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"La casa di Jack": quando uccidere diventa un'arte

«What you want is in the limo» canta David Bowie in Fame, brano che accompagna l’ultimo, discusso film di Lars von Trier: “La casa di Jack”. Non è una limousine quella che il protagonista guida lungo le strade di un’imprecisata cittadina, ma un furgone rosso. Perfetto per occultare cadaveri, come gli farà notare un’indisponente Uma Thurman. E, di fatti, questo è l’utilizzo che ne fa Jack: serial killer nevrotico, apatico e ossessivo-compulsivo, interpretato da uno strepitoso Matt Dillon.

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Diviso in cinque capitoli – ciascuno dei quali corrispondente agli “incidenti” avuti con le proprie vittime – più un allegorico finale, “La casa di Jack” mette in scena alcuni dei brutali crimini commessi dal suo disturbato protagonista, in un arco temporale di dodici anni. Lo fa servendosi del medesimo espediente narrativo utilizzato nel dittico Nymphomaniac: un racconto in prima persona, arricchito da digressioni “didattiche”, presentato sotto forma di dialogo. A interloquire con l’omicida, nel buio di un luogo che con il passare del tempo lo spettatore avvertirà sempre più come metafisico, un misterioso personaggio di nome Verge (interpretato dal compianto Bruno Ganz).

Queste le premesse di un horror che fa dell’estetica della violenza – cruda e realistica, esplicita ed efferata – solo uno dei suoi punti programmatici. Forse il più superficiale. Se, infatti, è pur vero che von Trier non esita a provocare, indugiando gratuitamente su corpi mutilati e dando sfogo a immorali e disturbanti perversioni, sarebbe limitativo ridurre il film a uno sterile gioco volto a impressionare e disgustare lo spettatore. Anche perché, se così fosse, “La casa di Jack” non sconvolgerebbe, se confrontato a slasher e torture porn ancora più cruenti. Quello che von Trier porta in sala è un lavoro sicuramente autoreferenziale, ma mai fine a se stesso: una sorta di compendio antologico, di testamento filmico, in cui il protagonista si pone apertamente come alter ego del regista.

Jack è Lars, furia omicida esclusa. Egli è creativo e intelligente, ma anche ossessivo e narcisista, cinico e manipolatore. Ingegnere nella vita, ma architetto nelle aspirazioni (perché «un ingegnere costruisce le case, un architetto le crea»), Jack considera se stesso un’artista e i suoi crimini le sue opere. Maniacale e perfezionista, tanto da ribattezzarsi mr. Sophistication, egli è disposto a contravvenire alle regole non scritte del perfetto criminale, pur di rendere il suo lavoro impeccabile. Questo lo porta a prendersi dei rischi – non tanto calcolati, quanto più desiderati – ai quali, però, non segue mai alcuna conseguenza (qui s’inserisce il cinismo di von Trier, lucido nel fotografare un’umanità distaccata nella sua indifferenza e una giustizia assente nella sua inadeguatezza).la casa di jack 3

In questo gioco di specchi tra autore e protagonista, il regista si diverte – con ironia e genialità – ad attribuire alla sua controparte filmica aspetti che lui stesso, nella realtà, si vede affibbiare da anni. Non sorprenderà, quindi, sentire Jack fare cenni e ammiccamenti alla Germania nazista. O riscontrare in lui una latente misoginia, che lo porta ad accanirsi su vittime di sesso femminile (rappresentate ora come stupide e ingenue, ora come irritanti e provocatorie). O rinvenire nella sua dipendenza omicida delle capacità addirittura taumaturgiche, che lo portano gradualmente a guarire dal disturbo ossessivo-compulsivo di cui soffre. Ma se Jack rappresenta la parte controversa e politicamente scorretta di von Trier (o, per meglio dire, del personaggio pubblico che egli ha contribuito a creare), Verge rappresenta la sua coscienza, la sua assennatezza. Ed ecco che il dialogo tra i due personaggi, a metà strada tra una confessione religiosa e una seduta psichiatrica, assume i connotati di un dibattito interiore, in cui l’autore si mostra ora indulgente, ora critico nei confronti di se stesso.

La progressiva escalation di orrore e sadismo porterà a una – forse non solo simbolica – discesa negli inferi e a un finale d’ispirazione dantesca dal grande impatto visivo. Una degna conclusione per un film notevole, caratterizzato dalla solita regia volutamente instabile e invasiva di von Trier e dalla costante riproposizione del colore rosso (del furgone, del crick, del telefono, del pennarello, della vestaglia, del sangue): autentico fil rouge – è proprio il caso di dirlo – che lega i cinque “incidenti”. A convincere meno è la scelta, piuttosto ridondante, di auto citarsi (inserendo fotogrammi di vecchi film quali Dogville, Antichrist, Melancholia e “Le onde del destino”) per rendere esplicita una metafora che sarebbe risultata chiara anche se espressa in maniera più sottile. Una leggerezza coerente con il personaggio, spesso naive nei suoi eccessi. Ma se così non fosse, non sarebbe Lars von Trier. E anche per questo, gli si vuole bene.

 

Francesco Carrieri, 02/03/2018