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Ci sono tanti modi per compiere una rivoluzione: con armi, slogan, urla, fiori posti all’interno di cannoni, o bandiere lasciate svolazzare verso il cielo. Per fare una rivoluzione ci vogliono soprattutto due fazioni contrastanti e opposte sul piano ideologico, politico, culturale pronte a fronteggiarsi e scontrarsi. Quella della capraia Lucia sull’isola di Capri nel 1914 è una rivoluzione intimista e interna al proprio mondo; un manifesto dispiegato contro l’ottusità di un universo chiuso, povero, paternalistico e maschilista.

Quella di “Capri-Revolution” di Mario Martone (presentato in concorso alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia) è una lotta innescata dall’arrivo sull’isola partenopea di un gruppo di giovani del nord Europa, qui unitosi in una comunità per sperimentare nuovi stili di vita e innovative espressione artistiche. Insieme alla comunità fa il suo arrivo sull’isola anche un giovane medico (Antonio Folletto) portatore di idee che mettono la scienza e l'interventismo al primo posto. Un nuovo modo di pensare, di vivere del tutto estraneo a quello professato per anni sull’isola di Capri.

La ribellione che investe la giovane Lucia nasce da un mondo che non conosce e da cui è attratta. La comune ispirata a quella del pittore Karl Diefenbach è un universo comunitario e di uguaglianza che permette alla giovane di recidere le fila che la tenevano stretta a un nucleo famigliare opprimente e schiacciante la propria individualità. Un microcosmo famigliare tetro, buio, portato sullo schermo da una fotografia fredda e scura, rimembrante i quadri di Giovanni Fattori per quella patina polverosa e cinerea che va ad ammantare l’inquadratura. Una visione totalmente contrastante con quella di Capri, terra vergine dai colori accesi e sgargianti. Un Eden paradisiaco, habitat perfetto di uomini primitivi, e allo stesso tempo teatro principale dello spettacolo della natura che inizialmente la protagonista non riesce a leggere e interpretare. Dopo “Noi Credevamo” e “Il giovane favoloso”, Mario Martone aggiunge un nuovo tassello a quel trittico dell’emancipazione della persona e dei propri valori sullo sfondo di una storia d’Italia pronta a mutare. Le candcapri revolutionele delle stanze claustrofobiche in cui si rinchiudeva il Giacomo Leopardi di Elio Germano lasciano spazio ora a mari cristallini e campi immensi, illuminati da una luce solare pronta a riscaldare corpi nudi e del tutto poveri di inibizione, colti in un abbraccio erotico che tanto ricorda quello messo in scena da Michelangelo Antonioni in “Zabriskie Point”. L’eleganza che caratterizza i balletti di baushiana memoria (difficile non pensare al “Sacre du Printempes” coreografato dalla danzatrice tedesca)ed eseguiti con disperata esigenza di liberazione dai membri della comunità guidata da Seybu, sottolinea la voglia di distaccarsi dai doveri e oneri sociali. Se l’interpretazione di Marianna Fontana (una delle due gemelle protagoniste del sorprendente “Indivisibili” di Edoardo De Angelis) si rivela capace di dare un volto a tutte quelle sfumature che animano il personaggio di Lucia, il film di Martone, al contrario, risulta molto spesso pretestuoso e pretenzioso. Il teatro portato sullo schermo all’interno della natura isolana è troppo didascalico, appesantito da un’oratoria esacerbata e fondata su un lirismo fin troppo ostentato. La tensione tra le due parti (Lucia e il mondo di appartenenza) non si riversa mai in uno scontro, o in un faccia a faccia liberatorio, ma anzi continua a sussistere alimentato da una reciproca indifferenza. Non si giunge mai, cioè, a uno scontro tra le  due fazioni; Lucia viene scacciata dai fratelli, esiliata dal proprio nucleo famigliare, disprezzata dai compaesani e infangata da sguardi silenti e colmi di (pre)giudizio. Ciononostante non viene mai accesa la fiamma della rivoluzione. Lucia sembra come accettare il prezzo da pagare per la sua libertà ritrovata all’interno della comunità proto-hippie, ma lo fa senza mai affrontare chi ha deliberato la sua sentenza. Il paese di contadini e la comune vivono fianco a fianco, si sfiorano senza toccarsi mai. Se escludiamo la portata rivoluzionaria che anima il cambiamento di Lucia e la sua presa di coscienza di un’individualità fin troppo taciuta perché donna e povera, viene meno nel film di Martone quel senso di ribellione che il titolo presupponeva e di cui la protagonista poteva benissimo farsi portatrice. Di certo le performance attoriali di molti interpreti (soprattutto di quelli che incarnano i vari membri della comune) così forzate e non naturali, non aiutano a slegare l’opera da un’insistita ridondanza e farla navigare libera tra le acque della fantasia.

Elisa Torsiello, 17 dicembre 2018

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