Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 764

Ma chi era il mostro? Dal "Dracula" di Coppola al "Frankenstein" di Branagh la società occidentale si mette in discussione

L'Ottocento inglese, il secolo dei balli eleganti e dei corteggiamenti, delle nobili residenze di campagna ma anche dei castelli infestati dai fantasmi, delle eroine pure e dei gentiluomini coraggiosi. Eppure la storia ci racconta di un periodo, quello vittoriano o di poco precedente, di ipocrisia e repressione dell’individuo, di esclusione sociale e sfruttamento del lavoro, del colonialismo, dell’etnocentrismo più gretto, della mortificazione del corpo e dell’intelletto della donna. In altre parole, nel XIX secolo inglese sembrano manifestarsi tutte quelle malattie che ancora oggi affliggono l’Occidente intero. È per questo, forse, che negli anni Novanta del Novecento la letteratura e l’immaginario di quest’epoca diventano il pretesto di spunti di autocritica culturale nella cinematografia anglosassone. Scegliamo qui di analizzare due casi emblematici di questa tendenza: Dracula di Bram Stoker (1992) diretto da Francis Ford Coppola e Frankenstein di Mary Shelley (1994) di Kenneth Branagh.

Nel libro di Bram Stoker leggiamo di quattro gentiluomini, il nobile Arthur, lo psichiatra Seward, il giovane avvocato Jonathan Harker e l’americano Quincey, accompagnati dallo scienziato Van Helsing, che rincorrono per tutta l’Europa del tempo l’ormai leggendario vampiro con l’obiettivo di ucciderlo e di salvare Mina, moglie di Jonathan e futura vittima del mostro.

Il conte Dracula, personaggio appartenente al folklore popolare di una cultura – quella rumena - descritta come semibarbara, è riuscito a trasferirsi in Inghilterra grazie all’aiuto dei suoi malvagi servi nomadi e del pazzo Renfield, paziente di Seward, che spera di poter diventare immortale grazie al morso del conte. Dracula ha già ucciso la “povera Lucy”, la virtuosa e ricca migliore amica di Mina, ed è compito dei cinque eroi vendicarla e salvare il mondo da questo spietato assassino.

La trama e l’impianto dei personaggi sono abbastanza semplici e alludono a una visione etnocentrica e patriarcale della storia: rispettabili uomini borghesi e nobili di cultura anglosassone che si battono contro stranieri selvaggi e contro “matti” per proteggere una “donzella in pericolo”, tenuta quanto più possibile lontano dall’avventura. La visione conservatrice per cui i “buoni” non possono che essere dei rispettabili bianchi difficilmente interesserebbe il lettore moderno, se non per l’assoluta maestria di Bram Stoker come scrittore, per la tensione orrorifica che riesce a creare.

Quando Francis Ford Coppola nel 1992 decide di realizzare la sua versione cinematografica del classico della letteratura gotica vittoriana riesce, pur rispettando la trama nei suoi passaggi fondamentali, con pochi elementi a ribaltare la lettura della vicenda di Dracula.

La differenza più evidente si ritrova nella sequenza iniziale della pellicola in cui allo spettatore viene mostrata la storia della vita del conte. Dracula viene presentato come un grande generale, un difensore della fede cristiana che rinnega Dio dopo il suicidio dell’amata moglie, dannata per l’eternità secondo la dottrina. In una pioggia di sangue che sgorga da un enorme Crocifisso trafitto da una spada – una delle scene più memorabili del film – Dracula riceve la sua maledizione: da quel momento vagherà sulla Terra bevendo il sangue delle persone per prenderne la vita e senza smettere di piangere il suo grande amore.

Conoscere questo retroscena e le motivazioni del personaggio porta da subito lo spettatore a empatizzare col mostro, soprattutto quando gli “eroi” - Jonathan in primis - vengono presentati come bigotti, moralisti e repressi, incapaci di provare passioni e sentimenti forti come quelli del conte. Sarà il fascino del male, sarà il trauma passato e il cuore spezzato dell’antagonista, ma siamo quasi contenti quando Mina - che nel film intuiamo essere la reincarnazione dell’amore perduto di Dracula – cede alle avances del vampiro.

