Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 731

I nostri due collaboratori Valeria Verbaro e Alessio Tommasoli, hanno visto per noi "Il traditore" di Marco Bellocchio. Il film è stato presentato in concorso a Cannes lo scorso 23 maggio, in concomitanza con il ventisettesimo anniversario della strage di Capaci, e accolto da tredici minuti di applausi.
La storia di Tommaso Buscetta, “boss dei due mondi” e pentito di Cosa Nostra, si intreccia indissolubilmente con quella del magistrato Giovanni Falcone, altro silenzioso ma potente protagonista del film di Bellocchio.
A metà degli anni Ottanta, in seguito all’arresto in Brasile e all’estradizione in Italia, Buscetta diventa il primo collaboratore di giustizia ufficiale affiliato alla mafia siciliana. Fidandosi di Falcone, con le sue dichiarazioni fa letteralmente crollare la cupola dell’organizzazione criminale, rendendo possibile il primo maxi processo palermitano del 1986.

Ma entriamo nello specifico del film e parliamo, innanzitutto, del regista, chiedendo ai nostri critici quale stile applica per raccontare questa storia, secondo voi?

Valeria: Secondo me, Il traditore, come suggerisce il titolo stesso, è un racconto di appartenenza e rifiuto, quindi di punti di vista contemporaneamente interni ed esterni ai fatti narrati. Buscetta afferma di essere e rimanere un “uomo d’onore”, perché non tradisce la sua Cosa Nostra ma quella di Corleone e di Totò Riina. Il punto focale del film è la parzialità della prospettiva che Bellocchio tenta di mantenere attraverso una macchina da presa che si fa testimone interno e invisibile, onnipresente ma mai onnisciente.

Alessio: Sono d’accordo, credo che Bellocchio non voglia porsi dalla prospettiva del suo protagonista, ma sceglie di essere qualcuno che gli si pone alle spalle e che guarda ciò che lui sta guardando in modo mediato, ma del tutto indeterminato.

Bellocchio, però, racconta un personaggio realmente esistito che ha un valore fondamentale per la Storia italiana degli ultimi anni. Come coniuga, quindi, realtà e finzione?

V: Sceglie di affidare la componente didattica e storica del film alle didascalie: date, numeri e nomi che delineano le coordinate oggettive di una vicenda volutamente costruita, invece, sulla soggettività dei personaggi e soprattutto del suo protagonista.

A: Credo che il film sia costruito su una sceneggiatura a due velocità. Come dice Valeria, il principio del film, dove vengono messi in scena gli innumerevoli omicidi che danno vita alla faida di Cosa Nostra, è molto didascalico, ma non credo abbia solo una funzione didattica. Ha un ritmo palpitante e serrato in cui nomi, date e volti si susseguono senza sosta, fino a far entrare lo spettatore in confusione. E questa confusione è scientificamente calcolata perché, poi, il ritmo si dilati, a partire dal maxiprocesso. Questa è una scena lunga, e a tratti interminabile, di un evento storico mostrato attraverso la lente dell’immaginazione. Credo che in questo modo venga negata qualsiasi pretesa storica del film, inserendo i personaggi in uno scenario grottesco che ricorda le atmosfere felliniane, trasportandole dal circo all’aula di un tribunale, dove il giudice diventa un maestro elementare incapace di gestire una classe indisciplinata e provocatoria.

Quindi quale reazione ha lo spettatore?

A: Cade, quasi senza stacco, dalla confusione della frenesia, alla noia della dilatazione. Ma questo è un rischio che la sceneggiatura si prende consapevolmente per far emergere dalla forma del film un contenuto che non può esplicitare senza peccare di banalità: Buscetta è carnefice, vittima ed eroe, ma senza alcuna progressione del personaggio, non è un film di formazione. Al contrario, tutte e tre le cose sono contemporanee e costanti nel personaggio che ha una staticità sorprendente capace di sottrarsi al pericolo che si corre nel rappresentare un personaggio negativo e storicamente rilevante.

A proposito dei personaggi, come sono stati delineati da Bellocchio?

V: Fra tutti, naturalmente, l’attenzione va rivolta al protagonista. Pierfrancesco Favino riesce a portare sullo schermo un personaggio complesso, senza renderlo necessariamente un eroe negativo. Gioca e insiste sulla dissonanza morale e cognitiva che caratterizza l’intero film e il suo rapporto con il pubblico. Il suo Buscetta è un uomo che non rinnega se stesso né le sue azioni, che non si considera mai pentito, ma tradito a sua volta da una Cosa Nostra nuova e diversa. Scende a patti con la realtà ma non si allinea mai realmente al sistema giudiziario, mantenendo un cono d’ombra che a tratti allontana e a tratti seduce lo spettatore.
Tralasciando una cadenza palermitana, a mio parere un po’ forzata, in relazione ad altri grandi attori siciliani come Luigi Lo Cascio, Favino eccelle nel ruolo pensato da Bellocchio. Tanto nei momenti più intimi e drammatici, quanto nell’impostazione ieratica e teatrale dell’aula bunker, la sua interpretazione convince sempre e trattiene il pubblico dentro la storia.

Nel film compare come personaggio determinante anche Giovanni Falcone. Come viene trattato il suo rapporto con Buscetta?

A: Falcone è un personaggio che Bellocchio sceglie coscientemente di non far emergere. Questo perché non è un film su di lui, ma su Buscetta e il loro rapporto è meramente utilitaristico: per Falcone, Buscetta è uno strumento essenziale del proprio lavoro, un pentito, mentre per Buscetta, Falcone è uno strumento essenziale per la propria libertà. Bellocchio, e di conseguenza lo spettatore, guarda sempre una realtà mediata dalla prospettiva del protagonista, anche per questo Falcone risulta un personaggio volutamente piatto, come è piatto il suo rapporto con Buscetta, perché totalmente fondato sulla reciproca utilità. Al punto che la giustificazione fornita da Buscetta per far capire il motivo del suo ritorno dagli USA per accusare la politica della collusione con Cosa Nostra, «l’ho promesso al giudice Falcone», suona volutamente allo spettatore come una scusa priva di fondamento.

Il traditore è l’ennesimo film su Cosa Nostra, oppure ha qualcosa di diverso da raccontare?

V: Nell’inevitabile dibattito sull’effettiva necessità di un ulteriore film su Cosa Nostra, la storia di Buscetta suscita subito questa domanda. Viene da chiedersi innanzitutto cosa possa aggiungere il film di Bellocchio a una vicenda già ampiamente documentata dalle cronache del tempo e, in secondo luogo, quali siano le conseguenze dell’opera nell’immaginario comune. Nel primo caso le risposte sono molteplici e quasi del tutto intuitive. In un contesto in cui si è generalmente portati a ragionare nei termini manichei del bene e del male, l’umanizzazione di Buscetta serve a restituire la complessità di un fenomeno “umano”, per riprendere una citazione illustre, e cangiante come la mafia. Inoltre, il film si pone l’obiettivo di rendere più vivido e concreto un passato sì recente, ma di cui l’Italia conosce e ricorda solo le conseguenze più tragiche, rischiando di semplificarlo e appiattirlo man mano che gli anni passano. Infine, da un punto di vista narrativo e propriamente cinematografico, non va dimenticato che il tema stesso del tradimento, centrale nel film, è fonte inesauribile di interesse e attrazione per il pubblico, soprattutto se sostenuto dal pensiero, e dal peso culturale di un autore come Bellocchio.
Affidandosi alla visione del Maestro e all’impostazione razionale e intellettualmente onesta che ha voluto dare al suo film, non si corre il rischio di magnificare la figura di Buscetta o dell’antica struttura di Cosa Nostra. Il pubblico è continuamente posto in una condizione di empatia condizionata con il protagonista, di vicinanza umana ma non morale, proprio per evitare l’identificazione con un personaggio dichiaratamente non positivo. È anche da questa straordinaria capacità che si riconosce la grandezza del film.

Quindi cosa dà in più rispetto alla storia reale?

A: Il traditore non è un film storico, né un film che intende offrire una prospettiva sulla storia. È un film che sembra suggerire allo spettatore di andare a riguardare tutti i documenti reali filmati, da quelli del maxi-processo a quelli del processo Andreotti per capire la complessità di un personaggio unico.
Lo spettatore può porsi la domanda: chi è il tradiotore? Buscetta o Bellocchio stesso?
Senza, per esempio, la poesia di Buongiorno, Notte, senza la musica che enfatizzava l’onirismo di un Bellocchio che guarda la storia dagli occhi di Moro nel film del 2003, resta un vuoto che è lo spettatore a dover colmare. Come se questo film fosse un suggerimento rivolto a chi quella storia non l’ha vissuta o l’ha dimenticata.

In conclusione, quindi, come verrà accolto dal pubblico?

A: Rispondo a questa domanda partendo dall’idea che Bellocchio non voglia fare cronaca storica e si trovi comunque nella condizione di dover raccontare un mito negativo. Come dovrebbe fare chi non ha vissuto un evento, non esprime un giudizio, ma cerca di guardarlo nell’unico modo possibile per farlo suo, quello emozionale. Lo sguardo del regista potrebbe essere quello di un ragazzo che non ha vissuto quegli anni e che cerca di riempire alcuni vuoti con un’immaginazione a tratti innocente, come i mafiosi alla sbarra che diventano animali in gabbia, e a tratti onirica, come il ricordo del primo omicidio di Buscetta.
Sono convinto che la maggior parte di quelli che hanno vissuto gli eventi, quindi, si troveranno inevitabilmente spiazzati da questo sguardo, e di primo acchito sentiranno addirittura tradita la loro memoria. In fondo, è quello che succede con un altro film “storico” di Bellocchio, Buongiorno, Notte.
Forse è solo capendo che questo sguardo non è storico, ma emozionale, che si può comprendere la forza di questo film.

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM