Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 698

La vita in un attimo: un abbraccio di amore e morte

La vita è un gioco a incastro. Ogni singolo mattoncino viene posto secondo un preciso ordine e rigore da un bambino a volte un po’ capriccioso chiamato ora fato, ora destino, ora semplicemente crudeltà. La vita è un treno che corre su un binario spesso dissestato; un treno costretto a sostare in varie fermate per riprendere fiato, ricomporsi dopo una brutta battuta d’arresto. E insieme a lei ecco correre altri mille treni esistenziali, a volte destinati a incrociarsi, altre semplicemente ad affiancarsi.
“La vita in un attimo” di Dan Fogelman (sceneggiatore di film come “Rapunzel”, “Crazy, Stupid Love”, “Cars 2”) si sviluppa su un intreccio a intarsi dove partendo dal racconto di un personaggio ecco passare a diverse sottotrame e intrecci molteplici che si legano come una matassa difficile da sciogliere. Sceneggiature che giocano su innesti temporali generati da un oggetto, o un ricordo, o eventi saccomannanti personaggi diversi, la storia del cinema e della televisione ne è alquanto ricca. Si pensi a “Magnolia” di Paul Thomas Anderson, “The Hours” di Stephen Daldry, “Babel” di Alejandro González Iñárritu, “Cloud Atlas” delle sorelle Wachowski, “Blue Valentine” di Derek Cianfrance (film tutto giocato su continui andirivieni temporali di flashback e flashforward), o la stessa “This is Us”, serie di cui lo stesso Fogelman è creatore. Il regista tenta dunque di apportare originalità in un universo che di originale ha ben poco, finendo per autocitarsi e distaccare empaticamente lo spettatore.  

Tutto ha inizio da Will (Oscar Isaac), quarantenne newyorchese abbandonato dalla moglie (Olivia Wilde) che tenta di ricostruire la propria storia in una seduta di psicanalisi fino ad arrivare a quell’evento così traumatico da non poter essere raccontato. Vent'anni dopo, il frutto dell'amore fra Will e Abby, la ventenne Dylan, lacerata dall'assenza dei genitori, incontra per la strada Rodrigo, studente di origine spagnola figlio di una coppia di lavoratori dell'Andalusia, che anni prima si trovava proprio là, nel giorno e nel luogo dove Abby lasciava per sempre Will.

Suddiviso in capitoli, il film si presenta sulla carta come un viaggio sentimentale dal forte impatto emotivo. Eppure è come se a infrapporsi tra la colonna visiva e l’occhio dello spettatore vi sia un muro capace di bloccare e quindi impedire la totale immedesimazione tra il pubblico e i personaggi sullo schermo. Vediamo scorrere la loro vita tra alti e (moltissimi) bassi; ascoltiamo i loro sogni, i loro desideri; assistiamo impotenti alle loro tragedie e condividiamo i loro successi; li vediamo innamorarsi, avvicinarsi, separarsi, eppure c’è sempre qualcosa che ci blocca, impedendoci di entrare appieno nella loro storia e far nostra la loro esistenza. È come se le parole, supportate da performance attoriali impeccabili, pur dandoci l’input necessario all’avvio del processo di identificazione, vengano frenate dal comparto rela vita in un attimogistico.
La macchina da presa posta sempre vicina ai personaggi, i continui sguardi in camera, i ralenti e le musiche commoventi sono intuizioni già ampiamente sfruttate nella serie “This is us”; questo senso di “già visto”, al posto di facilitare il processo di immedesimazione spettatoriale, finisce per ostacolarlo. Ne è un esempio lampante il primo capitolo della storia, con protagonisti Oscar Isaac e Olivia Wilde. Rivivere la nascita e crescita della moglie Abby attraverso Will e la sua terapeuta (un’ottima, seppur sprecata, Annette Bening) non solo narrandola in voice over, ma anche presenziandovi fisicamente come due fantasmi dickensiani, ottiene come risultato la perdita di poeticità e commozione a un racconto la cui vera forza risiede nel suo presentarsi come una favola raccontata in flashback. Comparendo sulla scena, intaccando con la sua presenza l’aura di sospensione magica venutasi a creare, Will sottrae unicità all’esistenza di Abby, relegando il tutto a un semplice ricordo. L’uomo si trasforma così nel narratore inaffidabile soggetto della tesi della moglie; un personaggio che entra nella storia fino a modificarla con il proprio filtro personale rendendo labile il confine tra ricordo e re-immaginazione di un evento. Tutto quello che ci è stato mostrato viene dunque messo in discussione, rendendo difficile distinguere cosa, nel corso della terapia, sia un’istantanea del proprio passato, e cosa un dipinto mentale di un qualcosa di mai accaduto, modificato sulla spinta di rimozioni o abbellimenti inconsci. Sebbene trasponga perfettamente sullo schermo la confusione mentale e l’alienazione psico-fisica causata in Will dalla scomparsa traumatica della moglie, la scelta registica di Fogelman inficia la bellezza e poeticità del racconto. Un passo falso, questo, che si ripeterà nel corso del film. Le immagini non riescono a essere spesso all’altezza delle parole, e solo in poche occasioni esse si liberano dalla loro controparte testuale per comunicare emozioni e sentimenti profondi con la forza dello sguardo, (si prenda il capitolo terzo dedicato alla famiglia Gonzalez, forse l’episodio meglio riuscito di tutto il film).

Dan Fogelman tenta di interiorizzare e far suo il brano di Bob Dyaln “Make you feel my love”, lo stesso che fa da leitmotiv a tutta la pellicola e unisce i diversi capitoli. Il regista, cioè, tenta di mostrare e far sentire l’amore che s’insinua, trionfando, nelle vite dei suoi personaggi, con il risultato di cadere nel melenso e nell’irreale. Non basta un ottimo cast corale, la voglia di consolarci dalle brutture dell’esistenza e non basta nemmeno Bob Dylan. Il tutto si rivela superficiale se a mancare alla base è intensità e onestà sentimentale, oltre che intellettuale. “La verità si ritrova sempre nella semplicità, mai nella confusione” affermava Isaac Newton. Una lezione che forse Fogelman ha preferito ignorare, riempiendo lo schermo di personaggi, avvenimenti, morte e sentimentalismo, impedendo allo spettatore di legarsi affettivamente ai vari protagonisti e apprendere, in modo semplice e diretto, le verità nascoste dalle loro vite che scorrono veloci, troppo veloci.

Elisa Torsiello, 19 febbraio 2019

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Digital COM