Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Bella e perduta: al cinema una favola sulla terra dei fuochi

“Bella e perduta” è un’opera libera che si libra nell’aria, come quelle musiche che risuonano nel film e quei versi recitati, come la fantasia che alimenta le fiabe per rendere comprensibili ai bambini le ragioni del mondo. Una fantasia a volte utile per capire con semplicità e poesia ciò che agli atti è ricoperto di sovrastrutture.
Il film di Pietro Marcello - unico italiano in concorso la scorsa estate al Festival di Locarno e nelle sale italiane dal 19 novembre - racconta una storia vera, quella di Tommaso Cestrone (l’angelo di Carditello, la reggia borbonica decadente e abbandonata nel casertano, ormai monopolio della camorra), ma lo fa in maniera unica, senza rientrare in nessun genere, né il documentario, né il fantasy, né quello che viene chiamato il mockumentary (una sorta di falso documentario). Marcello si getta nello spirito vero di quella “Terra di Lavoro”, come la chiamava Pasolini: “qualche branco di bufale, qualche mucchio di case tra piante di pomodoro”. Il regista attinge alla tradizione, dalla superstizione, che quei popoli portano in seno, fino alla realtà di quei territori, luoghi di pastori e contadini, ricoperti oggi di immondizia o avvelenanti da quella nascosta sotto le coltivazioni.
Quale fosse la scelta iniziale di Marcello non lo sappiamo, proprio perché il film inizia con un racconto vero attraverso la persona stessa di Tommaso Cestrone. L’uomo ci spiega le sue giornate, trascorse a prendersi cura della reggia, a girare nelle campagne per raccogliere pneumatici, a salvare animali intrappolati. È così che Cestrone trova un bufalotto, destinato alla morte, e se ne prende cura come un figlio.
Tommaso, però, dopo aver ricevuto numerose minacce da parte della criminalità organizzata, che vedeva danneggiati i suoi interessi su uno stabile da saccheggiare, e dopo aver ottenuto dal ministro Bray la promessa di impegno, per riconoscere la reggia come patrimonio statale, muore la notte di Natale del 2013. Da qui, forse per necessità, il film prende un’altra piega: entra in scena Pulcinella, la maschera napoletana che parla col regno dei morti, chiamata a scendere sulla terra per prendersi cura del bufalotto (il suo nome è Sarchiapone) rimasto ormai solo. Due esseri che hanno in comune lo stato di “servo”, il bufalo degli uomini e Pulcinella degli immortali. Insieme iniziano un lungo viaggio attraverso la magia di quelle terre, i suoi aspri colori, le prepotenze, l’ingenuità delle genti e le loro delusioni.
Nella magia della storia il bufalo ha il dono della parola ed è lui che ci racconta tutta la vicenda, a lui (attraverso la voce di Elio Germano) sono affidati i pensieri sul destino di un essere vivente, sulla giustizia, sulla forza della natura, riflessioni poetiche, rese attraverso una testo molto profondo.
La sorte di questo essere destinato al macello diviene così il simbolo del nostro intero paese: stufo di fuggire e di ribellarsi, si rinchiude in una gabbia in attesa della sua fine. Allo stesso modo Pulcinella, conosciuta la realtà, non può resistere al fascino che emana la promiscuità e abbandona così la sua maschera, per piantarsi per sempre nel regno degli umani, non senza conseguenze: un passaggio, questo, che ricorda quasi l’angelo de “Il cielo sopra Berlino”.
Il regista fa qualcosa di insolito: ambienta una favola nella terra dei fuochi, in quel posto, oggi, così sotto attacco, che di favolistico non ha nulla e sul quale sembra solo alzarsi lo spettro della rovina.
Marcello non pone filtri nel racconto e non utilizza quel tono didascalico, che spesso nei documentari si rischia di percepire.
Il risultato è commovente: immagini di rara bellezza (come la distesa di prato verde, attraversata da un bianco Pulcinella con la sua nera maschera e affianco a lui il bufalo), poesia e ironia napoletana non ci lasciano l’animo più leggero, ma ci spingono a riflettere, attraverso la meraviglia, a interrogarci su come il disastro possa rimanerci in fondo indifferente.

Davide Antonio Bellalba  13/12/2015

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM