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FIRENZE – Come essere nel suo salotto, come stare ad ascoltare i suoi aneddoti ad una cena, attorno ad un tavolo, le sue storie, le bizzarrie, le caricature, le follie, i personaggi che si affollano, tutte le stravaganze che poi sono entrate nelle sue pellicole. Ferzan Ozpetek ci accoglie nei suoi ricordi, ci fa spazio, ci dice di entrare in punta di piedi, con il sorriso e la gentilezza, con una leggerezza invidiabile anche quando tratta temi drammatici e argomenti personali strazianti. Subito fa accendere le luci in platea per guardarsi negli occhi. Cerca un filo diretto con il “suo” pubblico mai come questa volta così vicino, così dentro, così vivo. Un uomo solo sul palco, emozionato ma energico e spumeggiante e brioso, che si concede generoso mentre dietro le sue spalle passano le foto della ferzaneide-01-580x580.jpgsua vita: lui da bambino, la bellissima ed elegante madre, i fratelli, gli amici, il marito. Una carrellata del suo mondo questo “Ferzaneide” (prod. Nuovo Teatro di Marco Balsamo), spaziando tra realtà e celluloide capiamo che tutto quello che il regista turco-romano ha fatto confluire nelle sue trame e sceneggiature ha una grossa base fondata nella vita reale, negli accadimenti che gli sono capitati. Si sente, si percepisce che è risolto, che è circondato da amore e anche che tutto questo non è caduto dall'alto. Ci vuole talento anche nell'accettarsi e nell'essere amati.

Ma è il suo garbo quello che più ci ha colpito, l'eleganza, la cordialità e raffinatezza nell'aprire il suo cuore, nel mettersi a nudo. Infatti la locandina, il bellissimo disegno di Mimmo Paladino, ritrae una sorta di Cavallo di Troia (dall'Eneide alla Ferzaneide) come se fossimo noi spettatori ad entrare, con lo stratagemma del cavallo, tra le mura della fortezza del regista. E' salito su un palco senza aver bisogno né di popolarità né tanto meno di guadagni. Attore per una sera senza esserlo. Ma nonostante questo regge benissimo un palcoscenico enorme e impegnativo come quello del Teatro della Pergola. E' a suo agio con le memorie che si affacciano e si affastellano, con questo canovaccio che scorre, saltando dall'amata madre all'infanzia, ai suoi amori, alla scoperta del sesso. Un universo colorato come un arcobaleno il suo costellato non soltanto di lustrini ma anche di perdite, come quella del fratello o di tanti cari amici venuti a mancare in questi anni. Da adesso in poi vedremo in maniera diversa, con occhi più brillanti, i suoi film.

Quando racconta della madre è impossibile non commuoversi. Tutto è accennato senza drammi né lacrimevoli lamentazioni, un pizzico di cinismo disilluso ma anche tanto charme, polvere di stelle e amore sparso come neve in quota a decorare gli eventi che hanno, nel bene e nel male, segnato la sua folgorante vita, artistica e personale, e che, di fatto, sono intrecciate e strettamente legate a doppio filo. Si sente che è aperto ferzaneide-03-880x580.jpgverso l'altro, disinvolto, disponibile all'incontro. E ci racconta della madre che ad oltre ottant'anni si era invaghita del suo fisioterapista o di un suo amore incrociato in giovane età in un bagno turco, della genesi di “Saturno contro” e le sue superstizioni, del fratello scomparso per un tumore al pancreas, di quando era assistente alla regia per Massimo Troisi, di un signore anziano trovato su Ponte Sisto che aveva perso la memoria dal quale è scaturito “La finestra di fronte”, di “Mine vaganti” che è la storia familiare di un suo amico e del fratello.

Come tutti gli artisti Ozpetek “ruba” e prende in prestitoferzaneide-04.jpg dalla realtà che lo circonda e la sublima nel suo cinema. Tutto sembra frutto delle coincidenze e del caso fortuito, degli incroci, degli incastri che la vita ci mette davanti. E ci parla di Istanbul e di Roma, dell'affetto sconfinato che ha per Serra Yilmaz come di omosessualità e di felicità in questa sua chiacchierata fatta di sorrisi e di qualche lacrima, una chiacchierata tra amici. Impossibile non volergli bene.

Tommaso Chimenti 03/12/21

ROMA – Non è un teatro agiografico, anche se è inevitabile l'esaltazione del personaggio, quanto un teatro didascalico che, di questi tempi così magri e bui, male non fa certamente. Un docu-theatre che va tanto di moda oggi, una ricostruzione non progressiva ma sentimentale, come aprire un libro ricco di storie e sciorinare versi e poesie e fatti ed eventi per ricostruire, come una ricca ragnatela un affresco di cuore e pancia, sentito, vissuto, respirato. Già perché la vita avventurosa di Trilussa, anagramma del cognome Salustri vergato sui libroni dell'anagrafe, fa parte di quell'immaginario fumoso e decò che, romani di nascita o studenti di tutta Italia, pensiamo di conoscere e che invece, scavando, ci accorgiamo di sapere soltanto una piccola parte, una irrisoria percentuale degli accadimenti stratificati di una vita eccezionale, di un orfano che, con il proprio talento, arguzia e arte, era riuscito a farcela, ad uscire dall'anonimato, ad emergere, a sfuggire alla fame e alla miseria6f1da9edcbe586fd60eb7aff6ec7daf7_XL.jpg
vivendo sopra le righe, oltre le proprie reali possibilità. Partiamo dal titolo: “La tovaglia di Trilussa” (prod. La Bilancia, visto al Teatro Vittoria) che immediatamente ci porta dentro quell'affascinante e pericoloso, per certi versi, mondo di trattorie e osterie dove il vino dei Castelli non mancava mai e anche i soldi scarseggiavano. Il poeta, che ai suoi tempi era il nuovo che avanza, incarnando il contemporaneo se visto in relazione con il cantore del Belli, sempre a corto di denari (anche quando fu tradotto in Germania come in Argentina) negli ultimi anni della sua vita pagava con un pezzo di carta gialla, che serviva da telo sopra il tavolaccio, scrivendoci sopra qualche rima delle sue, pungenti, acri, salaci, soprattutto vere fotografie scanzonate del reale. Come faceva Antonio Ligabue, nella Bassa Padana, disegnando al ristorante per una ciotola calda di minestra. Il testo, ben condotto tra la commozione e la giusta informazione, sanguigno e intellettuale, scritto da Manfredi Rutelli e Ariele Vincenti (entrambi innamorati di Roma e della romanità), è un viaggio dentro quelle atmosfere a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, un piccolo mondo antico che ci fa sorridere in quel bianco e nero d'antan, di cappelli, carrozze, panciotti e salotti, un'umanità comunque feroce dove le disparità erano lampanti e accettate e dove era la fame la prima occupazione giornaliera ad interessare la gente. Un universo che però, pur in mezzo alle ristrettezze e a due guerre mondiali, aveva prodotto alle nostre latitudini, e in particolare a Roma (nel '36 era nata anche Cinecittà), personaggi del calibro di Fregoli come di Petrolini. Un macrocosmo che si nutriva di povertà per generare arte. 

A IMG-20211014-WA0013.jpgdare voce a questa straordinaria esistenza ci pensa Ariele Vincenti che, nel suo recente passato artistico, ha dato vita alle “Marocchinate” di Simone Cristicchi sugli stupri da parte dei soldati magrebini affiancati agli Alleati a Liberazione avvenuta, oppure a “Ago, il capitano coraggioso” sulla vita del difensore della Roma campione d'Italia Agostino Di Bartolomei. Diciamo che Vincenti ci mette la faccia, ma anche le viscere e l'anima, si appassiona e, mosso da un fuoco e da una ricerca tutta rivolta a rivelare e rinsaldare una certa romanità (anche se mai potremmo definirlo attore “territoriale” ma un “attore di radici”) che si sta sbiadendo, cerca ed ha bisogno di temi forti che lo coinvolgano, lo prendano, lo strappino, lo immergano completamente, lo avvolgano. E così è successo anche con Trilussa (esperimento similare fu messo in scena da Dario Ballantini con Petrolini) dove Vincenti riesce a tirare fuori tutta la sua carica da performer di razza, fumettistico e funambolico, guascone istrionico e guitto esplosivo, caterpillar di parole, mai sopra le righe sempre misurato tra poesia e canzone, stornelli e battute, barzellette e aneddoti toccanti, il tutto centrifugato in un amalgama che fa bene alle orecchie e al respiro. L'escamotage drammaturgico ideato dal duo Rutelli-Vincenti (affiancati dalla consulenza registica di Nicola Pistoia) è stato quello di inserire nella narrazione il personaggio di Remo, figura inventata che però ci restituisce quel calore e vicinanza che altrimenti non avremmo sentito nell'evolversi e nella successione degli accadimenti.

Un racconto che tocca Sciascia a De Filippo, Pirandello e appunto Fregoli e Petrolini fino, incredibilmente a Sandro Ciotti, un raccoIMG-20211014-WA0015.jpgnto spumeggiante e frizzante accompagnato dalle musiche del Maestro Pino Cangialosi a sottolineare (assieme alla scena raffinata di Sandro Giombini), un racconto di satira ma estremamente popolare nella sua accezione più alta, sincera e schietta. Vincenti riesce a tratteggiare, con i colori spontanei e con una mano leggera, la vita eccezionale e stra-ordinaria di Trilussa ricercato da creditori, vigili e strozzini, cercato da mille donne, e dandy e bohemien elegante che si additava le antipatie in egual misura del Vaticano come del Regime Fascista, tra amori e alcool, tra le sue poesie che erano favole e parabole e metafore che sbugiardavano i potenti mettendoli in berlina, che illuminavano piccole grandi verità che consolavano il popolo. Ariele (amatissimo dalla platea), che in ebraico significa “Leone di Dio”, è davvero sicuro e campeggia e troneggia affabile sulla scena, riempiendola, curandola, annusandola, impastandola, facendola sua ogni sera con vigore e generosità, guardandoti negli occhi immergendoti nella sua verità e onestà. Attendiamo una sua ricostruzione anche, ad esempio, su Fregoli (o Sordi o Aldo Fabrizi) per capire da dove veniamo e verso quale buio stiamo velocemente progredendo ad ampie falcate.

“C'è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.

Tommaso Chimenti 24/10/2021

ROMA – “Spaccami il cuore ridi e sorridi, spaccami il cuore non ascoltare false e teatrali le mie parole, segui un pensiero dolce e feroce con me” (“Spaccami il cuore”, Paolo Conte, cantata da Mia Martini).

Forse tutto può essere riassunto nella frase che campeggia sui cartelloni della stagione del Teatro Basilicata: “Si prega di non recitare nella vita reale”, monito e ossimoro nel percorso attoriale nella complicata biunivocità sopra e sotto al palco. Non recitare da mestierante ma metterci sempre l'anima. Niente di tutto ciò ha toccato le due interpreti che, tra DSC_1730.jpgi mattoni carichi di Storia proprio accanto alla Scala Santa, si sono messe a nudo e hanno aperto il “Cuore” (prod. Gruppo della Creta; interessante la nuova stagione Frammenti) mostrando le crepe, i chiaroscuri, lo sporco, i difetti, i non-detti, i segreti di una vita. Le cose che di solito ti dicono di non dire, per non esporti troppo, per non essere ancora più fragili e delicati di quanto un attore su un palco possa già normalmente sentirsi: senza scudo, senza difese, senza pelle, vulnerabile ai respiri. E' stato un bel connubio questo tra la danzatrice Daniela Giovannetti e l'attrice Alvia Reale (anche in veste di regista), strade e carriere differenti ma un unico comune denominatore: per ricominciare a calcare la scena dopo tutto questo prolungato e forzato stop, a sondare il pubblico, hanno voluto mettere la loro carne sulla bilancia della vita, hanno voluto soppesare quanto la pandemia, la distanza, l'impossibilità lavorativa avesse cambiato le loro prerogative e priorità. E' mutato infatti il loro rapporto con la scena (qui netta di Francesco Calcagnini)DSC_1788.jpg e ne è scaturito un lavoro intimo, riflessivo, che apre e spazia, che prende e getta, che ti colpisce alla pancia, un vomito costruttivo costruito e calibrato per arrivare là fin dove si sono spinte, in questa materia bollente e lavica che è la vita con le sue rughe, le sue disfatte, i drammi, le cadute. Uno spettacolo che è una piccola rivincita. Le due donne (prima che attrici sono donne) si sono lasciate attraversare dalla vita, vissuta a pieno, ne hanno colto le conseguenze, non sono fuggite alle proprie responsabilità e a noi si sono donate per riconoscere nella zoomata all'interno del loro tempo quella universalità che pervade, come elettricità, quelle di tutti, per non sentirsi soli né abbandonati, per ritrovarsi come comunità in un abbraccio ideale. “L’uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo” (Mahatma Gandhi).

