“Se te ne vai finirà il mio mondo, un mondo in cui esisti solo tu. Non andartene, non voglio che tu vada perché se te ne vai in quello stesso momento muoio io.”
Pedro Almodóvar, dopo la parentesi de “gli amanti passeggeri”, ritorna sul grande schermo con “Julieta”, mettendo in scena un mondo che lui sa ben interpretare e capire, ovvero l’universo femminile.
Dimentichiamo ironia, canzoni movimentate, intrighi, passioni e “donne sull’orlo di una crisi di nervi”. “Julieta”, in uscita nelle sale italiane il 26 maggio, è un film sull’assenza, un dramma che sfocia nel mistero, dove a parlare non sono i corpi, ma la loro mancanza.
È una storia di donne, chiuse in un dolore che non può essere cancellato. È la sofferenza, riversata in una lettera, di una moglie in lutto, di una madre in ansia alla ricerca della figlia scomparsa da 13 anni. Le parole, scritte di getto da Julieta e destinate alla figlia Antía, scorrono sul foglio bianco mentre le immagini di un tempo andato prendono forma. Passato e presente si intersecano e il volto della donna matura, interpretato da Emma Suárez, si confonde nel giovane corpo di Adriana Ugarte. Due donne diverse nel ruolo di un’unica protagonista: scelta tesa non tanto a evidenziare il passaggio dalla gioventù all’età adulta, quanto a mettere in luce lo stato di depressione e decadimento in cui la donna cade vittima, subito dopo la morte del marito. In quel volto senza sogni e speranze è racchiuso il senso di colpa di chi quotidianamente è costretto a fare i conti con una mancanza.
“Julieta” ha il sapore di un rosso accesso, passionale come il sentimento che scoppia tra la protagonista e Xoan, un’affascinante pescatore, sul vagone di un treno notturno. Rossi sono i vestiti della giovane, la sua automobile e la carta da parati dell’abitazione, quasi a voler comunicare i sentimenti di gioia e di piacere dei protagonisti.
Nel corso della vicenda, non appena il dolore spezza l’idillio familiare, il colore acceso vira al blu, freddo e glaciale. Una tinta che richiama la tempesta, l’onda in burrasca che porta con sé, negli abissi, il corpo dell’uomo. Blu è il colore del lutto, della rassegnazione, dei vestiti indossati da Julieta senza più calore, proprio come il suo cuore. Sentendosi in colpa per la morte del compagno nega a se stessa ogni gioia, riducendosi a una nullità, in balia degli eventi. A prendersi cura di lei Antía che, fino ai suoi 18 anni, le sta accanto, trasformandosi in madre attenta e premurosa. Improvvisamente però Julieta rimane sola, abbandonata dalla figlia che senza un motivo apparente si allontana da lei, facendo perdere ogni traccia. Non riuscendo a capire il motivo di quella fuga, la protagonista, dopo aver in tutti i modi cerato di avere sue notizie, si impone di dimenticare il passato. Cambia casa, trasferendosi in un’abitazione senza storia e memoria, dove le pareti sono bianche, vuote, e non c’è spazio per le emozioni.
La nuova vita sembra trascorrere serena, ma la sua personale battaglia col dolore non si è conclusa. Aveva solamente conosciuto una tregua e, quando il passato si farà nuovamente vivo, Julieta dovrà decidere se affrontare i suoi sensi di colpa o continuare un’esistenza infelice, dimenticandosi di se stessa.
“Julieta” è la conferma dell’abilità di Pedro Almodóvar, capace non solo di portare sul grande schermo le tante sfaccettature del mondo femminile, ma di scandagliare a fondo l’animo umano, analizzandone comportamenti e reazioni.
Sebbene alcuni temi siano stati già presentati in altre sue opere, come, ad esempio, “Tutto su mia madre” e “Parla con lei”, qui sono trattati con originalità, sotto una luce diversa. Infatti, se nelle precedenti pellicole le donne venivano descritte come forti, capaci di combattere con coraggio le difficoltà, qui la protagonista è una donna debole, che continua a vivere pur morendo interiormente.
Un film drammatico che riesce, in mezzo all’inferno, a trovare una luce, lasciandole lo spazio, ma soprattutto il tempo, per brillare.
Angela Ruzzoni 25/05/2016