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“Il roseo compiacimento del proprio lavoro è esclusivo retaggio dei dilettanti”.
L’affermazione di Emilio Cecchi accoglie i visitatori nello spazio Extra MAXXI, all’interno del complesso del Museo delle Arti del XXI secolo, dove fino al 1 settembre 2019 è possibile visitare la mostra fotografica di Paolo Di Paolo: Mondo Perduto. Fotografie 1954-1968, con il main sponsor di Gucci.
Un'accoglienza particolare per questo progetto, ma che si addice, in realtà, allo spirito personale e all’etica professionale del fotografo Paolo Di Paolo. Paolo Di Paolo portrait bio
Infatti, il fotografo di origini molisane, classe 1925, pur avendo amato intensamente il suo lavoro, ha saputo rinunciare al richiamo di una fama effimera e dopo il suo ritiro professionale, ha preferito tenere per sé i suoi piccoli-grandi gioielli, gli scatti dell’amata Leica III C, mettendoli, letteralmente, in cantina.
Nessuno della sua famiglia era a conoscenza di questo archivio segreto, che sa tanto di favola dal tesoro nascosto, finché la figlia Silvia, alla fine degli anni ‘90 non vi si imbatte per caso, mentre sta cercando un paio di sci, chiedendo al padre, dopo molte resistenze, di farsi raccontare quella bellissima storia che ora è davanti gli occhi di tutti.
E’ all’inizio degli anni ’50 che Paolo Di Paolo arriva a Roma dal Molise per studiare storia e filosofia: l’Italia è in piena ricostruzione, grandi sono le speranze e le attese.
Il 1954 è l’anno della svolta, Di Paolo perde la testa per una macchina fotografica, la Leica III C: la compra a rate e inizia a scattare per puro divertimento.
Intanto, entra in contatto con gli ambienti artistici di Roma e sono proprio i suoi amici artisti a suggerirgli di proporre le foto al settimanale culturale Il Mondo, fondato e diretto da Mario Pannunzio.
Di Paolo 2Inizia, così, un sodalizio unico, Paolo Di Paolo diventa in breve tempo uno dei collaboratori più assidui del giornale: pubblica 573 fotografie che ritraggono i protagonisti del mondo dell’arte, della cultura, della moda, del cinema e la gente comune. Un’Italia ancora in bianco e nero, ma che a poco a poco stava riprendendo colore, dopo la guerra.
Ed è proprio al Mondo che Paolo Di Paolo, in uno dei contributi video presenti nella mostra, riconosce l’unicità, lo stile, propri di un giornale che ha saputo dare valore alla fotografia: non più solo corredo agli articoli, ma la stessa immagine come racconto, impressione dell’autore. «Si comprava il Mondo anche solo per guardarlo» racconta Di Paolo.
Al centro della sala della mostra, una ricostruzione della redazione del giornale, insieme alle vecchie copie, fa respirare quell’aria di lavoro e dedizione, e ci si commuove quasi, guardando la macchina da scrivere.
E’ il Mondo che dà a Di Paolo la possibilità di esprimersi, infatti, quando nel 1966 il giornale chiude, il fotografo decide di abbandonare definitivamente il suo lavoro, anche perché le linee editoriali degli altri giornali stavano volgendo alla cronaca scandalistica, cui non vuole proprio cedere.Di Paolo 3
Nonostante ciò, l’intensa collaborazione con il giornale ha permesso a Di Paolo di viaggiare in tutta Italia, dando vita a scatti iconici che, nella mostra, sono divisi in sezioni.
L’Italia tra gli anni ’50 e ’60: irresistibile, per delicatezza e semplicità, la foto del Presidente della Repubblica Antonio Segni, inginocchiato, mentre si adopera nella cura di una piantina nel 1963, o ancora, la foto dell’aeroporto di Pantelleria, negli anni ’60, dove in primo piano c’è un asinello all’ombra di un grande aereo, simboli della tradizione, sempre viva, specie in alcuni contesti e la modernità, che stava per “decollare” in quegli anni.
Poi, la sezione intitolata “Gli incontri impossibili”, una serie di ritratti di grandi artisti e rappresentanti del mondo della cultura e del cinema, che Di Paolo ha fotografato anche per altre riviste: sorprende un’inedita Oriana Fallaci che si concede all’obiettivo, realmente allegra e sorridente mentre si snoda in varie pose in spiaggia o Anna Magnani che prende il sole insieme al figlio, ancora, una magnetica Charlotte Rampling, in pelliccia, accucciata sulla poltrona di un hotel in Sardegna, dove era impegnata sul set. Il fotografo in un video racconta di essersi seduto di fronte a lei con la macchina fotografica e di come l’attrice abbia iniziato ad indagare con il suo sguardo «da volpe», cercando di capire le intenzioni di Di Paolo, fino a concedersi allo scatto perfetto, non studiato, in cui emerge tutta la bellezza della donna.
Di Paolo 4Sezione particolare e ben più ampia quella dedicata al rapporto con Pier Paolo Pasolini: nel giugno del 1959 Paolo Di Paolo è a Milano per incontrare Arturo Tofanelli, direttore del settimanale Tempo e del mensile Successo, per concordare il consueto servizio estivo sulle vacanze degli italiani. Di Paolo ha già una proposta per il titolo, “La lunga strada di sabbia”.
Tofanelli gli propone un compagno di viaggio, Pier Paolo Pasolini, che allora aveva già scritto Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e Una vita violenta, ma non è ancora diventato regista.
Nasce così una coppia dagli equilibri delicati, che sarà insieme solo per la prima tappa del viaggio, da Roma a Ventimiglia. «Lui cercava un mondo perduto, di fantasmi letterari, un’Italia che non c’era più, racconta Di Paolo, io cercavo un’Italia che guardava al futuro». Di Paolo 5
Tra le due personalità, tuttavia, c’è sempre stato rispetto e fiducia, Paolo Di Paolo ha sempre avuto la capacità di essere complice con i suoi soggetti, che così si concedevano a lui piacevolmente.
Infatti, Pier Paolo Pasolini è anche protagonista di alcuni scatti intimi, fatti nella sua casa romana, insieme alla madre o sul set del film Il vangelo secondo Matteo.
La sezione permette di entrare nel vivo del rapporto dei due artisti, oltre che a far rivivere l’estate degli italiani di quegli anni con quello stesso servizio per cui hanno collaborato:caldo, tintarelle, divertimento e semplicità, da Nord a Sud.
E che dire ancora della sezione dei viaggi all'Estero, momenti e figure che non si vedranno più, come la Piazza Rossa di Mosca con una folla in fila per la visita al mausoleo Lenin, nel 1961.
Di Paolo 6Paolo Di Paolo commenta la sua decisione alla chiusura del Mondo, dicendo:«Ho smesso di fotografare per amore della fotografia» e l'amore, in qualche modo, torna sempre indietro.
E' così che oggi possiamo ammirare questi teneri, delicati, veri scatti, che raccontano la nostra identità nel tempo.

