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Alla Hollywood Foreign Press Association piace la musica. Questo è quanto si desume analizzando i vincitori della 76.esima edizione dei Golden Globes targati 2019. Non si spiegherebbero altrimenti i trionfi – alquanto discutibili – di certi titoli su altri più meritevoli. La voglia di esularsi dalla realtà, di staccare quella spina che ci lega a una quotidianità roboante e a volte troppo spesso veloce per poterla cogliere e apprezzare, ha influenzato le scelte degli spettatori in sala e con essi anche quelle di coloro che hanno decretato la vittoria di film come “Bohemian Rhapsody” e “Green Book” nelle categorie più importanti: miglior film drammatico e miglior film commedia o musical. Le vittorie degli scorsi Golden Globe possono essere cioè riassunti come “il giudizio popolare che sormonta quello critico e tecnico, tralasciando la costruzione del film a favore dell’intrattenimento”. Una sorta di vendicazione del potere spettatoriale a discapito del concetto base di premiazioni ad alto livello come queste: la meritocrazia. Quelli svoltosi lo scorso 6 gennaio più che premiare, cioè, talento e bravura, hanno puntato sul gusto degli spettatori, lasciando così a bocca aperti esperti e critici.

greenbookLa musica jazz del film di Peter Farrelly, “Green Book”, nasconde una realtà ancora troppo famigliare nell’America odierna. Un’amicizia che supera i confini di classe e di razza, dove il musicista di colore Don Shirley (Mahershala Ali) assume l’italo americano rissoso e di buona forchetta Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen) come suo tuttofare. La mano di Don tocca dolcemente i tasti del pianoforte, nell’estrema esigenza di sentirsi amato, apprezzato. Tocca i tasti come vorrebbe toccare le mani di un amico, di un amante, di un confidente. Ogni nota che suona corrisponde a un battito cardiaco ora accelerato, ora sincopato; un cuore dolce, nascosto da una corazza di altezzosità esacerbata per la paura di essere ancora una volta ferito, buttato a terra e colpito a sangue. La musica per Don Shirley in “Green Book” è tutto, proprio come lo fu per Freddie Mercury, portato egregiamente sullo schermo in “Bohemian Rhapsody” da un Rami Malek, e per questo degno della vittoria nella categoria “miglior attore protagonista in un film drammatico”. Eppure c’è qualcosa che non torna nella vittoria del film diretto da Bryan Singer. Al di là della stessa regia, firmata da un autore denunciato per molestie sessuali, e per questo totalmente in contrasto con le battaglie portate in campo fino a un anno fa proprio sui red carpet dell’Award Season 2018, “Bohemin Rhapsody” si presenta come opera agiografica e al servizio dei fan in memoria del leader dei Queen, piuttosto che come prodotto qualitativamente meritevole di vincere ai Golden Globe. Il film risulta imperfetto, giocato su un montaggio singhiozzante e incoerente. Tante, troppe le note stonate che compongono quest’opera che seppur potente e trascinante grazie alla colonna sonora firmata Queen, non fa altro che inciampare e cadere. Perché allora decretare vincitore un film come questo? È l’eco del pubblico, dello spettatore che si siede al cinema per il gusto di sospendere la realtà e lasciare la propria ordinarietà al di fuori della sala, ad aver sussurrato, alle orecchie dei membri della Hollywood Foreign Press Association il titolo da spuntare. E così quello che si è imposto come il film più visto nel 2018 in Italia è finito per essere eletto miglior film a quella che fa da anticamera ai prossimi premi Oscar. Questo non vuol dire che "Bohemian Rhapsody" sarà il favorito alla corsa dell’ambita statuetta, ma con la vittoria di domenica sera le carte sono state alquanto mescolate e i giochi riaperti.

