“Semplicemente complicato”: il paradosso della vita attraverso gli occhi di un pazzo
Un vecchio lanciato in un lungo soliloquio senza meta, dove l’amore per la recitazione, il ricordo di esperienze giovanili, l’odio per gli altri e Schopenauer si accavallano senza possibilità di ordinare alcunché. Il protagonista di "Semplicemente complicato", in scena al Piccolo Eliseo fino al 17 maggio, è intento a registrare tutti i suoi vaneggiamenti su un nastro, impegnato in uno sconclusionato lavoro di artigianato, assillato dai topi ai quali ha anche attribuito un nome; ma mettiamo che questo “vecchio pazzo”, nel corso del suo monologo rivolto a chissà chi faccia emergere, improvvisamente, senza preavviso, delle “verità” che anche noi, convinti della nostra sanità mentale, siamo pronti a comprendere e sottoscrivere… allora saremmo disposti ad ammettere di essere un po’ folli noi stessi? O magari che lui sia meno pazzo di quello che sembra? Magari il punto è che qualsiasi esistenza che volge al termine non ha la forza di instaurare un significato di quanto si è lasciato alle spalle, e quando tutto è già accaduto non ci resta che uno sguardo demente che solo la morte è in grado di acquietare.
L’universo di Thomas Bernhard è assillato dalla presenza della follia: le sue magnifiche piéce, hanno come protagonisti dei nevrotici, altre volte ex-intellettuali degenerati nel vortice della senilità. Stefano Santaspago offre una indimenticabile interpretazione di uno di questi casi, fondendo con efficacia la dimensione ironica fortemente voluta dal testo, e quella drammatica, cupa, che ci assale e ci angoscia con forza quando intuiamo che ci a cui stiamo assistendo ci riguarda in prima persona. La messa in scena, opera dello scrittore e regista Cesare Lievi, è secca al punto giusto, pungente nel suo minimalismo, esauriente per quel che l’opera intendeva trasmettere: il vuoto di senso che sta al fondo delle vicende umane. Si respira un claustrofobico senso di smarrimento, ribadito dagli scaffali alle pareti vuoti e disordinati e dal ridotto segmento di spazio al quale il protagonista è (auto)condannato; e il fatto che si possa ridere di tanto in tanto rende tutto più duro da digerire, perché se il matto manifesta la sua follia nel ripetere sempre le stesse cose e gli stessi gesti, non sarebbe un errore tornare a ripetere che c’è anche una parte di noi sulla scena. Questo diventa evidente in come il protagonista alterni il guardarsi allo specchio al puntare direttamente il suo sguardo stanco sul pubblico. Un grande testo di un autore straordinario, messo in scena in maniera splendida.
(Alessandro Alfieri)
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