropriarsi di una esistenza e storia propria.
Fuori dalle righe, geniale: così era Wolfgang Amadeus Mozart, e così è “Mozart”, il film con cui Milos Forman ha riscritto e riportato sullo schermo la vita del compositore austriaco. Geniali lo erano anche due grandi scienziati come Albert Einstein e Stephen Hawkins. Due uomini che dietro al metodo scientifico e alle grandi scoperte, nascondevano dolori e lotte personali. Un connubio che il mondo del cinema e della televisione non poteva esimersi dal non raccontare, dando vita a opere come “Il mio amico Einstein” e “La teoria del tutto”.
Nel 2014 (ma in Italia il film arrivò nel 2015) è stata invece la volta del geniale matematico britannico Alan Turing. Morten Tyldum con “The Imitation Game” racconta con fare commovente, rispettoso ma alquanto convenzionale le vicende (già portate sullo schermo in Breaking the code nel 1996) che portarono Turing a risolvere la codifica di Enigma per intercettare i sottomarini tedeschi; oltre allo scenario di guerra, il film attraversa il dramma personale di Turing, incriminato e incarcerato per essere omosessuale in una nazione e in un momento storico che punivano tale tendenza. Matematico come Turing era anche John Nash, protagonista di “A beautiful mind” di Ron Howard, la cui vita ostacolata dalla schizofrenia non poteva non diventare materiale cinematografico. A prestare il corpo a questo geniale personaggio un incredibile Russell Crowe.
Una fotografia calda, delicata colta in un’atmosfera sospesa, come i sogni d’amore tradotti in poesia. Così si presenta Bright Star di Jane Campion, opera biografica dedicata alla vita del poeta inglese John Keats (interpretato da Ben Whishaw). L’amore per Fanny, la creazione poetica, la malattia: tutto passa per la cinepresa della regista neozelandese capace di riportare gli eventi con rispetto e armonia.
A trovare un proprio spazio tra i vari biopic, vi è la vita di un cecchino. Con “American Sniper” Clint Eastwood porta infatti sul grande schermo la vita del tiratore scelto Chris Kyle (interpetato da Bradley Cooper), cecchino della Navy Seal che, rientrato dalla guerra in Iraq, è stato ucciso da un vicino di casa dopo avergli impartito lezioni di tiro.
Non solo regine (“The Queen”; “Grace di Monaco”; “Elizabeth: the golden age”), hacker (“Il Quinto potere”, “Snowden”) criminali (“Nemico pubblico”, “Blow”, “Loving Pablo)), pittori (“Van Gogh”). Il mondo del cinema ama la vita, ama riprodurla, ama farla rispecchiare negli occhi degli altri. Tanti e molti sono i biopic che verranno prodotti. Saremo noi spettatori a scegliere quale fare nostro.

Elisa Torsiello, 5 novembre 2018

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