Un racconto a doppia mandata, alternandosi come su un'altalena, passandosi il testimone, oscillando un proiettore, dentro le pieghe delle loro autobiografie. E ci tengono nel sottolineare la totale autenticità e veridicità dei fatti che hanno immesso nell'agorà, a volte stupendoci, altre sorprendendo, altre ancora scioccando, spesso commuovendo. Non hanno avuto timori, remore o tremori, in ogni sceDSC_1506.jpgna (la drammaturgia tesa alla pulizia linguistica di Angela Di Maso) si sono lanciate, non hanno gettato il “Cuore” oltre l'ostacolo ma se lo sono tenuto lì, vicino a loro, stretto, perché non fuggisse, perché non si rintanasse dietro una di queste solide colonne che reggono l'edificio, come se l'anima che ci hanno messo, la linfa, il sudore nel vivere e nel recitare, fosse e rimanesse pilastro e radici imprescindibili al di là di qualsiasi avvenimento accaduto, di qualsiasi evento che le ha ferite, offese, tradite. I capitoli da una parte fanno salire l'intensità, mentre dall'altra scendono in profondità emozionale, l'asticella si alza, i respiri friggono sotto le mascherine, i cuori pompano. “Tutto nel cuore. E tutto il cuore in tutto” (Patrizia Valduga).

L'inizio con la sega elettrica (vera anche quella) sembra il preludio ad uno sfogo contro qualcosa o qualcuno, un tagliare i rami secchi, un eliminare quello che cDSC_1272.jpgi ha fatto male nel corso degli anni; invece scopriamo che le due protagoniste non hanno nessuna voglia di cancellare, anzi, hanno fatto pace con il proprio passato e, proprio perché ne hanno preso coscienza e adesso sono consapevoli che tutto il vissuto ha fatto sì che divenissero le donne che sono oggi, lo hanno accolto. “Non togliermi neppure una ruga – diceva la grande Anna Magnani alle truccatrici – le ho pagate tutte care”. E' un racconto che ha una forma leggera intriso però di forza dura, senza sconti, passando dal rapporto acre con qualche collega o grande regista che spesso trattano gli attori come esecutori e non come persone. Alvia Reale ha la dirompenza di un Montag in Fahrenheit 451, guerresca e guerreggiante, Daniela Giovannetti, in rosa tenue, sommessa sorseggia l'aria come libellula. “I drammi più commoventi non si svolgono nei teatri ma nel cuore degli uomini” (Carl Gustav Jung).

La prima ci racconta come la gravidanza l'abbia eliminata dal mondo del teatro, l'altra del grave incidente alleDSC_1570.jpg gambe che le ha distrutto un sogno che era partito scoppiettante direttamente dalle trasmissioni della Carrà. Fare i bilanci, invece che mettere la polvere sotto il tappeto, è sintomo di grande onestà, soprattutto con se stessi, fare pulizia e lasciare spazio per affrontare e ricevere e ospitare il futuro. La Reale (canta divinamente, da “Pensiero stupendo” fino a una Mina rivisitata) srotola con lentezza e calma placida i centrini tessuti dalla madre da poco scomparsa; crea una sorta di tappeto dove si riconoscono i disegni ma anche la storia, la trama, l'arte di vite ricamate da una madre che aveva lasciato l'uomo che l'aveva messa incinta perché la voleva fare abortire. Vite difficili, vite riscattate con la fatica, con l'impegno, con il talento, con il coltello tra i denti tra sensi di colpa, senso di inadeguatezza, insicurezze ma sempre coerenti e oneste. E' una resa dei conti (“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien” potremmo aggiungere) che passa anche attraverso errori che non si rimarginano e che sfocia nel capitolo conclusivo che scuote: mentre la Giovannetti veniva “salvata” da un gatto quando aveva smesso di nutrirsi, la Reale, dopo la separazione, non avendo spazio, decise di lasciare il proprio cane al canile con l'intenzione, dopo qualche mese, quando avesse trovato un'altra sistemazione, di riprenderlo; quando tornerà per riabbracciarlo il cane nel frattempo si era lasciato morire. E' una scarica di adrenalina alla quale non hanno voluto rinunciare, non hanno voluto nascondere niente, “niente trucco per me, perché non sia il gioco di un'ora. Sai che ho anch'io ho la mia storia, sia la vita, la scena”.

Tommaso Chimenti 08/10/2021

Foto: Francesco Calcagnini

La Via Appia Antica è un patrimonio nazionale che comprende beni culturali e paesaggistici nei territori di diversi comuni del Lazio meridionale attraversati da questo tracciato storico. In occasione della Giornata Europea dei Parchi è stato presentato il nuovo “Sistema della Via Appia Antica nel Lazio”: si tratta di cinque diversi progetti che hanno come obiettivo un itinerario di valorizzazione unico che comprende i Comuni di Roma, Ciampino, Marino, il Parco Regionale e quello Archeologico dell’Appia antica. Fra i progetti, il primo – proposto dal Parco Archeologico dell’Appia Antica  – prevede un intervento sugli strumenti di mappatura e informazione virtuali, cartacei, didattici, di cartellonistica e segnaletica del contesto urbano e suburbano, unificandoli e integrandoli in un’unica piattaforma multifunzionale. Quest’ultima sarà affiancata dall’app “ItinerAppia”, realizzate da Coopculture e Istogramma, e grazie a esse i visitatori avranno modo di organizzare la propria visita al Parco in piena autonomia.