Noemi Riccitelli 18/06/2019

Si rimane profondamente impressionati dal volto di Enrico Ghezzi, dai suoi occhi che guardano in macchina dietro ai grandi occhiali, dalla voce rauca e fuori sincrono, dai capelli scapigliati e i discorsi all'apparenza incomprensibili. Il volto di FUORI ORARIO cose (mai) viste era commovente. Si ricordano solo in modo oscuro le sue parole peregrine e si fanno alcuni passi nel buio per seguirne il filo in un sofisticato disordine asincrono. Fin dall'inizio della sigla di Patti Smith, Because the night, è chiaro che la passione per il cinema non è priva di sentimento, che non è solo un’ossessione erotica del guardare. Lo sappiamo dalle immagini dell’Atalante di Jean Vigo (1934). Per i cinefili, FUORI ORARIO è stato, ogni notte in cui è andata in onda la storica trasmissione di cinema, un appuntamento amoroso durato trent'anni. Un innamoramento facile da capire. Il 3 aprile 2019, Fondazione cinema per Roma e MAXXI hanno festeggiato il più bel programma di cinema in Italia con un evento curato in collaborazione con Mario Sesti, Enrico Ghezzi e la redazione di FUORI ORARIO, in collaborazione con il gruppo Facebook FUORI ORARIO cose (mai) viste e la magnifica ossessione.
Quindici anni fa, alla domanda se il cinema è al tramonto, Enrico Ghezzi rispondeva che il tramonto è il cinema. Quindici anni dopo, per il critico, si può dire esattamente la stessa cosa, perché «il tempo è la cosa meno influente sul cinema». Si chiede a questo proposito, senza saperlo, se in questi quindici anni o trenta, per quanto riguarda FUORI ORARIO, ci sono stati film fuori dal tempo. Quel quindicennale iniziava con Vivre sa vie di Jean-Luc Godard (Questa è la mia vita, 1962), col primo piano del viso di Anna Karina nell'episodio Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe (1842). «La nostra programmazione, in quel caso, si chiamava Autoritratto di un paese ovale», voce di una strana enunciazione verbale in una mistura ghezziana di arte e cinema, «in attesa che l’eterno giovane pittore di immagini – c’è sempre un giovane regista – riesca a terminare il suo ritratto ovale». Così, con rigore ininterrotto e frasi filmiche ricorrenti, FUORI ORARIO va in onda, per il palinsesto RAI, in un Paese crepuscolare. Sull’idea di “filmicizzare” la tv e di rendere del cinema la diretta, il programma è stato punteggiato da alcune schegge che hanno costruito una sua idea di cose viste, cose (mai) viste, che vengono continuamente riviste. Tra queste, le trentasei apparizioni di Alfred Hitchcock nei suoi film sono un caso, forse un po’ didascalico, nota Mario Sesti, di cosa vuol dire rivedere cose mai viste. I due ricordano un grande ricercatore della redazione di FUORI ORARIO, Ciro Giorgini, il cui metodo di lavoro è pura investigazione hitchcockiana: investigare, confrontare, trovare immagini rare, appunto mai viste, era la sua ossessione. Partire dalla rarità, per il cinema che è il trionfo del qualunque cosa, non appare che nella forma di un paradosso. Le cose più belle che il suo conduttore non ha mai rivisto a FUORI ORARIO, invece, sono legate al suo FUORI ORARIO personale. Magnifiche ossessioni che non è possibile rivelare. Due su tre fanno parte di quelle che non ha visto affatto, mentre le altre ha finito per darle. «Il cinema è sempre lo stesso soprattutto quando cerca di essere diverso». Suona quasi come una famosa sentenza carpenteriana l’affermazione di Enrico Ghezzi su questi trent’anni di cinema di ricerca, di sperimentazione, di archivio, di montaggio, di passione ininterrotta per il grande schermo, per film arretratissimi e bellissimi. Più le cose cambiano, più restano le stesse, diceva Snake Plissken, (anti) eroe di Escape from L.A. (Fuga da Los Angeles, 1996). C’è una sorta di fuga del tempo rispetto al mai visto. Basta una parentesi per dare alle cose mai viste la vestigia di un piacere senza nome.

Elvia Lepore, 08.04.2019

Le file. Chiunque sia abituato a seguire Zerocalcare, in arte Michele Rech, come fan casuale o appassionato sostenitore della prima ora, sa che le file sono un corredo fisiologico di qualsiasi manifestazione a cui il fumettista romano partecipa. Tredici ore di attesa per ottenere l’agognato disegnetto sulla propria copia di “Dimentica il mio nome” sono un episodio entrato nell’aneddotica della storia del fumetto italiano ma soprattutto una pietra di paragone con cui misurare un successo esploso nel corso degli ultimi anni, che non conosce battute d’arresto.

