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Entrare nell’acqua, lasciar affondare e affogare il vecchio sé, riemergere rinnovati: è il nuovo battesimo sociale, affettivo, umano che insegue contraddittoriamente Israel (Israel Gómez Romero) per le due ore e mezza di "Entre dos Aguas" (2018), film di Isaki Lacuesta proiettato al cinema Farnese di Roma nel corso del dodicesimo Festival del Cinema Spagnolo. Appena uscito di prigione, il protagonista deve affrontare un’ulteriore odissea (o via crucis) per lavarsi di dosso le tracce del passato e tornare pienamente alla vita: fra una moglie che non lo accetta in casa e un reinserimento lavorativo non meno travagliato, tanto più per un giovane gitano nella periferia andalusa a nord di San Fernando. Ad accompagnare Israel, come un Virgilio poco meno fragile di lui, abbiamo il fratello Cheito (Francisco José Gómez Romero), marinaio che preferirebbe la stabilità di una vita da panettiere alle trasferte che rischiano di mettere in crisi (anche) il suo equilibrio coniugale.

Nel riprendere i fili della vicenda di Israel, già intessuti dodici anni prima con il film La leyenda del tiempo, il regista e co-sceneggiatore non può che riflettere prima di tutto sul passare degli anni e sulle cicatrici e le chimere che tale scorrere si porta dietro. Il cuore del problema è in una delle più belle inquadrature del film, dove da una tendina colorata in controluce sbuca la figura del protagonista prima ragazzino e poi adulto: la riscoperta e riconferma della propria identità rischiano ad ogni momento di farsi gabbia, marchio indelebile di scelte compiute e ingombranti eredità che restano sulla pelle come i tatuaggi di cui è cosparso il corpo di Israel. Non a caso è proprio la pelle tatuata l’elemento visivo (e tematico) su cui si sofferma più volte lo sguardo di Lacuesta, insieme a quello, opposto e complementare, dell’acqua: l’abbraccio totalizzante e purificatore di quest’ultima non può che scontrarsi, senza facili e pacificanti soluzioni, con i (di)segni di un’individualità non appiattibile (anche suo malgrado) al proprio stesso auspicio di riscatto-resurrezione.

In questa ambivalenza sofferta del personaggio principale (e non solo di lui), e nell’altrettanto indecidibile ambiguità tra forma documentaristica e finzione drammatica, l’unica verità stabile offerta dal film sembra essere allora quella dei corpi. Ai corpi Lacuesta si mantiene vicinissimo, dei corpi si mostrano le ferite aperte (come quella al piede che Israel si procura raccogliendo i frutti di mare) e i momenti più intimi e delicati (il parto all’inizio) con una crudezza che non è mai gratuita o morbosa: perché solo nella carne, nei suoi movimenti e soprattutto nei movimenti che il tempo imprime su di essa, si può (ri)leggere, (ri)scrivere e (ri)narrare la propria storia, il proprio percorso, le proprie relazioni con gli altri e con l’alterità degli spazi che si abitano. E questo non comporta necessariamente una soluzione ai rispettivi dilemmi: non troviamo soluzioni nel viso barbuto e negli occhi strabici di Cheito, né nei momenti d'amore che i corpi nudi di lui e della moglie strappano alla nuova, imminente partenza, e nemmeno nella schiena e nelle braccia tatuate di Israel: ma c’è in tutto questo una verità che respira e (r)esiste mentre i giorni la (ri)modellano, una verità che scorre e si deposita negli occhi e nelle memorie degli spettatori-testimoni, irrisolta quanto irriducibile.


Emanuele Bucci  7-5-2019

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