“Workingman’s death”: nelle sale il docudrama operaio di Micheal Glowogger
Il viaggio dell’austriaco Micheal Glawogger attraversa cinque città tra Ucraina, Indonesia, Nigeria, Pakistan e Cina per raccontare la classe operaia e le precarie condizioni lavorative degli schiavi del nuovo millennio. Cinque storie per osservare gli invisibili della “civiltà industriale”, gli eredi del minatore sovietico Stakhanov, passato alla storia per aver stabilito il record nell’estrazione di carbone, trasformatosi in eroe dei lavoratori, simbolo dell’orgoglio e del patriottismo sovietico. Ma ora i minatori ucraini o i raccoglitori di zolfo indonesiani, i macellai nigeriani, o gli operai cinesi e pakistani delle acciaierie, si devono accontentare di incoraggiarsi l’un l’altro perché, lontani dall’euforia stakanovista e dall’incondizionato amore per il proprio lavoro, preferiscono spezzarsi la schiena piuttosto che non lavorare affatto. Michael Glawogger con questo affresco sociale, scruta i volti senza nome e senza identità di coloro che hanno scelto la rinuncia ad ogni diritto come unica condizione di vita possibile, in un’estrema lotta per la sopravvivenza che inizia quando il sole sorge e finisce quando non c’è più luce. Presentato al Festival di Toronto e a quello di Venezia nel 2005, questo docudrama risente di una forte componente documentaristica, smorzata tuttavia da scelte registiche che assimilano il lungometraggio nel filone dei film di finzione più classici, grazie anche ad una sapiente costruzione dell’impianto narrativo. Le storie raccontate non sono solo un mezzo per analizzare la società, la realtà non viene semplicemente descritta asetticamente ma elaborata e trasfigurata creativamente dando vita ad una vera e propria drammaturgia del reale. Da questo deriva anche un’ottima padronanza di tutti quei procedimenti tecnici (inquadrature, fotografia, sonoro, colonna sonora, montaggio) propri dei film di finzione romanzesca, motivo per cui molti critici hanno accusato “Workingman’s death” di essere un’opera troppo estetizzante, con immagini troppo ricercate e d’impatto, una sorta di videoarte piuttosto che un documentario. Del resto fotograficamente parlando, mai si era visto così tanto splendore nelle miniere di carbone o nei mattatoi a cielo aperto nigeriani, ma chi pensa che un documentario con istanze sociali debba per forza essere un’accozzaglia di immagini di poveri e desolazione, deve sapere che il cinema non funge da telegiornale e anche per rappresentare la miseria umana deve utilizzare tutta la perizia e la bellezza che stanno alla base della creazione artistica.
(Anna Barison)
(Anna Barison)
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