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Si è conclusa da poche ore, con l’inaspettato trionfo di Green Book di Peter Farrelly, la 91ª edizione degli Academy Awards. Il prestigioso premio cinematografico statunitense, seguito ogni anno da milioni di telespettatori in tutto il mondo, è stato celebrato come da tradizione al Dolby Theatre di Los Angeles ma, per la prima volta dopo trent’anni, non ha avuto un presentatore ufficiale ad accogliere sul palco ospiti, nominati e vincitori. Una circostanza un po’ anomala verificatasi dopo la rinuncia alla conduzione del comico americano Kevin Hart, finito sotto i riflettori per dei commenti omofobi ritrovati sul suo account Twitter. In effetti, come ci hanno sarcasticamente ricordato ad inizio serata Tina Fey, Maya Rudolph e Amy Poehler, quella di quest’anno è stata una corsa all’Oscar piuttosto chiacchierata, dalla polemica dell’#OscarSoBlack all’annuncio dell’Academy di consegnare alcuni premi durante le pubblicità (in seguito ritrattato). Ma nulla di tutto ciò ha fermato Hollywood: the show must go on e così si è optato per la conduzione multipla – raggruppando sul palco alcuni tra i più amati protagonisti del grande schermo – e sulla straordinaria performance d’apertura affidata proprio ai Queen che, accompagnati dalla voce di Adam Lambert, hanno ricordato il compianto Freddy Mercury con i loro successi “We Will Rock You” e “We Are The Champions”.

Sebbene sia stato Green Book ad essere eletto miglior film - a discapito di Netflix e della sua costosa campagna pro-Oscar - è comunque il regista messicano Alfonso Cuarón, con il suo Roma, il vero vincitore di questa serata, avendo conquistato le tre statuette per miglior fotografia, miglior regia e miglior film straniero. Gli Oscar alla sceneggiatura hanno invece premiato lo stesso Green Book come opera originale e BlacKkKlansman di Spike Lee come sceneggiatura non originale, in quanto adattamento dell’omonimo libro di Ron Stallworth.

Vincitori Oscar 2019

Rami Malek, con la sua interpretazione del leggendario Freddy Mercury in Bohemian Rhapsody, è stato incoronato come miglior attore protagonista mentre il collega Mahershala Ali, per la seconda volta in tre anni, ha ottenuto l’Oscar come miglior attore non protagonista per il suo ruolo in Green Book. Due prime vittorie invece nelle categorie femminili dove Regina King, alla prima nomination, ha vinto come miglior attrice non protagonista in Se La Strada Potesse Parlare di Barry Jankins ed Olivia Colman, per la sua interpretazione della Regina Anna in La Favorita di Yorgos Lanthimos, ha innalzato la statuetta come miglior attrice protagonista (stravolgendo tutti i pronostici che davano per certa la vittoria di Glenn Close per The Wife).

Come previsto la sorprendente Lady Gaga non ha vinto il premio alla migliore attrice ma ha ricevuto, per la sua "Shallow", il meritato Oscar per la miglior canzone. La sua performance live con Bradley Cooper è stata il momento più commovente ed appassionante di una serata alquanto deludente, che verrà ricordata soprattutto per la conduzione assente e i tempi sbrigativi. Black Panther, il cinecomic targato Marvel (il più chiacchierato tra i film nominati) è stato invece premiato per la colonna sonora di Ludwig Goransson.

Ma passando ai premi tecnici: Bohemian Rhapsody di Bryan Singer è stato indubbiamente un titolo ricorrente della serata, premiato per il miglior montaggio, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoroFirst Man di Damien Chazelle ha vinto il premio ai miglior effetti speciali, mentre Black Panther di Ryan Coogler ha vinto per la miglior scenografia e i costumi (soffiandoli entrambi a La Favorita) e Vice di Adam McKay per il trucco e il parrucco.

Non tutti i premi erano però inaspettati, come l’atteso l’Oscar al miglior film d’animazione consegnato senza sorprese a Spiderman: Un Nuovo Universo di Ramsey, Persichetti Jr. e Rothman.
Nella categoria cortometraggi hanno trionfato Skin di Guy Nattiv come corto in live-action, Period.End of Sentence di Zehtabchi e Berton come corto documentario e Bao di Domee Shi e Becky Neiman-Cobb come corto animato. Mentre Free Solo di Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi è stato premiato come miglior documentario con un forte plauso del pubblico.

Un’edizione difficile che, dopo mesi di polemiche, si è conclusa con un’atipica e apatica cerimonia di premiazione, guidata da una voce fuori campo e intervallata da discorsi piuttosto noiosi, stroncati a metà dall’incedere dell’orchestra. Insomma, Queen a parte, una notte degli Oscar da non ricordare.


Silvia Piccoli 25/02/2019

È il 1962 nell’America di Kennedy. L’approvazione del Civil Rights Act è ancora lontana e nel Paese vige la forte segregazione razziale delle leggi Jim Crow. Anche solo per potersi spostare in sicurezza all’interno della propria nazione, gli afroamericani sono costretti a usare una guida specifica, il Green Book, appunto, un itinerario prefissato e rigoroso, che implicitamente sottolinea una enorme restrizione fisica e ideale della loro libertà.

In questo contesto avviene l’incontro fra il pianista Donald Shirley e il suo autista Tony Vallelonga, una storia vera che il regista Peter Farrelly decide di raccontare attraverso la formula on the road, per comunicare sin da subito il valore trasformativo dell’esperienza narrata. Il road movie, che infatti nel cinema rappresenta per antonomasia un percorso di mutamento psicologico dei personaggi, testimonia passo dopo passo i momenti di costruzione dell’amicizia fra due personalità apparentemente inconciliabili.

Al di là del sentimentalismo, tuttavia, il film tende a dimostrare che il vero collante fra i due uomini sia il riconoscimento reciproco di una stessa marginalità sociale, assumendosi la responsabilità di ritrarre il lato più ipocrita dell’endemico razzismo statunitense.
Con intelligenza, di conseguenza, Green Book sfrutta e manipola i più celebri e radicati stereotipi razziali, dando vita a dei personaggi incredibilmente interessanti e sfaccettati, che diventano indimenticabili nei corpi e nei volti di Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Tony Vallelonga (Mortensen), da considerare il vero e proprio protagonista, viene presentato per primo, individualmente, nelle lunghe sequenze che raccontano la vita degli immigrati italiani nel Bronx, luogo che già implica di per sé una serie di facili deduzioni riguardo la natura illecita delle attività di Tony e il suo tenore di vita. Scaltro e senza scrupoli, povero ma furbo, capace di usare la violenza per ottenere un vantaggio, emarginato e insultato perché italiano, ma ostile e razzista a sua volta, egli sembra inizialmente un tipo fisso, un personaggio trito e ritrito, fino all’incontro con il delicato personaggio del pianista afroamericano Donald Shirley (Ali).
Quest’ultimo, invece, è rappresentato in opposizione esplicita, attenta e quasi forzata a tutti i più diffusi stereotipi di allora e di oggi ma comunque ne rimane costantemente vittima, per il suo solo aspetto. È un black man che non ha mai ascoltato Aretha Franklin né suonato un blues, mai mangiato pollo fritto o parlato il vernacolare afroamericano. È un uomo colto, elegante e abbastanza intelligente da comprendere di non avere un posto, nella sua condizione privilegiata, né fra i neri né fra i bianchi, a causa di una società incapace di accettare il suo status e contemporaneamente la sua identità.

Rozzo e volgare il primo, raffinato e impeccabile il secondo, i personaggi incarnano due estremi che man mano si smussano gli angoli a vicenda, imparando l’uno dall’altro come sopravvivere in un mondo in cui sono, in fondo, dei reietti e imparando al contempo molto di se stessi.
A livello superficiale, dunque, Green Book racconta una storia personale, incentrata su singoli individui e sulla loro reciproca scoperta dell’Altro. È ingenuo, tuttavia, pensare che oggi negli Stati Uniti un film di questa portata non abbia stratificazioni più profonde e ripercussioni dirette nel dibattito pubblico; esso crea volontariamente un sottotesto di denuncia, rivolto soprattutto verso la deresponsabilizzazione collettiva che si crea all’interno di un sistema ingiusto ma consolidato, che nessuno ha il coraggio o il motivo di boicottare. È così che si arriva all’esternazione di una vera e propria morale, forse superflua perché già nel complesso perfettamente chiara, da parte del personaggio di Mahershala Ali; uno sfogo risolutivo più melodrammatico che realmente rabbioso, indirizzato al pubblico bianco, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica verso il tema ancora tristemente caldo del razzismo.

