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È il 1962 nell’America di Kennedy. L’approvazione del Civil Rights Act è ancora lontana e nel Paese vige la forte segregazione razziale delle leggi Jim Crow. Anche solo per potersi spostare in sicurezza all’interno della propria nazione, gli afroamericani sono costretti a usare una guida specifica, il Green Book, appunto, un itinerario prefissato e rigoroso, che implicitamente sottolinea una enorme restrizione fisica e ideale della loro libertà.

In questo contesto avviene l’incontro fra il pianista Donald Shirley e il suo autista Tony Vallelonga, una storia vera che il regista Peter Farrelly decide di raccontare attraverso la formula on the road, per comunicare sin da subito il valore trasformativo dell’esperienza narrata. Il road movie, che infatti nel cinema rappresenta per antonomasia un percorso di mutamento psicologico dei personaggi, testimonia passo dopo passo i momenti di costruzione dell’amicizia fra due personalità apparentemente inconciliabili.

Al di là del sentimentalismo, tuttavia, il film tende a dimostrare che il vero collante fra i due uomini sia il riconoscimento reciproco di una stessa marginalità sociale, assumendosi la responsabilità di ritrarre il lato più ipocrita dell’endemico razzismo statunitense.
Con intelligenza, di conseguenza, Green Book sfrutta e manipola i più celebri e radicati stereotipi razziali, dando vita a dei personaggi incredibilmente interessanti e sfaccettati, che diventano indimenticabili nei corpi e nei volti di Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Tony Vallelonga (Mortensen), da considerare il vero e proprio protagonista, viene presentato per primo, individualmente, nelle lunghe sequenze che raccontano la vita degli immigrati italiani nel Bronx, luogo che già implica di per sé una serie di facili deduzioni riguardo la natura illecita delle attività di Tony e il suo tenore di vita. Scaltro e senza scrupoli, povero ma furbo, capace di usare la violenza per ottenere un vantaggio, emarginato e insultato perché italiano, ma ostile e razzista a sua volta, egli sembra inizialmente un tipo fisso, un personaggio trito e ritrito, fino all’incontro con il delicato personaggio del pianista afroamericano Donald Shirley (Ali).
Quest’ultimo, invece, è rappresentato in opposizione esplicita, attenta e quasi forzata a tutti i più diffusi stereotipi di allora e di oggi ma comunque ne rimane costantemente vittima, per il suo solo aspetto. È un black man che non ha mai ascoltato Aretha Franklin né suonato un blues, mai mangiato pollo fritto o parlato il vernacolare afroamericano. È un uomo colto, elegante e abbastanza intelligente da comprendere di non avere un posto, nella sua condizione privilegiata, né fra i neri né fra i bianchi, a causa di una società incapace di accettare il suo status e contemporaneamente la sua identità.

Rozzo e volgare il primo, raffinato e impeccabile il secondo, i personaggi incarnano due estremi che man mano si smussano gli angoli a vicenda, imparando l’uno dall’altro come sopravvivere in un mondo in cui sono, in fondo, dei reietti e imparando al contempo molto di se stessi.
A livello superficiale, dunque, Green Book racconta una storia personale, incentrata su singoli individui e sulla loro reciproca scoperta dell’Altro. È ingenuo, tuttavia, pensare che oggi negli Stati Uniti un film di questa portata non abbia stratificazioni più profonde e ripercussioni dirette nel dibattito pubblico; esso crea volontariamente un sottotesto di denuncia, rivolto soprattutto verso la deresponsabilizzazione collettiva che si crea all’interno di un sistema ingiusto ma consolidato, che nessuno ha il coraggio o il motivo di boicottare. È così che si arriva all’esternazione di una vera e propria morale, forse superflua perché già nel complesso perfettamente chiara, da parte del personaggio di Mahershala Ali; uno sfogo risolutivo più melodrammatico che realmente rabbioso, indirizzato al pubblico bianco, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica verso il tema ancora tristemente caldo del razzismo.

Valeria Verbaro 31/01/2019

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