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Ormai da molti anni, non sembra quasi esserci dubbio che lo spettatore, mentre si approccia ad un film, ad una serie, ma anche ad un programma televisivo, sia sempre alla ricerca di storie che siano il più reali possibili; i film biografici o horror «basati su una storia vera», per esempio, spopolano da molto prima degli anni duemila e della rivoluzione seriale. A questo si aggiunge il morboso gusto per il pericolo, il macabro, il dramma che contraddistingue tutti i tipi di pubblico da sempre, affascinato dalle narrazioni che vanno a costruirsi attorno a fatti scabrosi (e per rendersene conto, almeno in Italia, basta accendere un telegiornale durante i servizi di cronaca).
Le piattaforme online, ormai la principale fonte – e, nell'ultimo anno, unica - di distribuzione di film e serialità, hanno intercettato quest'esigenza dello spettatore, proponendo un fiorire di docuserie crime che innestano insieme la ricostruzione di finzione e la forma di ricerca documentaristica.
Anzi, forse lo stesso Netflix si era fatto, come spesso accade, promotore del genere, vista la forte risonanza ottenuta qualche anno fa da “Narcos”, che applicava un finto impianto di documentario ad una serie di sola ricostruzione. E' proprio su Netflix infatti che si trova oggi una nutrita schiera di serie tv che hanno abbandonato quello che era la finta forma documentaristica della storia dei cartelli colombiani e raccontano invece mettendo insieme la fiction e un massiccio utilizzo di interviste ai protagonisti reali e immagini di repertorio; il parco di titoli di questo tipo è così ampio nel colosso internet tanto da avere una propria sezione, dal programmatico titolo True Crime.
Al suo interno, la recentissima “Sulla scena del delitto: Il caso del Cecil Hotel” che racconta la morte di Elisa Lam, avvenuta nell'omonimo albergo nel 2013. Ma questa è solo l'ultima di una delle serie True Crime proposte nel catalogo solo in questi primi mesi dell'anno: è dello scorso febbraio “Omicidio tra i mormoni”, affresco sugli omicidi bombaroli avvenuti nella comunità mormona delle Utah nel 1985. Serie che arrivano dopo un massiccio numero di titoli che nello scorso anno hanno riscosso un enorme consenso: in piena pandemia, arrivava poco meno di un anno fa “Tiger King”, sulla controversa vicenda di Joseph Allen Maldonado-Passage, famoso come Joe Exotic, e il suo surreale 'zoo' di felini in Oklahoma.
Anche  “Making a Murderer” è stato un caso eclatante per il successo che ha riscosso negli Stati Uniti. La serie scritta da Laura Ricciardi e Moira Demos per Netflix si divide in due stagioni da dieci episodi. Entrambe si basano sull’arresto di Steven Avery, criminale scagionato e poi imprigionato di nuovo a seguito dell’intervento della Corte per i processi d’appello degli Stati Uniti. Le due stagioni discutono se lo stesso Steven Avery sia veramente lo stupratore-assassino della fotografa Teresa Halbach. Vincitrice d’innumerevoli Primetime Emmy Awards, “Making a Murderer” è punta di diamante nei crime drama. “American Crime Story” prodotto da FX è invece incentrato sui casi più eclatanti del mondo legale e criminale americano. Si divide in tre stagioni: la prima sul caso OJ Simpson, la seconda sull’omicidio di Gianni Versace. Un True-Crime drama che sarebbe dovuto spaziare anche sull’uragano Katrina, ma poi si è preferito optare sull’empeachment al quarantaduesimo presidente americano Bill Clinton. Con un cast stellare composto da Cuba Gooding Jr. come OJ Simpson, Sarah Paulson / Marcia Clark, David Schwimmer / Robert Kardashian e John Travolta nei panni di Robert Shapiro. Nella seconda stagione su Giovanni Versace, vestono i ruoli dello stilista Édgar Ramírez e del suo killer, rappresentato da Darren Criss. Nel cast anche Ricky Martin e Penélope Cruz.

Un altro titolo del genere true crime è “Amanda Knox” disponibile su Netflix che riprende in taglio documentaristico in due episodi l’omicidio di Meredith Kercher. Diviso in due macro parti, il docufilm analizza il controverso caso. Con un taglio polarizzante su Amanda Knox (è colpevole vs non è colpevole) il drama è composto da interviste all’omonima protagonista, al suo ex fidanzato Raffaele Sollecito, al procuratore italiano Giuliano Mignini e ad altre persone coinvolte nel caso, le indagini e i conseguenti processi legali. “Conversations with a Killer: The Ted Bundy Tapes” è una docu-serie in quattro episodi creata e prodotta da Joe Berlinger, disponibile anch’essa su Netflix. La serie traccia cronologicamente la vita di Bundy, i crimini, gli arresti, le fughe e la morte in dettaglio. Filmati d'archivio, prove della polizia, foto personali e le interviste di Stephen Michaud del 1980 nel braccio della morte sono fulcro della serie. Le persone legate al caso Bundy includono vittime sopravvissute, testimoni, la sua famiglia ed ex amici, insieme a funzionari, ufficiali e giornalisti.

