“Stoker”: mise en scène turpe e sublime del desiderio represso
India (Mia Wasikowska) è una ragazza introversa e inquieta. I suoi sensi sono più sviluppati della media e la madre distratta e frivola (Nicole Kidman) non è in grado di capirne il disagio. La morte improvvisa e misteriosa dell’amato padre, avvenuta nel giorno del suo diciottesimo compleanno, porta la ragazza alla totale apatia. Ma l’arrivo di uno zio affascinante e ambiguo (Matthew Goode) risveglierà in lei qualcosa di sconosciuto e oscuro a lungo sopito.
L’esordio hollywoodiano di Park Chan-wook è claustrofobico e malato nella sua eterea bellezza. Vive di movimenti di macchina lenti e allucinati che indugiano, con la consueta eleganza formale a cui ci ha abituato il grande regista coreano, sui particolari degli arredi e degli oggetti dell’ambiente casa, per poi ancorarsi ai dettagli del corpo umano, sezionato e sviscerato senza mai cedere alla nudità o all’erotismo esplicito. La pellicola si costruisce attraverso piccoli scorci, che si intersecano dentro un universo spogliato di ogni valore morale, ma non di “una” morale. “Stoker” è un mosaico di occhi, mani, labbra, capelli che si autoassembla fino a formare la sagoma in putrefazione del desiderio represso.
Perché il vero tema del film, perfettamente allineato alla poetica autoriale di Park, è la potenza (auto)distruttiva del piacere negato.
Se nel precedente “Thirst” del 2009 il cineasta di Seoul aveva utilizzato il vampirismo per esprimere il senso di peccato e di colpa legato all’idea cattolica della sessualità, qui affida a una protagonista femminile in equilibrio tra innocenza e perversione il compito di sondare il moralmente indicibile, eppure reale, profondamente umano, piacere del dolore. Il sadomasochismo fa parte della nostra natura finita e cosa sono in fondo l’amore e il sesso se non altari sacrificali sui quali ci immoliamo volentieri, simulazioni con cui inseguiamo il gusto della morte, del perdersi nel nulla? Che sia sentimento o carnalità, tutto ciò che dona appagamento infligge allo stesso tempo anche tormento e afflizione, ed è in quest’antitesi che l’individuo trova se stesso. Anche solo per il breve attimo di un orgasmo. Così, nella splendida sequenza dalla sonata a quattro mani al pianoforte, India scopre la libido, ma non si tratta di sesso. È un fare l’amore appassionato e viscerale di mani e di sospiri, che è ad alto tasso erotico sebbene non ci sia uno scambio fisico, voluttuoso e intimo pur nella compostezza rigida degli amanti che suonano, anime che si toccano, non corpi. E Park dipinge una delle scene d’amore più belle degli ultimi anni, dove non si vede nulla e si vede tutto.
La giovane protagonista matura quando abbraccia la propria indole e la asseconda. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è scandito dall’accettazione di sé come essere unico e ineguagliabile, dalla scoperta della propria eccezionalità nella soddisfazione del desiderio.
Un’opera dove l’orrore di dentro nasce dallo splendore di fuori, fatto di paesaggi selvaggi e interni borghesi, e il mostro covato sotto metri di stoffa e scarpette stringate emerge in modo graduale, senza fretta, come un cacciatore paziente che aspetta, nascosto fra i cespugli e l’erba secca, il momento giusto per sparare. E non sbaglia il colpo.
(Paola Francesca Spada)
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