alfonsoQuella di quest’anno è stata una delle edizioni più controverse e sorprendenti degli ultimi anni, nel senso che molti dei favoriti sono tornati a casa a mani vuote, mentre davanti al microfono si sono ritrovati, increduli, attori e registi che per primi non credevano possibile una loro vittoria. Vi è stato poi chi come Alfonso Cuarón non ha disatteso le aspettative portandosi a casa, con il suo delicato e commovente Roma, il premio per “Miglior regia” e “Miglior film straniero”. Un premio giusto, meritato per un’opera nata dalle ceneri dei ricordi e dai fantasmi del passato del regista. Un’opera che parla allo spettatore nella sua veste di essere umano, toccando universali come la famiglia, l’amore, la sofferenza, la tragedia personale. Il tutto raccontato sottovoce, a testa bassa. Viviamo un momento storico in cui ancora una volta si preferisce allontanare che abbracciare, allora è giusto premiare opere come Roma non solo perché tecnicamente costruito in maniera impeccabile, ma anche e soprattutto perché si tratta di un cinema che, come ha ricordato Cuarón, “costruisce ponti e abbatte i muri”. Prima ancora del trionfo messicano, le musiche di Justin Hurwitz hanno accompagnato il pubblico in sala sulla luna e lo stesso compositore sul palco del Beverly Hills Hilton Hotel. Grazie alla colonna sonora di First Man Hurwitz si conferma infatti non solo come uno dei più talentuosi compositori musicali al mondo, ma il vincitore nella categoria “Miglior Colonna Sonora” per il film di Damien Chazelle. Ed è proprio Chazelle, l’uomo che ci ha insegnato quanto l’ambizione sia sinonimo spesso di sangue, sudore e infelicità, il regista che ci ha fatto sognare nella città delle stelle e precipitare sul suolo lunare, il grande escluso di quest’anno. In un’edizione in cui la musica la fa da padrona, per lui che con il suo First Man ha deciso di mettere da parte batterie e pianoforti per dirigere i sogni di un uomo verso la luna, non c’era spazio. A ristabilire l’ordine, interferendo nei desideri di rivalsa di pianisti, cantanti, “regine isteriche” ci pensa un’attrice che una regina isterica e insicura l0ha interpretata davvero. La regina Anna di Olivia Colman si giudica a sorpresa il Golden Globe come “Miglior attrice in un film commedia o musical” per “La Favorita” di Yorgos Lanthimos. Una visione della storia quella del regista greco satirica, pungente, così come causticamente ironica e piena di sottili attacchi è il film “Vice” che ha portato Christian Bale a salire ancora una volta su un palco con in mano un Golden Globe. Analizzando attentamente queste due vittorie, quello che si evince è quanto il mondo della politica sia sempre più spesso un universo denigrato e strampalato, preso poco sul serio perché incapace lui stesso di credere, a priori, alle promesse lanciate e alle azioni programmate, ma costantemente disattese. Una lettura, quella del cinema nei confronti dei leader passati e odierni, compiuta sotto un’ottica demistificante e denigratoria. È un mondo, quello politico, deliquescente, perso in un mare in tempesta, proprio come persa era la regina Anna senza le sue donne di compagnie, magnificamente interpretate da Rachel Weisz ed Emma Stone, ma non abbastanza per vincere il Golden Globe come “Miglior attrice non protagonista”; alla fine a spuntarla al fotofinish è stata Regina King per “La strada potesse parlare” di Barry Jenskins, altro ruolo perfetto per l’award season, ma non così d’impatto come quelli portati sullo schermo da Lanthimos.

Quella dei Golden Globes di quest’anno è stata un’edizione che ha amato ballare; ha amato farlo sulle note dei Queen; ha ascoltato il pubblico traducendo in premi e in voti i dati di incassi ottenuti dai film al botteghino; ancora una volta si è lasciata influenzare dalla pressione mediatica, tralasciando criteri più giusti – magari più tecnici e per questo meno “audience-oriented”. Ha ballato, ma non ha saputo far ballare. Non ci resta sapere se anche i membri dell’Academy sceglieranno di danza sulla stessa musica di quella della Hollywood Press Association, o sul giradischi farà girare un altro vinile, meno stralunato e più serioso.

Elisa Torsiello, 8 gennaio 2019

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