Sempre in America, “Abducted in Plain Sight”, noto anche come “Forever B”, è un true crime drama del 2017 diretto da Skye Borgman. La serie documentario copre i rapimenti di Jan Broberg Felt, un'adolescente dell'Idaho che fu rapita dal suo vicino Robert Berchtold negli anni settanta in due occasioni. La storia è stata raccontata per la prima volta in Stolen Innocence: “The Jan Broberg Story”, un libro di memorie pubblicato da Felt e da sua madre. In particolare, Felt stessa è apparsa nel documentario. Inizialmente rilasciato in sala, il docu-show è stato prodotto da Top Knot Films e successivamente rilanciato da Netflix nel 2019, su cui è tutt’ora disponibile. Serie che hanno generato controversie ma estremo successo sia in patria che internazionalmente, segno che quando la realtà e la fiction hanno confini labili la curiosità per il macabro è infinita.

Gabriele Ragonesi, Gianluca Maffeis 20/03/21

Martedì, 28 Aprile 2020 19:53

Serie tv Netflix: le imperdibili di maggio

Si affaccia l’ennesimo mese sul divano tra videocall e serie televisive. Ecco cosa c’è di nuovo sotto il sole di maggio sulla piattaforma streaming, una garanzia mensile, settimanale, quasi quotidiana di nuovi prodotti freschi di uscita, originali o rispolverati. Le serie sceltissime, accuratamente selezionate a mano dai nostri coltivatori di cultura televisiva, saranno evidenziate da uno o più asterischi, in base all’imperdibilità e all’attesa creatasi intorno. Et voilà cosa offre il banco Netflix.

Into the Night (Stagione 1) – 1 maggio 2020**
Sta per giungere l’alba e porta con sé morte e tragedia. La vita finisce là dove passa il sole: l’enigmatica nuova realtà viene intuita da un uomo che decide, così, di dirottare un aereo per salvare sé stesso e le persone a bordo, volando costantemente verso ovest, verso la zona d’ombra terrestre, verso la notte. Per quanto riusciranno a sopravvivere? Si svelerà il mistero che si cela dietro tutto questo?

Felice o quasi (stagione 1)- 1 maggio 2020
Un conduttore radiofonico di un programma di modesta fama cerca di barcamenarsi tra il lavoro, i figli e il divorzio, nel tentativo di trovare la sua strada.

Hollywood (Stagione 1)- 1 maggio 2020****
L’originale Netflix ha la firma di Ryan Murphy(American Horror Story, Glee) e, come lui stesso dichiara, rappresenta «una lettera d’amore all’Età d’Oro di Tinseltown [Hollywood]».

Una lettera glamour, camp e queer as folk!, senza dimenticare i temi cari al regista: l’integrazione etnica, la diversità, la questione di genere.

Colony (stagione 3 ) –  2 maggio 2020**
E d’un tratto atterrano gli alieni. Los Angeles viene recintata, ci si deve adattare ad una nuova normalità. Un ex agente dell’FBI e la moglie rischiano il tutto per tutto pur di ritrovare il figlio disperso.

Working’ moms (Stagione 4) –  6 maggio 2020
Attraverso le storie di quattro donne viene scandagliata la maternità. Essere madri tra lavoro, figli, capi esigenti, amore, rimorsi, conquistate o ritrovate libertà.

Dead to Me ( stagione 2) – 8 maggio 2020**
In arrivo la seconda stagione di questa thriller dramedy che unisce due donne attraverso il lutto e la morte, ma non esattamente nei termini in cui ve lo aspettereste. Il cliffhanger è dietro l’angolo, non spetta a noi, però, “spoilerarvelo”.

The Eddy (stagione 1) – 8 maggio 2020****
Damien Chazelle, dopo Whiplash e La La Land, ritorna al Jazz con questa miniserie da otto puntate. Un newyorchese si ritrova in difficoltà nel gestire il suo Jazz club a Parigi: il The Eddy.

Strozzini, delinquenti e crisi interne alla band minano la stabilità del locale e del protagonista che oltre a difendere il suo progetto dovrà lottare anche per il rapporto con la figlia.

Valeria (stagione 1) – 8 maggio 2020
Tratta dai romanzi di Elisabet Benavent, la serie spagnola racconta di Valeria, giovane donna in crisi matrimoniale e creativa. Ad affrontare il lungo percorso per trovare sé stessa, la accompagnano tre amiche, anche loro con i propri tarli e conflitti da affrontare.

Bordertown (stagione 3 ) – 11 maggio 2020**
Poliziesco made in Finland in cui un ispettore del National Bureau of Investigation decide di trasferirsi in provincia per dedicarsi alla famiglia. A Lappeenranta, cittadina al confine con la Russia, non trova, però, la tranquillità, come sperava, ma una serie di omicidi inquietanti che lo travolgeranno.

Dérapages – (stagione 1) – 15 maggio 2020
Dopo anni di disoccupazione, quando Alan Delarge viene selezionato come candidato per una prestigiosa azienda, decide di mettere a rischio tutto pur di svoltare la sua vita. Si spinge perfino a prendere parte a un gioco di ruolo sotto forma di sequestro con ostaggi, sapendo che, qualora venisse assunto, tutto sarebbe perdonato. Non sempre, però, le cose vanno come si vorrebbe.