La donna anche in questo caso non si libera di certi stereotipi sessisti e insegue l’esempio di Lucy, presentata qui come una vera femme fatale. Ma è lei, dopo essere stata definita da Van Helsing una poco di buono e un’alleata del demonio, che alla fine riesce a salvare il mondo e il conte Dracula, pacificandolo con la sua presenza e consegnandolo, dopo secoli, alla morte.

Il classico di Mary Shelley, che Kenneth Branagh rilegge nel suo film del 1994, è invece un caso molto diverso. Si tratta anch’esso di un capolavoro della letteratura gotica ma non solo. Shelley vive in un periodo precedente rispetto a quello di Bram Stocker e dà vita al suo Frankenstein sfruttando tutta la sua cultura romantica e illuministica. Il percorso della sua “creatura”, lontanissima dalla malvagità motivata dalla sete di potere del Dracula originale, è metafora dell’innata bontà umana, distrutta dall’esclusione e dal pregiudizio.

Dopo che il giovane Viktor Frankenstein è riuscito a ricreare la vita a partire da pezzi di cadaveri e a trovare quella che pensa essere una "cura” per la morte, rimane disgustato alla vista della sua creazione e la abbandona al suo destino. La “creatura” deve così imparare da sola a camminare, a parlare, a procurarsi il cibo. Il “mostro” è come un neonato, ingenuo e soprattutto, secondo Mary Shelley, naturalmente buono. Quello che alla fine fa di lui un assassino è l’odio degli altri, la paura delle persone a cui il suo aspetto mostruoso lo condanna. Nel libro, come nel film, la “creatura” comincia a minacciare la famiglia di Viktor solo quando scopre che perfino il suo creatore e “padre” lo odia. L'obiettivo del mostro è in entrambi i casi quello di costringere lo scienziato a creargli una compagna uguale a lui, una donna con cui condividere la propria solitudine.

La trama del film di Branagh, però, è sottilmente diversa da quella del libro, prima di tutto per un’attenzione, impossibile nell’Ottocento di Mary Shelley, per la teoria psicanalitica. Nel dialogo tra Viktor e la sua “creatura”, dialogo che assume una posizione e un’importanza centrale nell’opera, quest'ultima attacca il ragazzo per averla creata con parti di uomini che non conosceva, della cui anima – o psiche – non sapeva nulla, che portavano con sé ricordi, colpe e traumi sconosciuti.

Diverse sono anche le motivazioni di Viktor: l’ambizioso scienziato di Shelley che nella sua arroganza crede di poter abbattere con lo studio la barriera tra la vita e la morte diviene nella pellicola molto più umano e, dal punto di vista dello spettatore, giustificabile. Viktor in questo caso vuole sconfiggere la morte affinché nessuno debba più soffrire come è successo a lui per la morte della madre e del suo maestro e amico. È così che quello che era nato come un ammonimento sui limiti della scienza diventa, in un’epoca che nella ragione illuministica non crede più, il dramma personale di anime sofferenti.

Forse la variazione della storia proposta dal film che più ci colpisce è però la parabola umana di Elisabeth, la giovane futura moglie di Viktor. Nel classico di Mary Shelley quando lo scienziato, dopo aver lavorato per mesi alla compagna promessa, decide di distruggerla per non mettere in circolazione un altro “mostro”, la creatura uccide Elisabeth per far provare a Viktor la stessa solitudine. La donna è alla fine una semplice vittima delle azioni del suo compagno. Ma nel film all’assassinio della moglie il ragazzo impazzisce di dolore e la resuscita, facendo per sè ciò che non aveva fatto per la sua creazione. Così l’Elisabeth rinata diventa la potenziale compagna di VIktor quanto della sua creatura e viene posta davanti alla scelta fra i due. Rifiutandosi di continuare a vivere come l’attributo, l’oggetto di qualcuno, la ragazza decide piuttosto di darsi fuoco. Al personaggio femminile di Mary Shelley viene data così la possibilità di autodeterminarsi, un finale che la stessa scrittrice, femminista ante-litteram, con ogni probabilità avrebbe apprezzato.

Cecilia Cerasaro

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM