Agadah, nel linguaggio cabalistico, significa “narrare”. Ed è proprio alla narrazione e ai suoi labirinti che pare inevitabilmente connesso il film di Alberto Rondalli, libero adattamento del Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki. Sono infatti storie che si accumulano l'una sull'altra quelle che il regista de Il Derviscio mette in scena con la consueta eleganza calligrafica e minuziosa, cercando, in poco più di due ore, di far rivivere al cinema un'opera tanto monumentale quanto estremamente stratificata, restituendo il senso di una storia dove i diversi piani narrativi si confondono e inglobano tra loro e la conoscenza non può che celarsi dietro alla forza delle parole.
È un complesso meccanismo di scatole cinesi, d'altronde, il manoscritto di Potocki, un'opera debordante ed enciclopedica che il regista traspone sullo schermo servendosi del proprio gusto eclettico e barocco, riuscendo a racchiudere e sintetizzare i diversi generi e le differenti suggestioni che convivono al suo interno, dal romanzo di formazione a quello picaresco, dal racconto di avventura alle storie di fantasmi. Ecco allora, tra film storico, horror e fantasy, che Rondalli condensa un intero universo attraverso un viaggio debordante ed esplicitamente iniziatico (i dieci giorni di vagabondaggio del giovane ufficiale van Worden per l'altopiano delle Murge richiamano le dieci sephirot della Cabala) in cui i narratori si mischiano e confondono tra loro (lo stesso Potocki viene incluso nella pellicola, in un inevitabile cortocircuito tra diversi piani di realtà) attraverso uno stile raffinato e alchemico reso con inventività e padronanza tecnica.
Sul solco di esempi recenti volti a sovvertire modelli ed estetiche consolidate alla ricerca di un nuovo modo di guardare e raccontare il fantastico (vedi Il racconto dei racconti di Matteo Garrone), Agadah pare così un'opera fuori dal tempo e dagli schemi, una sfida al gusto e al sentire contemporanei, determinata però, nonostante tutto, a dialogare con il proprio presente.
Forte di una ricostruzione d'ambiente eccezionale, di una cura ossessiva per dettagli, scenografie e costumi, nonché dell'apporto fondamentale dei suoi innumerevoli interpreti (Alessio Boni, Flavio Bucci, Alessandro Haber, Caterina Murino, solo per citarne alcuni), il film di Rondalli non è altro che un sontuoso omaggio all'atto del raccontare, un luogo dove finzione e realtà si confondono inevitabilmente tra loro, restituendo il senso di un cinema altro, forse persino noioso e a tratti estenuante, ma carico di un'unicità e di un'originalità che pare doveroso preservare.
Mattia Caruso, 07/07/2018