Skam Italia (stagione 4) – 15 maggio 2020*****

La versione Italiana di Skam (prodotto in origine norvegese) viene salvata da Netflix per la quarta stagione. Dopo aver raccontato le storie dai punti di vista di alcuni degli adolescenti che percorrono la serie, Timvision aveva staccato la spina. Con i nuovi episodi si racconta il punto di vista di Sana, ragazza italiana musulmana. La serie finora ha riscosso un grande successo per la sincerità con cui è stata rappresentata la nuova gioventù: senza edulcolorarla e rispettando l’ampio spettro della realtà adolescenziale, tra alti e bassi. Riuscirà Netflix a raccogliere la sfida? Un’attesissima quarta stagione.

Chichipatos – (stagione 1) – dal 15 maggio 2020*
Chichipatos, un ridicolo mago da compleanni, con un trucco di magia fa sparire, quasi per sbaglio, un personaggio malavitoso al suo party. Piccolo imprevisto: irrompe una squadra swat e il protagonista non sa come far ricomparire il criminale.

Control Z (stagione 1) – dal  22 maggio 2020**
La serie messicana, attesa come erede di Elite, mescola il pettegolezzo con il mondo dell’hacking. In un crossover tra Gossip-girl e Black mirror, una scuola vivrà un ribaltamento delle gerarchie sociali, grazie ad un hacker che inizierà a svelare i più intimi segreti di alcuni studenti.

Space Force (stagione 1) – dal 29 maggio 2020*****
«Il 18 giugno 2018, il governo federale annuncia la creazione di una sesta divisione delle forze armate degli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di “difendere i satelliti dagli attacchi” e “compiere altre missioni relative allo spazio” o qualcosa del genere». Quali attacchi e quali missioni? «Questa è la storia delle donne e degli uomini che dovranno capirlo. Dai tipi che vi hanno portato The Office. Creato da Greg Daniels e Steve Carell. Con Steve Carell come protagonista: Space Force

Non si sa molto altro dall’unico teaser uscito fino ad ora. La serie è comunque attesissima e, visti gli ideatori e il protagonista, non servono né trailer né sinossi per affermare con certezza che le aspettative arrivano, se non fino alle stelle, fino ai satelliti.

 

Sara Moscagiuri

L’anno è il 2009 ed è tempo di svolta, peccato siate capitati nel peggior istituto formativo del mondo: il Greendale Community College. Un'università che accoglie un’accozzaglia di perdenti, tra cui: ragazzi problematici, ultraventenni che hanno abbandonato gli studi, divorziati con figli e anzianotti che tentano di tenere sveglio il cervello mentre sono ad un passo dalla tomba.

Non vi preoccupate, ad affrontare l’imbarazzante e degradante percorso che vi attende, arriva in soccorso il gruppo di studio di Jeff Winger e co. Spoiler Alert: non vi aiuterà a studiare o a passare gli esami, ma vi renderà questo periodo meno detestabile.

Jeff Winger (Joel McHale) è un ex-avvocato trentasettenne costretto a ritornare sui banchi universitari dopo che una denuncia lo priva della licenza per professare (sembra si sia laureato in Colombia e non alla Columbia). Considerato il leader, nonostante il complesso dell’abbandono del padre, spesso rappresenterà proprio la figura paterna del gruppo  -sì, anacronisticamente anche per l’anzianotto della crew-. Questo sarcastico, attraente, cinico narcisista (come ogni avvocato del resto) decide di istituire un fittizio gruppo di studio per avere una chance con Britta (Jillian Jacobs). L’idea, però, viene presa seriamente e così Winger finisce con l’attirare a sé, con sommo dispiacere, un gruppo di disadattati, tutti bloccati al Greendale come lui.

Tra questi, la sopra citata Britta che, dopo aver abbandonato gli studi per “cambiare il mondo”, si ritrova verso i trent’anni senza competenze e obiettivi. Ritenuta una guastafeste per i suoi slanci moralistici da attivismo politico militante alternativo, rappresenta la voce della ragione, il super io del gruppo e spesso la figura materna. In realtà risulta un personaggio molto buffo per i suoi modi insensatamente esasperati e goffi. 

Si aggiungono Shirley Bennette (Yvette Nicole Brown), casalinga afroamericana, cristiana  iperreligiosa fino al bigottismo, divorziata con figli, in cerca di riscatto, tenta di diventare imprenditrice; Annie Edison (Alison Brie), diciannovenne ebrea, perfezionista del tipo ossessivo-compulsivo, con alle spalle una dipendenza da Adderal e un esaurimento nervoso; Troy Barnes (Donald Glover), afroamericano, testimone di Geova, appena uscito dal liceo, ex star del football, sport che abbandona per un infortunio; Pierce Hawthorne, l’anzianotto bianco, razzista, misogino, alla ricerca di accettazione e comprensione, capace talvolta di riflessioni sorprendentemente sagge; ed infine il mezzo polacco  e mezzo arabo  Abed, il nostro personaggio metatelevisivo, conscio di vivere in una serie, ponte tra questa e lo spettatore, amante del cinema e probabilmente affetto dalla sindrome di Asperger.

A ruotare intorno al gruppo, oltre a personaggi minori, l’inetto rettore Dean Pelton (Jim Rash), personaggio sopra le righe genderfluid, la cui inadeguatezza è pari solo all’amore che nutre per la scuola e gli studenti. E poi Ben Chang (Ken Jeong), l’insegnante di Spagnolo (sì, un professore cinese di spagnolo, non siate così sorpresi: è da razzisti!), una figura in bilico tra l’insanità mentale e il puro genio.