Per questo non c’era da stupirsi che anche sabato 10 novembre al MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI Secolo le file fossero co-protagoniste di rilievo insieme all’inaugurazione dell’esposizione su Zerocalcare. File per l’incontro moderato da Marco Damilani fra il fumettista e il fotografo Paolo Pellegrin – anche lui presente negli spazi museali con una mostra fotografica. File per i biglietti, ovviamente, ma anche per guadagnare l’ingresso dello Spazio Extra MAXXI. Spazio in cui, fino al 10 marzo 2019, i visitatori potranno ammirare strisce inedite, tavole originali, poster, cover di dischi, pagine di Moleskine realizzate da Zerocalcare in un lungo percorso artistico che si snoda a partire dai suoi diciassette anni e che, dopo altrettanto tempo, porta a opere come “Macerie Prime – Sei mesi dopo”. MostraZerocalcare 2

La mostra si presenta divisa in quattro aree tematiche: Pop, Tribù, Lotte e Resistenze, Non Fiction. Prima di arrivare all’openspace che accoglie queste sezioni – divise da muri dagli orli tondeggianti, che richiamano la corazza dell’Amico Armadillo, coscienza di Zerocalcare – tocca attraversare una tromba delle scale, dove due elementi accolgono il visitatore. Si tratta di una replica del murale del mammut, che campeggia all’uscita della Metro B di Rebibbia, e della biografia del fumettista romano, che si inerpica lungo i muri fino al piano superiore. E già qui si nota il forte taglio politico (perché, per dirla con le parole del contributo video di Marco Damilano all’interno della mostra “sappiamo tutti qual è l’orientamento politico di Zerocalcare”) della mostra.

Zerocalcare, ancora una volta, approfitta della sua arte e della sua capacità di toccare i cuori di tanti, indipendentemente dalla generazione d’appartenenza, per parlare d’altro. Non di se stesso ma dei temi che più gli sono cari: ogni tappa della sua vita, personale e artistica, si intreccia con un evento che ha interessato la vita, sociale e politica, del Paese. E così, i diciassette anni sono l’occasione per parlare dell’evento traumatico del G8 di Genova. I primi passi nel mondo del fumetto autoprodotto corrono paralleli al problema, sempre più grave ma sempre meno raccontato dai giornali, delle rappresaglie fasciste contro gli esponenti dell’universo antifascista e dei centri sociali.

E questo rimando costante alla realtà che lo circonda, pur partendo quasi sempre da esperienze autobiografiche, è uno dei due punti forti di una mostra che offre prospettive anche nuove sul lavoro che c’è dietro il successo di Zerocalcare: al visitatore sono offerti contenuti video, la possibilità di sfogliare tutti i fumetti che l’artista ha pubblicato con la casa editrice BAO – in un sodalizio che dura ormai da sette anni – tavole inedite, ripescate dall’archivio personale del fumettista, ma quello che colpisce è altro.

MostraZerocalcare 3Prima di tutto gli onnipresenti e irrinunciabili disegnetti: vergati a pennarello sui pannelli della mostra, come ironiche note a piè pagina, riportano la voce personale di Zerocalcare a tutti i presenti, illustrando le ragioni dietro alcune scelte espositive (“Oh questa è una selezione di tavole, non sono tutte consecutive. Quindi se non capite non è perché so’ una pippa e neanche perché c’avete avuto un ictus voi. È normale” esclama in una di queste didascalie) o le polemiche dietro una vignetta disegnata a diciassette anni.

E poi ci sono i visitatori.

Per capire fino in fondo la presa che Zerocalcare ha sull’immaginario collettivo, tocca voltarsi, di tanto in tanto, e seguire il rumore degli improvvisi scoppi di risa o il movimento con cui tante persone si accovacciano, per continuare a leggere uno dei fumetti esposti. E non si tratta di una curiosità che colpisce solo gli inediti: l’attenzione e l’ilarità si scatenano persino per le tavole disponibili sul blog di Zerocalcare, già lette e condivise, e che pure continuano a catturare la curiosità di chi passa. Sta tutta lì la testimonianza di quanto sia vivo il percorso di una mostra i cui contenuti riescono a parlare a tanti, toccando le corde più contradditorie – in quel mix di risate e improvvisa e tremenda serietà a cui la narrazione del fumettista romano ci aveva già abituato fin dai tempi de “La profezia dell’Armadillo”.

Scavare fossati ∙ nutrire coccodrilli” è un’esposizione che già nel titolo si porta impresse le sue tematiche: la narrazione di un percorso artistico compless e in cui nulla è mai stato dato per scontato, certo. Ma anche la proiezione, su tavola, dei tormenti non del solo Michele Rech, l’uomo dietro Zerocalcare, ma di tutta la comunità che lo circonda e in cui si muove. Una riflessione sul mondo da cui proveniamo e quello in cui stiamo sprofondando, una palude in cui si scavano fossati per proteggersi dal “diverso” e ci si lascia affascinare dal sorriso squamoso dei coccodrilli.

