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“Source Code”: la versione di Jones (sul Tempo)

Ripeter(si). Procedere per accumulazione. Constatare che il tempo è un vettore teso nella direzione della Verità, solamente parallelo e mai coincidente. In “Source Code” Duncan Jones riprende alcune delle ossessioni del film d'esordio (“Moon”) e grazie allo script di Ben Ripley confeziona un prodotto che nel suo piccolo rappresenta ciò che “Inception” voleva essere e non è stato. 

Lo spunto narrativo da cui “Source Code” prende le mosse è facile facile e proprio per questo dilatabile in una miriade di possibilità: Colter Stevens (Jake Gyllenhaal), capitano di stanza in Afghanistan, si ritrova improvvisamente nei panni di un altro uomo su un treno dove è nascosta una bomba. Scoprirà di far parte di un programma governativo che permette di rivivere gli ultimi 8 minuti della vita di chiunque (tanto durerebbe il bagliore residuo presente nella memoria) per provare, se non a modificarlo, quantomeno a indirizzare il passato su nuovi 'binari'.

Jones prova a dire qualcosa di nuovo su un tema à la page: il viaggio nel tempo è un pretesto per dilaniare la consequenzialità cronologica e disquisire di universi paralleli e, chissà, pure di come l'America affronta le fobie terroristiche. “Source Code” cerca la soluzione sommando lo stesso addendo – Stevens rivive più volte gli stessi 8 minuti sul treno per risolvere il puzzle – e trasforma un potenziale punto debole nel senso stesso dell'operazione.

Quello di Stevens è un continuo ritorno nell'Ade: la gente sul treno è la pallida copia di passeggeri morti da tempo e lo costringerà a scegliere tra un'esistenza liminare con la morte e quella di un avatar che reitera l'illusione della vita. In “Source Code” la tensione narrativa non nasce da un finale che conosciamo in anticipo ma dal crescendo iperbolico dell'identica scena. Il limite è lo scioglimento che arriva presto e affastella più finali che troppo spiegano e insieme sottraggono alla comprensione dello spettatore il quale fiuta subito il colpo basso come per la trottola di “Inception”.

Il senso è tutto in una battuta (“Stevens, lei è la lancetta dell'orologio”) e nell'immagine finale della carrozza del treno col tempo freezato: oltre i 7'59” non c'è più storia ma la versione che ognuno sceglie di immaginare. Ammiccamenti e chiusura a chiasmo sono solo vezzi registici ma confermano la tesi di partenza: la verità, come il passato, resta una, insondabile. Tutto quanto è già accaduto, rassegniamoci: non è più interessante allora giocare con le versioni alternative di noi stessi, delle storie, della Storia?

 

(Raffaele G. Flore)

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