Questi personaggi saranno pure dei perdenti, degli outsider, ma ci sono sempre l’uno per l’altro, sebbene siano evidenti le differenze e le diffidenze che serpeggiano tra i banchi. Spesso sparlano fra loro e si mal sopportano, talvolta si odiano. Vero è, però, che si può odiare veramente solo una persona che si conosce bene e che vi permette di avvicinarvi a tal punto da conoscere i mostri che la animano. E per essere così vicini da odiare una persona dovete amarla, perché soltanto amandola riuscite a stare, nonostante tutto, al suo fianco, lì vicino, da dove potete vedere quei difetti. E questo fa la differenza. Rimanere accanto alle persone fa la differenza tra un gruppo di studio e una famiglia, tra un gruppo di studio e una vera comunità

Strutturalmente, niente in Community è fuori posto. L’architettura della sceneggiatura è semplicemente impeccabile, ricordare che l’autore è Dan Harmon (Rick e Morty) accompagna solo. Sì, forse alcuni episodi, come dichiarano i personaggi stessi nelle puntate, sono sottotono. Riflettendoci, però, già solo il dichiarato momento metatelevisivo è sufficiente a riportare tutto su di un piano che incastra alla perfezione ogni singola scena, battuta, episodio, dando un senso anche a quelli meno entusiasmanti. E la serie torna a risuonare di genio. 
Sono proprio gli autoreferenziali «oh no ecco la puntata a scarso budget», il ripetuto «6 stagioni e un film» e la rottura della quarta parete e delle dinamiche televisive a mandare in sollucchero lo spettatore fanatico.

Si aggiungano le puntate speciali; il citazionismo sfrenato cinematografico, televisivo e pop; la forma, il genere e lo stile che trascendono i codici mutando continuamente dal serial all’animazione in stop motion, al western, alla soap, allo sci-fi...; ma è soprattutto "l’epicizzazione dell’ordinarietà", la rivendicazione del più banale o anche imbarazzante gesto elevato alla stregua di eroiche e seducenti azioni a coinvolgere e appassionare il pubblico, anche il meno esperto. E così una battaglia con i cuscini si trasforma in una storica guerra degna di un documentario oppure un compito di biologia diventa una crime story.

Tutti vorremmo rendere i nostri piccoli gesti quotidiani degni di essere narrati come fossero cronache epiche. Spesso non ci accorgiamo di quanto sia speciale l’ordinarietà di certi momenti o non sappiamo coglierne veramente l’essenza spettacolare, perchè ormai privi di fantasia. Questo è un tema che spesso viene portato a galla dalle surreali idee dei personaggi, in particolare di Abed: lo scontro titanico tra infantilità/fantasia e maturità/grigia stasi mentale. I temi in realtà sono troppi per essere elencati: dal classico scontro tra es e super io, al superamento dei pregiudizi, al riconoscimento delle proprie fragilità e limiti….

Non si empatizza timidamente con i personaggi, li si ama, li si vive e in realtà è come se li si conoscesse da sempre: voi siete lì con loro, su quel tavolo, su quella sedia vuota, perché in realtà è il posto dello spettatore. Siete compagni di studio, di disavventure e anche voi fate parte della comunità: un senso di inclusività vi avvolge così come pervade tutta la serie. Inclusività e senso del gruppo mai banali e scontati, spesso messi a rischio da egoismi, pregiudizi e opportunismi, da tutte le incoerenze che nel piccolo rispecchiano la nostra società. E nonostante le individualistiche forze centripete, vi troverete in un insieme di persone che si sforzano incessantemente di rimanere unite per sè e per l’altro; perché nessuno ha mai detto che è facile stare al fianco di qualcuno, ma è proprio questo sforzo che vi trasforma in comunità. E solo allora, come dichiara Jeff nella prima, e circolarmente, nell’ultima puntata, avrete «smesso di essere un gruppo di studio, e siete diventati qualcosa di inarrestabile: io vi dichiaro ufficialmente una community»

Ma non vi preoccupate, non è una serie buonista, il sarcasmo e il cinismo accompagnano il tutto così come flaws e ghost accompagnano costantemente i protagonisti, presentati come tipi piatti stereotipizzati, pronti col tempo ad essere decostruiti e migliorati. 

E si ride, reazione scontata per una comedy, ma che è raro raggiungere sinceramente. Tutto grazie ai momenti no-sense, alle gag comiche vecchia e nuova scuola e ad una buona dose di quel politicamente scorretto che nell’irriverenza mette a nudo le ipocrisie umane, pur comunque rimanendo inclusivo. Avrete spesso brevi moti di vergogna per esservi sganasciati ridendo a squarciagola come dei folli in metropolitana, il consiglio è di aspettare il ritorno a casa, ma è comprensibile l’addiction che vi spingerà ad usare lo smartphone per la visione della serie anche nei momenti meno appropriati. Rilassatevi e godetevi appieno il momento di ilarità, tanto la vergogna lascerà presto spazio ad un rivendicato senso di libertà di essere imbarazzanti anche in pubblico, side-effect delle puntate che vi dis-educano alle convenzioni borghesi del vivere in comunità.
E si piange, qualche lacrima la si versa sempre in una buona sit-com, ma questo ce lo aveva già insegnato Scrubs, prima ancora Friends e se andiamo a ritroso non finiamo più.

Community è quel tipo di serie amata molto da sceneggiatori, cinefili, fanatici delle sit-com e della cultura pop. Una particolarità che nel corso degli anni la ha, forse, portata a non essere  compresa dal grande pubblico della televisione, con difficoltà di produzione e una stentatissima sesta stagione. Sei stagioni, cinque prodotte dalla NBC e una salvata in extremis da Yahoo, conclusasi nel 2015. Forse il pubblico non era pronto, ma adesso che è da poco approdata su Netflix, forse, il nuovo audience -quello dello streaming- le darà finalmente giustizia. Community, del resto, è il perfetto prodotto per lo streaming, la serie perfetta per il binge-watching, sia che la stiate guardando per la prima o per la settima volta in loop.

La speranza è quindi che aumentino le fila di quei fan che spingono per l’uscita del film conclusivo. Infondo, alcune trame si devono ancora chiudere e Abed è dalla seconda stagione che negli episodi ripete il mantra «6 stagioni e un film» e noi ci crediamo.

Sara Moscagiuri  23/04/2020

Sulle note dei Righeira che cantavano “Sto diventano grande, lo sai che non mi va”, Lettieri ci trascina immediatamente nella vita di un gruppo di uomini più e meno giovani mossi dagli stessi obiettivi. Uomini cui la propria esistenza, forse, non muterà mai.
Il primo impatto con una realtà secolare che pare abitare Napoli da sempre. Sono intoccabili, immutabili ed inafferrabili devoti alla maglia e ai colori, ecco gli Ultras.
Il punto d’arrivo sono gli spalti, ma cosa c’è prima? Una religiosa preparazione alle giornate di campionato, come una messa solenne dove alle 15:00 di ogni domenica si recita il rosario.
La partita è l’appuntamento della settimana, il più importante e come il terzo comandamento rammenta “di santificare le feste” allo stesso modo la domenica del calcio va onorata.
Gli Ultras riservano ai più giovani un trattamento simile a quello degli spartani per i propri figli. La crescita e la formazione di un nuovo e valido esercito è significativa e va curata sin dalla più giovane età, proprio come il rispetto per la gerarchia.
La scrittura di Peppe Fiore esalta gli equilibri del gruppo che conservano un sapore primitivo e tribale, supportati da un cast in cui ognuno possiede una dimensione ben precisa. Sono soldati meticolosi, dalla precisione accademica pronti a progettare senza sosta striscioni e coreografie. Il tempo della vita è scandito dalle giornate di campionato e allora ogni tanto ci si domanda, quando ci riflettiamo nei volti disincantati degli adolescenti, cosa succederà per loro alla fine della stagione calcistica e da cosa sarà acceso il domani.
Il racconto di queste esistenze, che sembrano viaggiare solo per giungere ad un vicolo cieco, si articola su due diverse linee temporali e parallele: la nuova e la vecchia guardia del gruppo ultras. Ultras 01jpg
Quando finirà l’antico potere? Difficile stabilire i confini delle delicate supremazie; il patto di fratellanza è troppo potente e le loro vite, prima fra tutti quella di Alessandro (il Mohicano), sono letteralmente incastrate con quelle degli altri compagni. Sono un domino che non può essere toccato, una catena di montaggio dove ognuno è indispensabile all’altro. «Un ultras da solo non vale un cazzo, il gruppo fa la differenza.», questo è il credo di Sandro, diffidato ma ancora a capo degli Apache.
La consecutio della pellicola in modo chiaro ma non semplicistico vede snodarsi sullo sfondo di Napoli una tra le sue infinite realtà: il credo calcistico fedele e solido.
A partire dalle metà del film si impone un racconto dicotomico: Sandro tenta faticosamente di uscire dalla realtà degli ultras mentre il giovane Angelo fa di tutto per essere coinvolto nelle azioni pericolose. Questo specchio continuo produce molti interrogativi per Sandro, l’uomo si rende conto di aver bisogno di una svolta che prenderà il nome di Terry.
I volti segnati degli ultras, autentici, stanchi e sfruttati dalle vite disgraziate e dalla droga compongono assieme agli scorci napoletani dei quadri significativi, tra il presente e il passato di una città unica nel suo genere come la sua gente.
Il regista Francesco Lettieri, al suo primo lungometraggio, è un meticoloso costruttore dell’immagine e ce la consegna all’ennesima potenza. Sul lungo periodo della pellicola dimostra di saper elaborare un racconto più esteso rispetto alle sue narrazioni solite di videoclip musicali.
I colori freddi sono incorniciati da una colonna sonora elettronica curata dall’artista dal volto ignoto: Liberato. Il calore di Napoli è trasformato da Lettieri in un ferro freddo di cui possiamo quasi percepirne la durezza.
In Ultras si cerca di non abbassare mai la guardia per renderci continuamente partecipi e vedere cosa accade dall’interno. Scoprire l’approccio dei “nuovi” per svelarci che, in fin dei conti, non è cambiato niente.
Ultras narra un’altra faccia di Napoli: spigolosa, gelida e ostinata come il mare profondo che ci congeda alla fine del film.
Dimentichiamo presto lo stadio e i campi da calcio per lasciare spazio alle dinamiche umane delle tifoserie organizzate, tentando di capire mentalità replicate che sembrano non esser state intaccate dal tempo.
L’immagine è largamente diluita e tenta di vincere rispetto alla parola, rigorosamente in dialetto. Un lungometraggio dai ripetuti tratti documentaristici narra la genuinità e la disperazione, fornendo la possibilità di accedere alla visione di in un microcosmo a sé stante.
Ultras è una produzione italiana e originale Netflix disponibile dal 20 marzo sulla piattaforma.