Valeria Verbaro 31/01/2019

Alla Hollywood Foreign Press Association piace la musica. Questo è quanto si desume analizzando i vincitori della 76.esima edizione dei Golden Globes targati 2019. Non si spiegherebbero altrimenti i trionfi – alquanto discutibili – di certi titoli su altri più meritevoli. La voglia di esularsi dalla realtà, di staccare quella spina che ci lega a una quotidianità roboante e a volte troppo spesso veloce per poterla cogliere e apprezzare, ha influenzato le scelte degli spettatori in sala e con essi anche quelle di coloro che hanno decretato la vittoria di film come “Bohemian Rhapsody” e “Green Book” nelle categorie più importanti: miglior film drammatico e miglior film commedia o musical. Le vittorie degli scorsi Golden Globe possono essere cioè riassunti come “il giudizio popolare che sormonta quello critico e tecnico, tralasciando la costruzione del film a favore dell’intrattenimento”. Una sorta di vendicazione del potere spettatoriale a discapito del concetto base di premiazioni ad alto livello come queste: la meritocrazia. Quelli svoltosi lo scorso 6 gennaio più che premiare, cioè, talento e bravura, hanno puntato sul gusto degli spettatori, lasciando così a bocca aperti esperti e critici.

greenbookLa musica jazz del film di Peter Farrelly, “Green Book”, nasconde una realtà ancora troppo famigliare nell’America odierna. Un’amicizia che supera i confini di classe e di razza, dove il musicista di colore Don Shirley (Mahershala Ali) assume l’italo americano rissoso e di buona forchetta Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen) come suo tuttofare. La mano di Don tocca dolcemente i tasti del pianoforte, nell’estrema esigenza di sentirsi amato, apprezzato. Tocca i tasti come vorrebbe toccare le mani di un amico, di un amante, di un confidente. Ogni nota che suona corrisponde a un battito cardiaco ora accelerato, ora sincopato; un cuore dolce, nascosto da una corazza di altezzosità esacerbata per la paura di essere ancora una volta ferito, buttato a terra e colpito a sangue. La musica per Don Shirley in “Green Book” è tutto, proprio come lo fu per Freddie Mercury, portato egregiamente sullo schermo in “Bohemian Rhapsody” da un Rami Malek, e per questo degno della vittoria nella categoria “miglior attore protagonista in un film drammatico”. Eppure c’è qualcosa che non torna nella vittoria del film diretto da Bryan Singer. Al di là della stessa regia, firmata da un autore denunciato per molestie sessuali, e per questo totalmente in contrasto con le battaglie portate in campo fino a un anno fa proprio sui red carpet dell’Award Season 2018, “Bohemin Rhapsody” si presenta come opera agiografica e al servizio dei fan in memoria del leader dei Queen, piuttosto che come prodotto qualitativamente meritevole di vincere ai Golden Globe. Il film risulta imperfetto, giocato su un montaggio singhiozzante e incoerente. Tante, troppe le note stonate che compongono quest’opera che seppur potente e trascinante grazie alla colonna sonora firmata Queen, non fa altro che inciampare e cadere. Perché allora decretare vincitore un film come questo? È l’eco del pubblico, dello spettatore che si siede al cinema per il gusto di sospendere la realtà e lasciare la propria ordinarietà al di fuori della sala, ad aver sussurrato, alle orecchie dei membri della Hollywood Foreign Press Association il titolo da spuntare. E così quello che si è imposto come il film più visto nel 2018 in Italia è finito per essere eletto miglior film a quella che fa da anticamera ai prossimi premi Oscar. Questo non vuol dire che "Bohemian Rhapsody" sarà il favorito alla corsa dell’ambita statuetta, ma con la vittoria di domenica sera le carte sono state alquanto mescolate e i giochi riaperti.

alfonsoQuella di quest’anno è stata una delle edizioni più controverse e sorprendenti degli ultimi anni, nel senso che molti dei favoriti sono tornati a casa a mani vuote, mentre davanti al microfono si sono ritrovati, increduli, attori e registi che per primi non credevano possibile una loro vittoria. Vi è stato poi chi come Alfonso Cuarón non ha disatteso le aspettative portandosi a casa, con il suo delicato e commovente Roma, il premio per “Miglior regia” e “Miglior film straniero”. Un premio giusto, meritato per un’opera nata dalle ceneri dei ricordi e dai fantasmi del passato del regista. Un’opera che parla allo spettatore nella sua veste di essere umano, toccando universali come la famiglia, l’amore, la sofferenza, la tragedia personale. Il tutto raccontato sottovoce, a testa bassa. Viviamo un momento storico in cui ancora una volta si preferisce allontanare che abbracciare, allora è giusto premiare opere come Roma non solo perché tecnicamente costruito in maniera impeccabile, ma anche e soprattutto perché si tratta di un cinema che, come ha ricordato Cuarón, “costruisce ponti e abbatte i muri”. Prima ancora del trionfo messicano, le musiche di Justin Hurwitz hanno accompagnato il pubblico in sala sulla luna e lo stesso compositore sul palco del Beverly Hills Hilton Hotel. Grazie alla colonna sonora di First Man Hurwitz si conferma infatti non solo come uno dei più talentuosi compositori musicali al mondo, ma il vincitore nella categoria “Miglior Colonna Sonora” per il film di Damien Chazelle. Ed è proprio Chazelle, l’uomo che ci ha insegnato quanto l’ambizione sia sinonimo spesso di sangue, sudore e infelicità, il regista che ci ha fatto sognare nella città delle stelle e precipitare sul suolo lunare, il grande escluso di quest’anno. In un’edizione in cui la musica la fa da padrona, per lui che con il suo First Man ha deciso di mettere da parte batterie e pianoforti per dirigere i sogni di un uomo verso la luna, non c’era spazio. A ristabilire l’ordine, interferendo nei desideri di rivalsa di pianisti, cantanti, “regine isteriche” ci pensa un’attrice che una regina isterica e insicura l0ha interpretata davvero. La regina Anna di Olivia Colman si giudica a sorpresa il Golden Globe come “Miglior attrice in un film commedia o musical” per “La Favorita” di Yorgos Lanthimos. Una visione della storia quella del regista greco satirica, pungente, così come causticamente ironica e piena di sottili attacchi è il film “Vice” che ha portato Christian Bale a salire ancora una volta su un palco con in mano un Golden Globe. Analizzando attentamente queste due vittorie, quello che si evince è quanto il mondo della politica sia sempre più spesso un universo denigrato e strampalato, preso poco sul serio perché incapace lui stesso di credere, a priori, alle promesse lanciate e alle azioni programmate, ma costantemente disattese. Una lettura, quella del cinema nei confronti dei leader passati e odierni, compiuta sotto un’ottica demistificante e denigratoria. È un mondo, quello politico, deliquescente, perso in un mare in tempesta, proprio come persa era la regina Anna senza le sue donne di compagnie, magnificamente interpretate da Rachel Weisz ed Emma Stone, ma non abbastanza per vincere il Golden Globe come “Miglior attrice non protagonista”; alla fine a spuntarla al fotofinish è stata Regina King per “La strada potesse parlare” di Barry Jenskins, altro ruolo perfetto per l’award season, ma non così d’impatto come quelli portati sullo schermo da Lanthimos.

Quella dei Golden Globes di quest’anno è stata un’edizione che ha amato ballare; ha amato farlo sulle note dei Queen; ha ascoltato il pubblico traducendo in premi e in voti i dati di incassi ottenuti dai film al botteghino; ancora una volta si è lasciata influenzare dalla pressione mediatica, tralasciando criteri più giusti – magari più tecnici e per questo meno “audience-oriented”. Ha ballato, ma non ha saputo far ballare. Non ci resta sapere se anche i membri dell’Academy sceglieranno di danza sulla stessa musica di quella della Hollywood Press Association, o sul giradischi farà girare un altro vinile, meno stralunato e più serioso.

Elisa Torsiello, 8 gennaio 2019

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