È un’esposizione importante, che non scade mai nell’autocelebrazione, ma semplicemente mostra una storia che è assieme autobiografica e collettiva, come lo sono tutte le vicende che Zerocalcare racconta – un autore da cui non si può prescindere, se si vogliono cogliere importanti sfaccettature della società italiana contemporanea.

Di Ilaria Vigorito, 11/11/2018

Tra incontri, migrazioni, rielaborazioni e settant’anni di attività didattiche e produttive, l’Accademia Nazionale di Danza è lieta di presentare un nuovo progetto intitolato “Cantiere Danza: Fuori dal mito 1948-2018”. Riscoprire le proprie origini è un modo per ricordare il passato e porre nuove basi per il presente e l’AND lo fa con un percorso triennale (2018-2020) che prevede la realizzazione di svariate idee e iniziative. Tre anni di scoperta e riscoperta a partire da tre concetti fondamentali, Radici, Percorso e Volo, analizzati ed esplorati dalle quattro realtà scolastiche che compongono la struttura: la Scuola di Danza Classica, la Scuola di Danza Contemporanea, la Scuola di Coreografia e la Scuola della Didattica. Si parte con il coltivare le radici: nel corso del 2018 l’obiettivo è quello di rivitalizzare e riattualizzare il patrimonio dell’Accademia per ridargli nuova vita attraverso l’intreccio tra spazio, tempo e corpo. In questo contesto il Cantiere Danza si aprirà allo studio, alla discussione e alla rivisitazione delle proprie radici per poi intraprendere un volo che non è solo un viaggio verso qualcosa di nuovo ma anche una sensazione di vertigine e di attrazione verso il nuovo e l’emozione. Tra gli atti creativi di Cantiere Danza, la mostra itinerante dei costumi storici dell’accademia:Premio Roma Danza 2018 FB1 Ro-Mat TransumAND, realizzata in collaborazione con la Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e nata dall’idea dell’attuale direttrice artistica Enrica Palmieri. La mostra avrà luogo dal 20 giugno al 28 dicembre 2018 con otto tappe e otto artisti che occuperanno gli spazi di musei, istituzioni pubbliche e private, da Roma a Matera passando per L’Aquila, Teramo, Pescara, Campobasso, Benevento, e Foggia. Sul versante formazione, sarà organizzato un Master di I livello in Tecniche dell’improvvisazione coreutico-musicale, diploma accademico congiunto con il dipartimento Jazz del Conservatorio di Santa Cecilia e MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo). In cantiere anche tre Master di II livello sui temi “L’archeologia del Gesto sui sentieri della Magna Grecia”, “La Dinamica dell’Immagine: progettazione, riprese e costruzione” e “Pratiche musicali in ambito coreutico”. Una particolare e rinnovata attenzione va anche ai licei coreutici nazionali e ai progetti Erasmus di scambio con prestigiose istituzioni artistiche e scientifiche in Mali e in Palestina. In questo lungo percorso saranno coinvolti docenti e professionisti esterni che proporranno workshop, laboratori e spettacoli. Il dialogo con l’esterno si svilupperà anche con il progetto Resid’AND e attraverso la formazione dei più piccoli con EducANDo in DANZA. Parallela la XVI edizione del Premio Roma – Concorso Internazionale di Danza che si svolgerà all’interno del Teatro Grande dell’Accademia Nazionale di Danza tra 8 e 12 luglio 2018. Si tratta di un palcoscenico per far conoscere nuovi talenti e rinvigorire la disciplina, diffondendola in tutte le sue forme. Accanto al presidente della giuria Koffi Koko, ospiti di fama internazionale come Hafiz Dhaou, Omar Rajeh, Francesca Manica, Elisabeth Nehring, Valentina Valentini, Italo Pesce Delfino; tra i lavori migliori, che andranno in scena nel Galà finale del 12 luglio, i giudici decreteranno i vincitori.

Benedetta Colasanti 16-06-2018

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