Arianna Sacchinelli
20-03-2020



Questo sembra proprio essere l’anno della Corea. E non che ci fosse bisogno della pur meritatissima incetta fatta agli Oscar da Bong Joon-ho per riconoscerne l’enorme patrimonio culturale. Kingdom, serial coreano scritto da Kim Eun-hee e diretto da Kim Seong-hun, rinnovato già di una seconda stagione dal 13 marzo disponibile su Netflix, è la dimostrazione di un prodotto nato ai margini delle auree kermesse ma che vive e prolifera dal 25 gennaio dello scorso anno nello spazio produttivo sempre più corposo che la piattaforma va via via destinando alle cinematografie nazionali, nel tentativo di dare un maggior respiro ai prodotti non anglofoni.
Il sole sorge sul Sangju dove avevamo lasciato il principe ereditario e i suoi seguaci asserragliati su una fragile roccaforte e impegnati in una strenua difesa del regno dalle orde di contadini del Dongnae affetti da un virus che li aveva trasformati in zombie.
Il fatto è che anche i morti viventi hanno visto l’alba: quelli con cui combatte il principe Chang sono veloci e non temono la luce del sole, pare non abbiano talloni d’Achille, o almeno questo si crede prima che gli studi che la dottoressa Seo Bi conduce parallelamente sulla pianta della resurrezione, causa primaria della pandemia, non diano prova del contrario.
E intanto fiotti di sangue schizzano sullo schermo, come a volerci insozzare di quei liquidi corporei e di quella putrescenza che facevano da contorno alle altre storie di parassiti, scarafaggi e lerci seminterrati raccontateci da Bong Joon-ho. Allora, nel Medioevo della dinastia Joseon in cui si sviluppa la vicenda di Kingdom, come oggi, nella Corea di Parasite: racconti di potere e di classi sociali invalicabili, e la fame, che dai contadini del Dongnae cavalca secoli di storia e che, come una memoria atavica, raggiunge il sottoproletariato urbano del vischioso quartiere di Ki-taek, assumendo ancora i tratti ripugnanti di un morbo che si propaga. image asset
L’imperatore, padre di Chang, anch’egli segretamente trasformatosi in un non morto e tenuto legato ad un baldacchino circondato da incensi per coprire il fetore di carne marcia, era stato occultato alla vista del popolo per molto tempo con la scusa del vaiolo. La sua vita, che restava comunque necessaria per scongiurare la rivendicazione del di lui legittimo erede, viene stroncata proprio dal figlio costretto a difendersi dalla furia famelica in un incontro con ciò che del genitore era rimasto. E ora, il principe Chang, è più che mai consapevole di combattere un virus che si dipana su due fronti, non solo quello rappresentato dal popolo progressivamente cannibalizzatosi, ma anche quello che serpeggia fra l’élite godereccia al governo, incarnato dalla luciferina imperatrice e dal clan Hak-jo a cui appartiene, affetti non dalla stessa fame del loro popolo, ma di una parimenti mostruosa. Una strage degli innocenti si consuma fra gli shoji che dividono le stanze degli eleganti appartamenti reali, frutto della follia accentratrice della regina Cho Beom-il lanciatasi nella ricerca disperata, fra le partorienti popolane, di un neonato maschio al fine di preservare la discendenza legittima a discapito di Chang, figlio “bastardo” del re. 
La componente action dell’horror e al rigore storico del quale vive questo dramma in costume, si miscela così alla serratezza del thriller politico con la quale anche Joon-ho raccontava dei suoi scheletri nel seminterrato. In entrambi i casi il potere ha un volto noto, “sono gentili perché sono ricchi”, ribatteva mordace Kim Chung-sook in Parasite mentre la sua intera famiglia si “borghesizzava” per mascherarsi ed assomigliare allo status symbol; e invece Chang, che sin dalla prima stagione pareva insofferente all’etichetta che il suo ruolo gl’imponeva, si toglie il kat e l’hambok di cui si veste la corruzione, per indossare un umile completo di canapa col quale combattere per ciò che è giusto e ciò che è necessario accanto ai pochi seguaci e amici perennemente imbrattati di sangue. L’umanità del principe, bastardo e ora anche parricida e per questo non meno colpevole per la corona del resto dei suoi sedicenti legittimi titolari, spende di una candida purezza se si guarda al momento abbacinante dell’assalto degli zombie al palazzo reale che adesso non è più trincea, ma nuovo fronte.
Il piano d’isteria assolutista di Cho Beom-il non contempla assoggettamenti né reclamazioni; così, liberatasi prima del padre e capo del clan Cho Hak-Ju, dà ordine che alcune delle creature usate come oggetti di studio vengano liberate dalle prigioni reali al fine di impedire a Chang di deporla e rovesciare il governo. Le porte verso il potere si aprono, così, perché l’esodo di morte invada la corte, se ne cibi e la trasformi a sua volta in altra morte, fino a quando anche l’ultimo varco, quello dietro il quale si è trincerata la regina col neonato strappato ad un’altra madre, non sarà caduto. Cho Beom-il, arroccata sul suo trono mentre il mondo appena fuori conosce la più tetra devastazione, si lascia fagocitare dalle orde di non-morti in un estremo gesto di cieca avidità, proprio come i disperati tentativi di sabotaggio dei Kim al personale di casa Park, sgomitate di cupidigia di altri morti di fame.

