“Stray dogs”, vivere come cani randagi ai margini della società
E’ un cinema puro e complesso il cinema di Tsai Ming-liang, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con il film Stray Dogs. E’ un cinema fatto di inquadrature lunghissime, interminabili. I suoi personaggi sono immobili e persi nella loro sofferenza, nella loro solitudine, in un continuo stato di sospensione. E’ un cinema che si allontana volutamente dal mondo della comunicazione di massa o da qualsiasi schema di intrattenimento. E’ un cinema che non si apprezza durante la visione, ma successivamente, quando quelle infinite inquadrature riescono a fissarsi, come un fotografia, nella mente.
Proprio nella mente rimane quindi quel senso di angoscia, di abbandono che pervade in tutti questi 138 minuti di proiezione. La solitudine è quella di un padre ( interpretato dall’attore-feticcio del regista Lee Kang-sheng) che è stato abbandonato dalla moglie e vive, come un cane randagio, insieme ai suoi due figli. Mentre lui guadagna qualche soldo come “cartello umano” che pubblicizza appartamenti di lusso, i bambini cercano tutti i giorni del cibo in un supermercato. La sera questo “branco” si ritrova nel loro rifugio ai margini della società, lontano dal caos assordante e alienante di una città come Tapei. Il degrado dei luoghi in cui vivono riflette il disagio urbano, le macerie dell’alienazione, della modernità. Come ha spiegato chiaramente il regista cinese, già vincitore del Leone d’oro nel ’94 con il film “Vive l’amour”: “Le città asiatiche così occidentalizzate mi danno l’impressione che vivano in uno stato costante di ansia, incertezza e stress. Come se noi tutti stessimo scivolando via senza alcuna fondamenta a trattenerci. Quello che cercano i protagonisti di questo film è solo un po’ d’amore, quella luce accesa di speranza e tenerezza che sembra introvabile nella realtà straniante in cui vivono.
(Flavia Stinchelli)
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