Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 673

L'altro volto della felicità in "un sogno chiamato Florida" di Sean Baker

Se per Umberto Eco  Disneyland e Disney World sono luoghi – o per meglio dire non-luoghi -, in cui la simulazione iperrealistica riproduce una realtà migliore, più allettante della realtà stessa, in Un sogno chiamato Florida, in sala dal 22 marzo, lo squallido motel Magic Castle, ad Orlando, non è che la ridicola e disperata simulazione di una simulazione. Ma lo stucchevole viola pastello di cui si ammanta l’edificio sorvegliato da Bobby (Willem Defoe) non può lontanamente sperare di ridurre la distanza tra la degradante periferia di Orlando e quell’isola felice che è Disneyland, poco lontano dal motel eppure a una distanza siderale da esso e dai suoi inquilini. Infatti, appena una coppia di novelli sposi diretta al Disneyland Resort giunge per errore al Magic Castle – nome scelto furbescamente per richiamare il celebre Hotel Magic Kingdom – si trova di fronte a una realtà lontana anni luce da quell’universo dorato in cui sperava di soggiornare. La differenza fondamentale tra i due mondi è proprio questa: mentre Disneyland simula la realtà nascondendo sotto l’apparenza degli edifici fittizi l’assenza di vita, il Magic Castle simula il vuoto idilliaco di Disneyland ma è un luogo reale, con vite vere, sofferte e autentiche. Vite che il regista Sean Baker – dopo le incursioni tra i sobborghi di Los Angeles di Tangerine (2014) –, restituisce per frammenti quotidiani – alcuni brevissimi – incentrati su un trio di bambini allo sbando e sui rispettivi genitori e in particolare su Moonee (Brooklyn Prince) e la madre Halley (Bria Vinaite), privilegiando l’osservazione sociale alla costruzione narrativa, con sobrietà registica e oggettività di sguardo. Al riparo da facili soluzioni retoriche e moralizzanti, Baker si dimostra interessato piuttosto ad infondere nella e tramite la materia filmica e finzionale il palpitare di esistenze al limite, servendosi inoltre di attori non professionisti – eccezion fatta per Defoe, angelo custode impotente in un mondo di precarietà – e ricorrendo all’improvvisazione per alcune scene, una di queste filmata all’insaputa delle ignare comparse coinvolte. Florida 2
Il kitsch urbanistico degli edifici a forma di prodotti alimentari – scorie periferiche del capitalismo statunitense di cui Disneyland è l'emblema –, invitano a un consumo precluso ai giovani protagonisti del film, costretti all’elemosina per pagarsi un gelato da dividere in tre. Baker gioca dunque sui contrasti, e lo fa reiterando le contraddizioni sorte dalla prossimità tra sogno e incubo, splendore e squallore – le mezze misure paiono abolite – e portando il contrasto all’interno della medesima inquadratura, in cui la saturazione fumettistica dei colori si oppone alla degradazione degli ambienti mostrati e lo sguardo gettato sulla realtà dai bambini, per cui tutto è un gioco, entra in dialettica con la problematicità delle situazioni. Problematicità a cui Baker non offre soluzione ma semmai una labile via di fuga finale attraverso l’immaginazione, una fuga la cui gioia è pari al desiderio di vedere realizzato l’impossibile, in un disperato bisogno di felicità.

Riccardo Bellini 08/04/2018

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM