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Pet Sematary: un riadattamento senza spessore del romanzo di Stephen King

Arrivederci o addio cantava Claudio Baglioni nel 1998, mettendo in musica l’oscillante incertezza tra la speranza di un commiato reversibile e lo struggimento di un ultimo definitivo saluto. Cosa c’entra Baglioni con un racconto di Stephen King che parla di un cimitero che riporta in vita i morti? Probabilmente niente, ma quella condizione di insicurezza tra la cosa giusta da fare - lasciare definitivamente andare ciò che se ne è andato - e quello che si desidera di più - farlo ritornare, per quanto rischioso sia - è la stessa del personaggio di Louis Creed in Pet Sematary, romanzo del 1983, riportato sul grande schermo da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer. Dimentichiamoci di Baglioni per un attimo e passiamo alla storia. 8c18e9bc ce79 4fc2 97e7 d7f89d614832.sized 1000x1000Creed è un medico, si è trasferito con la moglie Rachel e i figlioletti Gage e Ellie dalla città di Chicago alla provincia crepuscolare e annoiata del Maine, e di base, come vuole la sua professione, è un uomo che segue la logica scientifica. Un lutto familiare improvviso però, lo getta in uno stato di confusione tale da fargli compiere un folle gesto di disperazione, che travalica i territori della sua mente razionale. Dopo che il vicino di casa gli spiffera dell’esistenza di un antico terreno indiano, che resuscita, in forma non proprio perfetta i morti, Louis compie il gesto estremo. Pet Sematary nasce da qui. Dalla perdita, dalla scissione, dalla folle possibilità di tenersi vicino qualcosa di inevitabilmente morto e sepolto. Se nel romanzo, uno dei più crudeli e struggenti di King, questa frattura si esplica sul piano di un prima e un dopo perfettamente bilanciati che, dialogando nei mille dubbi di un padre in preda alla disperazione per la perdita di un figlio, ne mostrano la profondità, questa dimensione di incertezza, risulta del tutto assente nel film in favore di un generale riduzione a un piano di sola trama. Allo stesso modo, l’idea del perturbante, di una vicinanza a qualcosa che è al contempo estremamente familiare ma anche totalmente repulsivo, uno dei temi cardine del romanzo, si limita a essere traslato su un piano estetico-narrativo senza spessore che mira all’esclusiva costruzione di sensazionalistiche atmosfere oniriche. E così, mentre parate di ragazzini con maschere animalesche sfilano nel bosco a rallentatore, fantasmi emergono dal passato senza trovare una psicologia dei personaggi degna della loro presenza. Come Zelda, la sorella deforme di Rachel, una delle figure più inquietanti dell’universo letterario di King, ridotta qui a semplice stratagemma per il più blando dei jump scare. Quello che un buon riadattamento contemporaneo come It (2017) di Andrés Muschietti ha dimostrato è che, in quest’ondata di revival da piccolo e grande schermo targata Stephen King, una reinvenzione del materiale di partenza può scongiurare il rischio di una sua trasformazione in una copia malvagia. Il che non significa semplicisticamente effettuare cambi a livello di storia, cosa che per altro sia Pet Sematary che It fanno, ma lavorare sul testo per radicarlo in un nuovo tempo (la trasformazione del personaggio di Pennywise in questo senso è emblematica) e preferibilmente, farlo dialogare con una regia altrettanto presente. Se così non fosse, allora forse, la scelta più saggia è quella di lasciare sepolto ciò che non si può riportare degnamente in vita. Decisamente meglio un addio.

 

Angela Santomassimo, 13/05/2019

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