Gabriella Longo

Giovedì, 12 Marzo 2020 18:56

Netflix: quali serie (ri)guardare

“Io resto a casa”: ecco il nome che il premier Giuseppe Conte ha scelto per il nuovo decreto emanato per fronteggiare il Coronavirus, in vigore dal 10 marzo al 3 aprile su tutto il territorio italiano. Non è un obbligo, ma un monito, da seguire, rispettando le misure già attive in precedenza in Lombardia e in altre 14 province, per contenere il contagio del Coronavirus.

Restare a casa è un gesto di responsabilità e un piccolo, grande sacrificio del singolo per la salute dell’intera collettività, soprattutto per i soggetti più a rischio, in modo che si possa ritornare alla normalità il prima possibile. Ieri sera, 11 marzo, un altro decreto di Conte ha reso le misure ancora più restrittive, chiudendo la maggior parte delle attività commerciali.

Restare a casa, anche lontano dalla famiglia, dai parenti e dagli amici non è uno sforzo banale, assolutamente. Mette alla prova, soprattutto giovani e meno giovani che abitano a chilometri di distanza rispetto ai loro affetti. Può essere tuttavia un’occasione per sfogliare vecchi libri impolverati,lasciati abbandonati su un comodino, o per recuperare film e serie TV, sconfiggendo i fantasmi della solitudine e della noia e riuscendo ad arricchire il bagaglio culturale e cinematografico.
Ecco alcuni suggerimenti per trascorrere le giornate e le serate con più leggerezza grazie all’ausilio della piattaforma Netflix.

Sit-com. Alcune serie TV sono dei sempreverdi, come Friends e How I met your mother. Dieci stagioni la prima e nove la seconda, le due sit-com seguono entrambe le avventure di un gruppo di amici di New York. Alcuni meccanismi sono simili, ma ogni puntata regala risate assicurate e a volte qualche lacrima. Friends racconta le situazioni tragicomiche di sei amici che adorano radunarsi in una caffetteria, in How I met your mother il punto di ritrovo dei personaggi è invece un Irish Pub. Il protagonista Ted Mosby (Josh Radnor) racconta ai propri figli la serie intrugliata di eventi che lo hanno portato a conoscere loro madre, ricordando la spensierata prima età adulta e le variopinte avventure vissuto con il suo forte gruppo di amici: l’amata Robin, la storica coppia Lily-Marshall e lo scapolo Barney.

Made in UK. The End of the F***ing World e Sex Education, entrambe di due stagioni, particolarmente vicini ai teenager. Se nella prima la protagonista è una coppia di ragazzi non ordinari, che attraversano e superano una serie di sfortunati eventi e sfide che la vita mette davanti loro, il tutto sottolineato da un cinico british humor, nella seconda vengono trattati con leggerezza tabù legati al mondo del sesso nell’adolescenza e anche argomenti delicati, quali la violenza sulle donne, l’asessualità, la bisessualità, l’omofobia e il bullismo. Due serie TV con un cast giovane, ma per un pubblico anche meno giovane.

Made in Spain. Dalla penisola iberica invece provengono due titoli: Élite e La casa di cartaÉlite racconta le vicende travagliate di un gruppo di adolescenti dell'alta borghesia spagnola, le vite lussuose dei quali sono segnate da un omicidio avvenuto all'interno della scuola privata che frequentano. Per gli amanti delle teen drama series e del genere thriller. La serie affronta anche argomenti delicati, quali la lotta di classe, la discriminazione, il cyberbullismo e le difficoltà relazionali vecchia-nuova generazione. Consigliata, soprattutto perché domani, venerdì 13 marzo, è in arrivo la terza stagione. Sempre spagnola è La casa di carta, che è stata una delle serie TV più seguita degli ultimi anni. Un gruppo di criminali compie un colpo alla zecca dello stato spagnola. Giochi di potere, crimine, giustizia e anche un tocco di sentimentalismo colorano le tre stagioni. In arrivo, tra una ventina di giorni, la quarta stagione.

Immancabili poi Breaking Bad e Bojack Horseman, i protagonisti delle quali sono personaggi terribilmente complessi e tragici, che lasciano lo spettatore attaccato allo schermo e smuovono forte empatia in certi momenti.

