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Everest: Venezia72 riparte disastrosamente dai canoni Hollywoodiani

Inizia con una caduta di stile la 72esima Mostra Internazionale di Cinematografia e il trauma è inevitabile se si precipita da una vetta così alta. La prima delusione del Festival è infatti scaturita dal film di apertura: "Everest" di Baltasar Kormàkur, trasposizione cinematografica del romanzo "Aria Sottile" di Jon Krakauer, opera che narra la disavventura accaduta ad alcuni scalatori non professionisti nel 1996 sulla vetta più alta dell'Himalaya.
Il regista islandese si cimenta nell'arduo compito di portare sul grande schermo quest'agghiacciante storia vera, ponendo al centro dell'opera il tema della sfida che l'uomo lancia quotidianamente alla natura, una competizione che l'essere umano ingaggia spesso senza alcun tipo di rispetto, a causa della sua natura tracotante.
La diegesi ruota attorno alla domanda che Jon Krakauer, lo scrittore presente alla spedizione interpretato da Michael Kelly, pone a tutti gli scalatori del campo base prima di partire verso la cima dell'Everest: "perché?", perché lanciarsi in un'avventura di questo tipo, perché rischiare la vita per raggiungere la vetta del Mondo? Il film stesso sembra strutturato per rispondere a questa domanda, così la conquista della cima si fa metafora di elevazione spirituale per gli scalatori, perpetrata attraverso il confronto con le meraviglie naturali presenti sul nostro pianeta e soprattutto attraverso il mettersi in gioco con se stessi e con i propri limiti. Tuttavia il protagonista della vicenda non è l'uomo, ma la montagna e la sua duplice natura: da un lato meraviglia incommensurabile, dall'altro killer spietata. I paesaggi dell' Himalaya catturano lo sguardo e ammaliano gli spettatori, molto più dello svolgersi della vicenda, a tratti raccontata con sufficienza.
Punto debole dell'opera è infatti lo sguardo del regista islandese, privo di incisività autoriale e completamente saturo dell'estetica hollywoodiana tipica dei disaster movie. Kormàkur smarrisce così ogni tipo di interesse verso la narrazione, lasciandosi andare a imponenti sequenze adrenaliniche e mettendo in secondo piano i risvolti intimi e umani, affrontati dall'opera solo parzialmente.
Rimane comunque da salvare l'interpretazione di Jason Clarke, attore in forte ascesa, e quella di Jake Gyllenhaal. I due impersonano rispettivamente Rob Hall e Scott Fischer, gli scalatori a capo della tragica spedizione, protagonisti di una storia che tenta a tutti i costi di colpire allo stomaco, ma che non sempre ci riesce, lasciando allo spettatore una profonda sensazione di rammarico.
Everest è un film che non convince completamente, si tiene strategicamente a galla su archetipi hollywoodiani e sulla spettacolarizzazione del dramma e non può che meritare la glaciale reazione che stampa e addetti ai lavori gli hanno riservato durante la prima proiezione del Festival.

Davide Antonio Bellalba -  03/09/2015