Il secondo progetto è curato dal Parco Regionale dell’Appia Antica e comprende l’area che si snoda fino alla località Frattocchie di Marino. È già stato avviato un lavoro di valorizzazione della vecchia struttura produttiva dismessa, trasformata in spazio polifunzionale autonomo. In questo progetto attività didattiche e formative affiancheranno il percorso di visita. La firma del terzo progetto è della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale e prevede la riqualificazione e la valorizzazione del complesso della Villa di Massenzio, una delle aree archeologiche più suggestive della campagna romana. La parte più importante del progetto ha visto il restauro conservativo e il recupero degli ambienti dell’antico Arco dei Cenci. Promotore del quarto progetto è il Comune di Marino e prevede una serie di opere di manutenzione e pulizia dei margini e dei basoli dell’antica strada per restituire l’immagine che ne ebbero i viaggiatori del passato. Il progetto ha previsto anche la piantumazione di alcune essenze tipiche del paesaggio locale. Il quinto e ultimo progetto è stato proposto dal Comune di Ciampino ed ha visto, anche questo, l’intervento sulla manutenzione dell’antica strada attraverso la messa in sicurezza di alcune aree e la sistemazione del Fosso del Cipollaro. I cinque progetti del Sistema della Via Appia Antica nel Lazio fanno parte dell’ambizioso programma di riqualificazione e valorizzazione dei luoghi della cultura del Lazio, voluto dalla Regione.

Noemi Spasari  04/06/2021

Una manifestazione che mette al centro della scena contemporanea il mondo queer, con forza e valenza espressiva. Il festival si svolgerà in streaming fino a venerdì 30 aprile 2021, guidato dalla compagnia Ondadurto Teatro, affiancata dalla collaborazione artistica delle Drag Queen HoliDolores e del duo Karma B.
Il progetto, promosso da Roma Culture, è vincitore dell'Avviso Pubblico CONTEMPORANEAMENTE ROMA 2020-2021-2022, curato dal Dipartimento Attività Culturali ed è realizzato in collaborazione con SIAE.
Drag Me Up (https://dragmeup.it), punta i riflettori sulle arti performative come il Draging, il Pop, la Performing Art, il Cabaret, la Stand Up Comedy, l'Opera Lirica: questi linguaggi, che apparentemente sono molto diversi tra loro, sono in realtà uniti dalla qualità artistica a cui la generazione queer attinge da sempre. È così che questo festival riunisce tutti questi linguaggi in cui coesistono molteplici forme di espressione che riflettono le molteplici forme di essere.
Un ensemble artistico che si muove tra codici artistici contemporanei e zone in prossimità tra arte e vita, mostrando al pubblico un mondo colorato e ironico e che dà luogo a percorsi creativi che indagano su contesti umani diversi tra loro. Il festival include eventi performativi, incontri, mostre fotografiche, laboratori ed eventi collaterali e dà il via al progetto triennale partito da un'edizione zero svoltasi online negli ultimi mesi del 2020.
Il primo Queer Art Festival nasce con la missione di porsi come network internazionale per le arti contemporanee e l'attivismo LGBTIQ+. Una vetrina di espressioni di generi e caratteri che unisce ironia e attivismo socioculturale da cui partono riflessioni su istanze sociali legate all’inclusione.
La manifestazione vede coinvolti quattro spazi di Roma, vivendo la città come luogo di accoglienza, in più punti distanti tra loro, a sottolineare il coinvolgimento di più stratificazioni sociali, dal centro alla periferia.

