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Tommaso Buscetta: l'antieroe della mafia. In concorso al festival di Cannes "Il traditore" di Marco Bellocchio

“Sono stato e resto un uomo d’onore. Nono sono un pentito: non ho tradito Cosa nostra, e Cosa nostra che ha tradito sé stessa”. Quante volte abbiamo sentito queste dichiarazioni di Buscetta, e quante volte il nome Buscetta è stato legato al tradimento fino a diventarne la sua antonomasia, specie in Sicilia e a Palermo. Se per i mafiosi e affini non ci sono dubbi sulla sua infamia, diversamente è più difficile argomentare il motivo per cui Don Masino non è un eroe. Da questo interrogativo Marco Bellocchio traccia la sua indagine affascinato dal carisma e dalle azioni di un uomo vile e orgoglioso, simbolo di un male ingarbugliato: altro che banale. Unica opera italiana in concorso a Cannes, Il Traditore non è il solito film storico e retorico sulla mafia, né un gangster movie. Sicuramente è una profonda introspezione fin dentro le viscere di un uomo contraddittorio. Interpretato da uno straordinariamente cauto Pierfrancesco Favino, ne emerge un personaggio non manicheo da cui tuttavia prendiamo le distanze tanto quanto lui dalla sua famiglia di sangue e dalla «Famiglia» d’onore. Difensore dei valori di entrambe, è consapevolmente bugiardo riguardo la loro vacuità. Tra il non detto, il detto e le azioni del boss dei due mondi, la premura del regista piacentino sta nello svelare i tradimenti di un uomo nei confronti di sé stesso, ancor prima di affetti e affari. Un uomo che non ha creduto alle sue tre mogli, ai sei figli, agli uomini d’onore, ai suoi stessi occhi. Quegli occhi che hanno incrociato quelli del giudice Falcone svelando i segreti di Cosa nostra e trattenendo a fatica quelli di «cosa sua personale». All’invito a non prendere per il culo la sua intelligenza e quella del magistrato, Tommasino ricorda del patto sancito tra i due.

il traditore due

Sa di essere necessario, ma non determinante: come la civetta notturna che vola di giorno, questo segreto è sotto gli occhi di tutti. Buscetta accetta la sigaretta da Falcone, pegno di una stretta e necessaria collaborazione più che una vera e propria amicizia: lo Stato acerrimo amico ha bisogno di prove. In questa zona grigia pongono le fondamenta del Maxiprocesso. Nel 1986 l’aula bunker è stato teatro della lotta alla mafia e teatranti sono stati i suoi imputati. L’abilità di Bellocchio sta nell’enfatizzare questa drammatizzazione attraverso gesti eloquenti e sguardi d’odio tipicamente siculi rendendo grotteschi e caricaturizzati questi onorati uomini. La gravità del processo viene minimizzata da un dialetto palermitano più divertente e folkloristico che greve e violento, grazie anche all’abilità attoriale di uno smagliante Luigi Lo Cascio (interprete del pentito Salvatore Contorno). Gravità compensata dal teso confronto tra Buscetta e Pippo Calò (più che buona l'interpretazione di Fabrizio Ferracane): non una semplice riproduzione processuale, ma il tragico epilogo di una dannosa relazione. La carne e il sangue sono menzogna in questo mondo tracotante ed effimero. E nella menzogna proseguirà tutta la nuova vita di Don Masino: vile nei rapporti, bugiardo per convenienza, tormentato dalle prefiche funeree, infelice con la paura della morte. Con un moderno ma esauriente linguaggio Bellocchio ci offre un onesto, non mistificatorio, ritratto di un uomo che si è pentito non per “conversione” ma per amarezza, non per coscienza ma per istinto vendicativo. Entrare nella storia non elude il suo giudizio e Il Traditore storicizza Buscetta: l’uomo che svelò i segreti di Cosa nostra è stato e resterà un criminale, simbolo gattopardesco di quella che Leonardo Sciascia definì «sicilitudine», un decadente contesto socio-culturale dove l’insularità esistenziale genera voluttuose aporie.

Piero Baiamonte 28/05/2019

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