“Storie Pazzesche”: i racconti selvaggi di Damiàn Szifron
Uno sfogo. Una vera liberazione. Il piacere dell’immaginazione violenta.
Sembra quasi di vederlo il regista e sceneggiatore di “Storie Pazzesche” Damiàn Szifron quando, alle prese con le difficoltà produttive con cui ogni autore cinematografico prima o poi deve fare i conti, scarica la frustrazione scrivendo racconti di immaginazione sfrenata, storie in cui ineguaglianze e ingiustizie causano “la rivolta degli innocenti”.
Nei sei capitoli, nelle sei reazioni violente raccontate con una sincerità visiva al limite del sopportabile, chiunque può riconoscersi e sentirsi sollevato, perché almeno nella zona franca della sala cinematografica, qualunque vendetta è tollerata: un musicista incompreso che raccoglie in un aereo tutti i suoi “nemici” e detrattori (critici, maestri di musica, fino alla ex e al miglior amico complici del più classico dei tradimenti d’amore) e si pilota fino allo schianto sulla casa dei suoi genitori; l’omicidio di un mafioso politicizzato, un pescecane che trova la sua fine cruenta in un fastfood di quart’ordine ad opera di una super-eroina burbera, che “fa un favore alla comunità”; una “audi in carriera” che sorpassa e sbeffeggia un “utilitaria scassata”, generando un’escalation di violenza, una parabola di giustizia sociale e divina in cui, opportunamente sopraggiunge la morte a ripulire la vita; il “detonatore-giustiziere”, che dopo una serie di multe, un divorzio e un licenziamento, mette in “divieto di sosta” il sistema di quotidiane vessazioni del cittadino medio; un’omicidio stradale (aspettando che questa espressione servirà a definire un reato), che smaschera la corruzione stratificata della giustizia; una sposina che scopre il tradimento il giorno delle nozze e trasforma il ricevimento in un delirio di sangue e pasta di mandorle.
Storie pazzesche appunto, girate con un linguaggio ibrido, a metà tra cinema e serie tv (con un cast efficacissimo, che ricalca questa doppia derivazione), ammiccando alla letteratura e attingendo ad un vastissimo repertorio di genere: dalle “Storie incredibili” (serie tv prodotta da Spielberg) a “New York Stories” (film a episodi diretto da Scorsese, Coppola e Allen), fino alle “Nove storie” di J.D. Salinger.
Un “progetto involontario” lo definisce il regista sudamericano classe ’75, ma di involontario c’è ben poco: senza scomodare la visione della società capitalistica occidentale vista come una specie di gabbia trasparente di insensibilità (come non pensare al Michael Douglas di “Un giorno di ordinaria follia”?), l’invito è quello “politically correct” di non farlo a casa, ma in caso di necessità, correre al cinema e sfogare le frustrazioni prima di ritrovarsi per strada con in mano l’arma della disperazione puntata sul primo malcapitato. Non è forse, quella cinematografica, la più innocua delle psicoterapie?
(Adriano Sgobba)
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