Noemi Spasari  14/04/2021

L’opera buffa è una cosa seria, soprattutto nelle mani di Emma Dante. In occasione dei festeggiamenti organizzati dal Teatro di Roma per il duecentesimo anniversario dell’esordio nella capitale del compositore pesarese Gioachino Rossini, che avvenne il 20 febbraio 1816 al Teatro Costanzi con il “Barbiere di Siviglia”, alla regista palermitana è toccata la ‘sfida’ di dirigere l’ultimo dramma giocoso del genio marchigiano prima della svolta verso l’opera seria, “La Cenerentola, ossia il trionfo della bontà” del 1817. Lo spettacolo è disponibile sul sito del Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito dell’iniziativa Teatro digitale, dove è possibile anche ascoltare la “Lezione d’opera” sul dramma, podcast a cura del musicologo, compositore e conduttore radiofonico del programma “Lezioni di Musica” su Rai Radio 3 Giovanni Bietti.
Si è usato in precedenza il termine sfida perché la storia di Cenerentola appare come una semplice favola morale a lieto fine che esalta la bontà e la mitezza come doti necessarie per il riscatto sociale, soprattutto per tutte quelle generazioni cresciute con la versione disneyana della fiaba, mentre Dante ha sempre portato in scena storie di donne in lotta con strutture di potere arcaiche ma persistenti in cui l’happy end non è contemplato, in una cornice spesso surreale e sospesa tra realtà e fantasia di certo non consolatoria ma arcana e misteriosa. La rilettura dell’opera rossiniana da parte delle regista punta lo sguardo su quei meccanismi di sopraffazione psicofisica e sulla violenza domestica di cui è vittima la giovane protagonista, apparentemente unica eccezione in una società di arrampicatori sociali che dietro la cipria, la livrea e le gonne a sbuffo nascondono meschina cattiveria e invidia.
Angiolina, detta Cenerentola, è una sguattera maltrattata dalle sorellastre Clorinda e Tisbe e dal patrigno don Magnifico (che sostituisce la matrigna presente della fiaba del francese Charles Perrault). Quest’ultimo, a insaputa della ragazza, ha dilapidato un sostanzioso patrimonio lasciato in eredità ad Angiolina dalla madre scomparsa per soddisfare, ogni capriccio delle altre due. La famiglia, nonostante viva nello sfarzo, è sull’orlo della bancarotta e quando viene a sapere che il principe cerca moglie, il nobile decaduto tenta in ogni modo di convincerlo a prendere in sposa una delle sue due figlie. In un ricamo di sotterfugi, malintesi e colpi di scena il rampollo però convola a nozze con la ragazza sporca di cenere per il tempo trascorso a riscaldarsi al caminetto.
Nell’opera frizzante e dinamica di Rossini messa in scena da Dante non ci sono però cenere, fumo e caminetti. La regista opta per una cifra scenografica insieme essenziale e appariscente. La vicenda infatti si svolge tutta in un interno, con una parete bianco confetto in cui si aprono finestre, in una monocromia lattiginosa dolciastra e luccicante rotta da poche variazioni, come le giacche simil Beatles color carta da zucchero e i guanti e le scarpe rosse indossate dal principe e dal suo seguito. L’ispirazione per l’allestimento scenico e i costumi è figlia della corrente artistica Pop Surrealism, nata negli anni Settanta negli Stati Uniti, e dai quadri di uno dei suoi massimi esponenti, Ray Caesar. La poetica del movimento, che nasce tra le subculture giovanili, è quella di una rappresentazione fumettistica carica di umorismo e sarcasmo, in netta opposizione con l’arte elitaria delle classi colte, e riproduce elementi della pop culture con uno sguardo psichedelico e allucinato. Dante quindi sceglie di connotare la società aristocratica come un ambiente frivolo e grossier, affogato in un edonismo capriccioso e infantile, insincero e viziato disposto a ricorrere alla violenza quando si sente minacciato. Durante la festa a palazzo reale, l’affannata e famelica ricerca di essere scelte dal principe porta le dame accorse al ballo a sfoderare armi da fuoco di varie fogge quando compare sulla scena un’ospite misteriosa vestita di nero, prima macchia di un (non) colore diverso che come una scheggia si conficca nell’epidermide pallida dell’aristocrazia. E’ Cenerentola, lì in incognito grazie all’astuzia di Alidoro, il precettore del principe, che ha assistito all’incontro del figlio del re sotto mentite spoglie con la servetta a casa di quest’ultima.
Prima di calarsi nell’abito da sera nero e di celare il volto dietro una veletta, la sguattera di don Magnifico e di Tisbe e Clorinda, Angiolina la cova-cenere aveva i connotati tipici delle figure femminili dipinte da Caesar, ragazze dalla fattezze di bamboline agghindate con delle mise provocanti in una miscela equivoca e inquietante di innocenza ed erotismo. Fiocchetti rossi in testa, capelli grigio argento come il vestito e la gonna, un grosso cinturone in vita che segna la mezzanotte, uno dei pochi rimandi alla Cenerentola più nota al grande pubblico, a cui viene attaccata una grossa catena che simboleggia la sua condizione esistenziale di persona sottomessa. “Cenerentola vien qua”gorgheggiano bizzose e incontentabili le sorellastre mezze svestite, un po’ ammiccanti un po’ arruffate, e lei va ora dall’una ora dall’altra potendo contare solo sull’aiuto di altre Cenerentole caricate a molla che la aiutano nelle pulizie. Lei in quella casa è utile solo in quanto elettrodomestico in carne ed ossa, non esiste in quanto persona. Per i suoi tentativi di lanciar al mondo un segnale della sua esistenza, è punita dal patrigno e dalle due sorellastre. La raffica di calci e pugni che le riservano dopo il ballo rompe quella subdola atmosfera di zucchero filato, è un lampo di verità illuminante. Senza essere uno spettacolo apertamente schierato, che avrebbe rischiato di diventare didascalico, questa rappresentazione ci ricorda quante invisibili Cenerentole abitano nelle nostre case, ridotte alle sole mansioni domestiche e succubi di vessazioni fisiche e psicologiche che non si trasformano, poi, in un lieto fine.

Lorenzo Cipolla

Se la cultura e l’arte hanno un compito, questo è di agire sull’uomo per cambiare il suo rapporto con la realtà. Un’esperienza di mutamento che passa prima dai sensi, la visto e l’udito, poi dall’emozione, gioia o disgusto, e infine si tramuta in consapevolezza. Da alcuni anni Enzo Cosimi, coreografo romano classe 1958, illumina zone d’ombra dove il nostro occhio solitamente non cade, per disattenzione o vigliaccheria o persino semplice abitudine ed assuefazione, con un discorso sperimentale che ci afferra per il nostro bavero interiore e scuote l’animo. Una commozione a cui fa seguito una presa di coscienza di una realtà fragile, dolorosa, intima rimasta oscurata e che ora, dopo esser venuta alla luce e quindi rinata, può cominciare a camminare con noi, dentro di noi. Il pubblico del Teatro Biblioteca del Quarticciolo, quartiere di Roma est, ha visto sfumare l’occasione, per via delle misure di contrasto al Covid-19, di vedere sul palcoscenico della sala una di quelle opere che certo rinnovano il nostro punto di vista sul mondo. Ovvero La bellezza vi stupirà. Spettacolo che parla di ed è interpretato da donne e uomini senza fissa dimora e primo quadro della trilogia Ode alla bellezza, dedicata alla scavo nelle vite relegate ai margini o nascoste al (pre)giudizio degli altri, iniziata nel 2015 con questa pièce e seguita da Corpus Hominis (2016), storia di un amore omosessuale tra una persona anziana e un uomo più giovane, e I love my sister (2018), racconto transessuale del passaggio da donna a uomo, è diventato il tema del primo appuntamento dell’iniziativa Ritratti d’attualità, l’intervista-dialogo tra la giornalista e critica della danza Marinella Guatterini e Cosimi trasmesso in diretta sulla pagina Facebook del teatro. Il coreografo contemporaneo, spiega la giornalista descrivendo il pensiero e l’opera dell’artista, lo è in quanto è capace di guardare dentro ogni aspetto e ogni anfratto della realtà che lo circonda, si apre agli stimoli provenienti da altri ambienti e al lavoro dei suoi colleghi. Soprattutto è in grado di mutare il suo linguaggio. Quella di Cosimi è una sfida e un’esplorazione costante che scopre temi scomodi e coinvolge spesso performer non professionisti, elemento innovativo che fu tutt’altro che ben accolto da una certa critica culturale agli inizi della sua carriera negli anni Ottanta. Poi Guatterini porge la prima domanda sulla genesi di quest’opera e, per esteso, da quale bisogno è scaturita l’intera trilogia.

Le tre produzioni nascono da un’indagine su vite invisibili, relegate ai margini della nostra considerazione perché in qualche modo avvertite ancora come irregolari, degli scarti dalla norma, che per quanto diverse sono accomunate dal dolore che si prova ad essere giudicati. Nell’alternanza tra domande, spunti, guizzi e risposte Cosimi affronta aspetti tecnici, umani, di metodo, senza dimenticare la finalità di questa produzione dell’intera trilogia: “Voglio dare un nuovo sguardo su queste persone. Sono tre lavori di cui vado fiero e penso che negli anni possano essere visti con maggior oggettività e maggior empatia”. Il coreografo ha ripreso l’idea de La stanza del principe, una revisitazione del secondo atto del balletto Il lago dei cigni in cui il personaggio del principe perde tutti i suoi connotati regali, messa in scena con persone senza fissa dimora. Questo “racconto fiabesco”, illustra Cosimi, prende vita grazia alla collaborazione delle associazioni che si occupano di chi finisce in strada e li trasforma, almeno per il tempo della rappresentazione, “in re e regine”. Una seconda occasione, seppur breve e momentanea, per chi ha visto l’esistenza scivolargli via dalle dite senza riuscire ad più aggrapparvisi per non naufragare. Cosimi spiega anche come negli ultimi anni il profilo del senzatetto sia cambiato a causa anche delle crisi che colpiscono la nostra società. “Prima l’homeless era una figura borderline, oggi chi lo diventa chi perde lavoro, la casa chi non vede più i figli. Ci sono ex avvocati, oltre a persone con difficoltà di salute e varie esperienze di vita”. Stimolato dalle domande e dalle osservazioni di Guatterini, Cosimi scende più nel dettaglio. Abituato da anni a lavorare con dei non professionisti, in una settimana – racconta il coreografo – riesce a instaurare un rapporto con i suoi attori vincendo le loro insicurezze e a portarli sul palco, concentrandosi sulla loro presenza scenica, sul ritmo e la musicalità. “Una sfilata visionaria, un cortocircuito tra l’effimero, il glamour e i loro sguardi. Voglio mettergli intorno un’aura di bellezza”, descrive Cosimi la rappresentazione. Un lavoro forte e diretto alla coscienza che, al di là del lato più istrionico, mostra la convivenza degli individui col proprio dolore. Ancora il regista: “È un dolore che contiene perdono, gioia, rabbia e sofferenza. Il dolore è un atto di sottomissione e insieme di resistenza alla fragilità umana. Ti reinventi il quotidiano attraverso le ferite che ti porti dietro. Ma ci siamo tanto abituati a consumare il dolore che non siamo in grado di prendercene cura”. La bellezza vi stupirà è un appello a commuoverci e provare empatia per le vittime del disinteresse e della paura del diverso, guardandolo con occhi nuovi e l’animo pronto ad accogliere. La curiosità della giornalista poi si spinge a sondare i piani futuri del coreografo. "La rappresentazione non terminerà qui, spero di riuscire a portarla al Quarticciolo”, assicura Cosimi che prosegue, “intanto mi dedicherò a questa dance media performance che ho chiamato Coefore Rock & Roll, la seconda parte della trilogia sull’Orestea, preprata per Romaeuropea Festival 2020. Ho anche intenzione di tornare in scena con la performance di 15 minuti “I need more”.

La conversazione tra i due è stata introdotta da estratti di alcune videointerviste a persone senza fissa dimora registrate da Cosimi in varie città d’Italia ed è seguita dalla visione di un promo di due minuti, risalente alla messa in scena di La bellezza vi stupirà all’edizione del 2015 del festival capitolino Teatri di Vetro. Se la missione della danza e del teatro è quella di far sedere lo spettatore non su un comodo cuscino ma su un cumulo di carboni ardenti che impediscono il puro intrattenimento e disturbano l’imperturbabilità, portandoci chissà dove, Cosimi è sicuramente su quella traiettoria. Con Ode alla bellezza ha mostrato vite (auto)recluse, con la precedente trilogia Passioni dell’anima ha strappato dal di dentro e gettato al di fuori di noi le nostre paure più inibenti, la nostra brama tanto più repressa quanto deflagrante più di piacere fisico – con un ricorso al sesso e alla sessualità non più come (legittimi) strumenti di rottura e di scandalo ma come chiavi di lettura della società e dei suoi cambiamenti – e la sofferenza che alza una cortina di separazione tra noi e lo scorrere dell’esistenza, rinchiudendoci in un ovattato vuoto dove l’assenza di senso si fa schiacciante, che il mondo contemporaneo per paradosso alimenta nella sua convinzione che la vita sia solo materialità e raziocinio. Con la prossima trilogia, ispirata all'Orestea di Eschilo, iniziata dalla del rapporto tra sesso e potere in chiave sadomasochistica di Glitter in my Tears e in attesa di proseguire col secondo capitolo Coefore Rock & Roll, la destinazione è ancora incognita.

Lorenzo Cipolla

«Abbiamo 45 minuti di tempo»: così ci accoglie l’unica voce sul palco. È Monica Demuru che parla e lo farà instancabilmente per il resto dello spettacolo. Una sola interprete per “Jukebox”, l'edizione romana dello spettacolo andato in scena al Teatro India, è un progetto tutto da scoprire e smontare in collaborazione, pensato per mettere insieme tante voci e consegnarle agli spettatori della serata. 
Tutti provvisti di una “Lista documenti”, che ricorda il menù di un ristorante, siamo pronti a guidare il racconto di Monica: la messa in scena è affidata, oltre che alla regia di Joris Lacoste, anche allo spettatore per una scelta delle 40 registrazioni a disposizione in elenco che eseguirà l’interprete.
Ma dove nasce questa collezione di parole? Il progetto artistico appartiene all’Encyclopédie de la Parole per costruire un viaggio nella cultura della lingua parlata che prosegue da anni.foto 2
Jukebox ha attraversato tre città italiane - Roma, Prato e Cagliari - raccogliendone la parte maggiormente personale ed umana: la parola.
Se Aristotele nel IV secolo descriveva l’uomo come un animale sociale allora è necessario reperire, scandagliare e analizzare la comunicazione alla base di questa ipotetica socialità. Cosa ci rende così simili o così diversi, perché le percezioni colloquiali mutano a seconda del luogo?
Ognuno dal proprio posto, stuzzicato dal titolo o dalla breve descrizione, seleziona la sua sequenza giunta dai discorsi figli di tutti i giorni - parole che attraversano mezzi pubblici, uffici, scuole, internet e altri luoghi di aggregazione. 
Arrivano sul palco le voci di sottofondo, quelle quotidiane, quelle stravaganti e spesso quelle voci urlate. Jukebox indaga ed esplora come l’uomo si rappresenta, come parla di sé o si rapporta con l’altro per una drammaturgia che disegna esattamente ciò che siamo.
Monica Demuru è il porteur perfetto di questa danza continua: energica e vivace riesce a creare un filo conduttore con il pubblico che, in pochissimo tempo, abbandona la timidezza e si getta senza sosta nella richiesta dei pezzi.
La sua funzione di jukebox umano si compie all’ennesima potenza, Demuru è la padronanza dei dialetti che interpreta, la libertà di movimento in scena e la capacità di poter proiettare con la sua performance l’esatta storia che narra. Ci dimentichiamo di lei come sola voce per lasciare spazio ai personaggi, protagonisti del materiale raccolto, e alle loro peculiarità contestuali, linguistiche, culturali e geografiche.
Un esperimento continuamente rigenerato: si ricrea ad ogni performance e muta a seconda della percezione di chi lo richiede o lo ascolta, per le medesime caratteristiche o condizionamenti di chi ha pronunciato le parole in origine.
Un messaggio che si costruisce diversamente anche e rispetto al mezzo o agli interlocutori coinvolti: un’ulteriore ricerca di Lacoste e Demuru tradotta attraverso una partitura consapevole che sottolinea e valorizza le differenti peculiarità espressive.
La selezione, la scelta e la partecipazione del pubblico riescono a ricreare una piccola comunità attiva, curiosa di sapere quale sarà il pezzo successivo o quale sceglierà lo spettatore accanto. Un’ironica rappresentazione, compenetrata con la realtà dei messaggi raccolti, ci rende al termine dello spettacolo ancora curiosi di sapere nuovi racconti, di ascoltare altri dialetti e scoprire spunti di comunicazione vicini e lontani da noi. Usciamo da Jukebox avendo ancora voglia di esplorare le infinite partiture del quotidiano che in profondo conservano le nostre identità, perché direttamente prodotte da noi.

Arianna Sacchinelli 
04-03-2020

Il cinema tricolore si tinge d’argento alla settantesima edizione del Festival del cinema di Berlino. Elio Germano si è aggiudicato infatti l’Orso d’argento come miglior attore per la sua interpretazione del pittore Antonio Ligabue in "Volevo nascondermi", mentre i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno vinto quello per la miglior sceneggiatura con "Favolacce". Il premio principale, l’Orso d’oro, è stato assegnato al regista iraniano Mohammad Rasoulof per il film "There Is No Evil", una intensa riflessione sulla pena di morte ancora vigente nella Repubblica islamica. Poiché Rasoulof non poteva essere in Europa in seguito a una condanna per reato di propaganda contro il governo, al suo posto alla cerimonia di premiazione si è presentata la figlia e attrice Baran Rasoulof, a cui si è affiancato il presidente della giuria Jeremy Ironsche lo ha fatto essere lo stesso ‘presente’ con una videochiamata.Tra le lacrime di gioia e l’emozione collettiva del cast e dei presenti, il regista ha detto: “Nel mio film parlo di tutti coloro che allontanano la responsabilità da se stessi”. In "There Is No Evil" sono raccontate quattro storie i cui protagonisti devono confrontarsi con se stessi e con gli altri sul tema dell’esecuzione capitale. Echeggia anche una versione di "Bella ciao", quella cantata delle mondine italiane del secolo scorso. Nel 2019 Rasoulof si è visto infliggere una pena di un anno di carcere - ad oggi non è ancora stato imprigionato - e il divieto di girare film e di uscire dall’Iran. “Ha avuto l'idea per questo film quattro mesi fa, ci siamo messi subito al lavoro. Non sapeva se sarebbe finito in prigione", ha raccontato uno dei produttori.
Non è mancata una sentita emozione nelle loro parole quando a ritirare i premi, due Orso d’argento, sono stati gli italiani. Nelle nostre sale il film diretto da Giorgio Diritti sull’artista italo-svizzero non è ancora arrivato per via del Coronavirus. Germano si è veramente trasformato nel pittore e scultore tanto evocativo e potente nell’arte quanto minato nel fisico e nella psiche. L’attore romano nei suoi ringraziamenti si è rivolto “a tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti i fuori casta. Lui diceva sempre “Un giorno faranno un film su di me”, ed eccoci qui!”. Per i gemelli di Tor Bella Monaca registi di "Favolacce" non è stato facile contenere la felicità. Il loro discorso è si trasformato in un siparietto in è cui sfuggito un “mortacci tua”. Il loro film, in cui recita anche Germano, è uno spaccato sulla disagiata e dura vita nella periferia romana dove l’energia positiva – nonostante tutto – dei bambini si scontra con la rabbia, l’astio e la resa incondizionata degli adulti.I fratelli D'Innocenzo

Ad aggiudicarsi il Gran Premio della Giuria è stato "Never Rarely Sometimes Always" della cineasta indipendente americana Eliza Hittman, che racconta la gravidanza indesiderata di una giovane diciassettennedella Pennysilvania, mentre al sudcoreano Hong Sang-soo è stato assegnato l’Orso d’argento alla regia per il suo "The Woman Who Ran". Il premio come miglior attrice è andata alla tedesca Paula Beer, protagonista di "Undine" diretto Christian Petzold, il quale ha ricevuto un Orso d’argento per il suo contributo artistico. A Jurgens Jurges il premio per la migliore fotografia, grazie al suo lavoro in "Dau. Natasha" di Ilya Khrzhanovkiy e Jekaterina Oerte. Vincitore dell’Orso d’argento per la settantesima edizione è stato "Delete History" di Benoit Delepine e Gusave Kervern sul tema dell’intelligenza artificiale, mentre l’Orso d'oro per i cortometraggi è andato a "T" della regista giamaicano-americana Keisha Rae Witherspoon.Come miglior documentario della manifestazione è stato scelto "Irradiated" del regista cambogiano Rithy Panh. “Un grande giorno per il cinema italiano, questi due riconoscimenti ne confermano la qualità, la vitalità e la contemporaneità”, ha dichiarato il ministero per i Beni e le Attività culturali Dario Franceschini.

La figura di Maria Maddalena è da sempre vittima di equivoci fuorvianti: avvolta da una nube di mistero che sfuma i confini tra storia e leggenda, è stata raffigurata, soprattutto dal Cinquecento in avanti, come la peccatrice penitente per antonomasia, sospesa in un equilibrio ambivalente tra sacro e profano. Ma ci sono tradizioni, come quelle dei vangeli apocrifi e gnostici, che ci restituiscono una versione ben diversa della storia: Maddalena sarebbe stata la più fedele seguace di Cristo, presente alla sua crocifissione e alla sua sepoltura, prima testimone della sua resurrezione e annunciatrice del lieto evento agli apostoli. In un tempo in cui le donne non erano padrone nemmeno di loro stesse, Cristo avrebbe affidato proprio a Maddalena il messaggio più prezioso, il mistero della resurrezione, rendendola di fatto testimone prediletta e «apostola degli apostoli». È questa l’«ipotesi» che Roberta Calandra ha materializzato in un testo pieno di suggestioni poetiche e di riferimenti letterari, religiosi ed esoterici, dove il messaggio cristiano convive con i misteri di Iside e i richiami a figure leggendarie come la Regina di Saba.

In principio era il silenzio. Un’ipotesi apocrifa per il Vangelo di Maria Maddalena, in scena dal 25 febbraio al 1° marzo al Teatro Cometa Off, per la ammaliante regia di Antonio Serrano, si configura come un racconto a più livelli. C’è innanzitutto la storia di un passaggio di testimone: Cristo, che Myriam, alias Maddalena, chiama rabbi (lett. “mio maestro”), è sul punto di abbandonare la vita terrena e ha scelto Myriam come erede del suo lascito spirituale, affinché diffonda il Verbo facendosene mediatrice privilegiata. Myriam è una donna piena di vita e di spirito d’indipendenza, una donna cha sa ridere e amare senza vergogna; ma la richiesta di lasciare andare il suo amato le sembra inconcepibile, soprattutto perché separarsi da lui significa accettare di vederlo morire in croce. E allora si oppone, lo contesta, scruta - per capirle fino in fondo - le ragioni della sua scelta, prima che arrivi l’alba e l’addio si faccia definitivo.
Così, lungo i quattordici dialoghi (come le stazioni della Via Crucis) che scandiscono lo spettacolo, i bravissimi e intensi Valentina Ghetti e Mauro Racanati mettono in scena un conflitto che va ben oltre la filologia evangelica: sul palco si fronteggiano i due principi opposti e complementari del maschile e del femminile, che lungi dal costituire un cinico gioco al massacro intessono una danza finalizzata alla costruzione di un significato più ampio, di una più alta unità («Io e te siamo uno», dice Cristo a Myriam). A ritmare il confronto verbale intervengono momenti di più intima e leggera giocosità: l’allenamento di Myriam, ad esempio, che deve prepararsi al compito più difficile che le potesse toccare in sorte, e si ritrova a tirare colpi di boxe al suo compagno e a esercitarsi con la corda. La scenografia minimale e sottrattiva, il pavimento sonoro rappresentato dai suoni di una stazione ferroviaria, e perfino i costumi, sospesi tra un’atmosfera orientaleggiante e uno stile gipsy, rendono fluidi e potenzialmente attuali i loro ruoli: Cristo potrebbe non essere Cristo, ma un estroso saltimbanco ansioso d’inseguire un sogno; e Myriam potrebbe non essere Maddalena, ma una donna qualsiasi, innamorata e testarda, che non vuole rinunciare al proprio uomo. Se il contesto è ibrido, il contenuto profondo della rappresentazione emerge con luminosa solidità: «Nessuno può essere nell’altro se manca a se stesso», ricorda Cristo a Myriam, e la invita a cessare la lotta e a vivere in libertà.

La rivoluzione di Cristo comincia dal silenzio, dall’ascolto profondo dell’altro e di noi stessi, anche delle parti più oscure e impenetrabili, che temiamo e disprezziamo. La sfida è quella di amare non solo l’altro, ma anche noi stessi: «Chi è diviso resta nel buio», ripete Cristo, invitando Myriam e gli spettatori a risolvere la divisione con l’amore, che dev’essere nutrimento, non riempimento di una mancanza. Cristo e Maddalena si fanno dunque portavoce di una necessaria ricomposizione degli opposti, la stessa che Jung immaginava come un “matrimonio” interiore tra Animus e Anima, indicanti rispettivamente la componente maschile nella donna e quella femminile nell’uomo. Si fa strada allora una spiritualità sincretistica, che riscopre il regno di Dio a partire dal cuore dell’uomo: è il corpo, grande rimosso collettivo della dottrina cattolica, a farsi tempio di questa integrazione. «Loro mi volevano maschio», dice Myriam degli altri apostoli. E d’altronde la presenza di una donna tra i discepoli del Cristo non è mai stata ben digerita. Eppure è proprio una donna, che raccoglie fragilità e coraggio, sensibilità e accoglienza, a potersi forse rivolgere agli «uomini dal cuore indurito» senza che le sue parole cadano nel vuoto.

Maria Giulia Petrini 29/02/2020

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