Breaking Bad, per chi non l'avesse mai vista, vanta l'interpretazione magistrale di Bryain Cranston nei panni di un insegnante di chimica di Albuquerque (New Mexico), Walter Whitman, che scopre di avere un cancro ai polmoni. Decide di iniziare a cucinare cristalli di metanfetamina con un suo ex allievo, Jesse Pinkman (Aaron Paul), in modo da lasciare alla propria famiglia abbastanza soldi. Come se non bastasse, il cognato di Walt è un agente della DEA. Breaking Bad è l'ascesa, l'apoteosi e il declino di un uomo, che ha appassionato milioni di spettatori in tutto il mondo. Nel 2013 il Guinness World Records l’ha eletta la serie TV con il più alto punteggio mai ottenuto, facendo riferimento alla quinta stagione (secondo Metacritic, 99/100). Inoltre, sempre su Netflix, è presente sia lo spin-off di Breaking Bad, ossia Better Call Saul, che segue le vicissitudini dell’avvocato di Walter White, Jimmy McGill/Saul Goodman, interpretato da Bob Odenkirk, e il sequel, El Camino, con protagonista Jesse.

Bojack Horseman è il ritratto equino delle fragilità umane.
La serie animata con protagonisti animali antropomorfi accende i riflettori sul lato oscuro delle celebrità hollywoodiane e sulle debolezze dei comuni mortali.
Los Angeles. Bojack è un cavallo antropomorfo, attore di successo negli anni 90 di una popolare sit-com, che spera, raggiunti i cinquant'anni, di ritornare alla fama grazie a un'autobiografia, scritta con l'aiuto della ghostwriter Diane.
Schietta, cinica e provocatoria racconta i retroscena dello star system, dall'abuso di alcol e droga alla depressione, riuscendo tuttavia a strappare sorrisi agrodolci, servendosi di un protagonista equino fragile, umano, troppo umano, sulla via esistenzialista della redenzione.

Consigliatissima anche Il Metodo Komisky, la storia della quotidianità di due vecchietti di Hollywood: un rinomato insegnante di recitazione, con alle spalle "solo" tre divorzi, che non è riuscito a sfondare come star di successo, Sandy Komisky, e Norman Newlander, agente appena rimasto vedovo, interpretati rispettivamente dal grande Michael Douglas e Alan Arkin. Se la prostata dà problemi, l'amicizia diventa un sentimento ancora più solido coi capelli grigi. Un humor sottile, incalzante e tragicomico, scandito dai segni del tempo, scandisce due stagioni, composte da episodi da 20 minuti.

Infine, per gli amanti del genere paranormale, saporito da un pizzico di black humor, Netflix offre Le terrificanti avventure di Sabrina e I-Zombie.

Sabrina Spellman è una strega adolescente che vive a Greendale, allevata dalle due zie llda e Zelda. Il personaggio di Sabrina è stato creato negli anni 60 da Nell Scovell per una serie a fumetti, da cui sono stati tratti film, la serie televisiva per adolescenti Sabrina, vita da strega e svariati cartoni animati. Netflix ne ha partorito la versione dark.

Protagonista di I-Zombie è Olivia Moore,soprannominata Liv, una studentessa modello di medicina a Seattle, che viene trasformata in zombie durante una festa. Per potersi nutrire di cervelli e al contempo restare il più umana possibile, inizia a lavorare presso un centro d medicina legale, in modo da poter avere accesso ai corpi dei defunti. Nutrendosi dei loro cervelli, si rende conto di acquisire i loro ricordi e le loro abilità. Questo fatto le permette di aiutare l’investigatore Babineaux, fingendosi sensitiva, e cercare di far luce sull’attacco zombie subito, con l’aiuto del collega e amico Ravi Chakrabarti.
La serie TV è paradossale, un mix di horror, fantasy, tragicommedia e genere poliziesco.

In arrivo su Netflix lunedì 23 marzo Freud, ambientata nel 1886 a Vienna, che narra le indagini del giovane fondatore della psicoanalisi, una medium e un ispettore membro della polizia viennese e veterano di guerra. La serie TV austriaca è una versione romanzata dei primi passi di Sigmund Freud, alle prese con un serial killer.
Da domani, oltre alla terza stagione di Élite, anche un nuovo anime drammatico-fantasy: Beastars. In un mondo in cui animali di ogni genere convivono, un lupo dall’animo gentile vede i suoi istinti risvegliarsi, dopo che la sua scuola diventa il tetro teatro di un omicidio.

Queste sono solamente alcuni suggerimenti delle serie TV da guardare, riguardare e aspettare su Netflix.

Restare, resistere all’interno di quattro mura è un piccolo, grande sacrificio necessario. L’uomo è un animale sociale, ma è il momento di compiere un passo indietro, per poterne fare altrettanti avanti, di corsa, a braccia aperte, il prima possibile, tenendo a mente la drammatica situazione odierna della salute collettiva e gli incomparabili sforzi di medici, infermieri e altri operatori sanitari.

Serie TV, film, libri, fumetti, radio, musica e social sono strumenti fondamentali per restare a casa. Restare connessi, a livello umano e culturale, pur essendo distanti.

Camilla Giordano, 12/03/2020

 

Il vampiro più famoso della cinematografia moderna, il conte Dracula, nato dalla mente e dalla penna del visionario Bram Stoker, arriva anche sulla nota piattaforma streaming Netflix. Al timone della serie, ci sono due nomi degni di nota, Steven Moffatt e Mark Gatiss che già hanno sorpreso il pubblico con Sherlock e Jekyll. Si dice che squadra che vince non si cambia, ed infatti i due registi ripropongono in questa mini serie la fortunata formula che già li pose sotto le luci della ribalta con Sherlock: tre lunghi episodi che possono essere considerati quasi dei film a sé stanti da un ora e mezza ciascuno, liberamente ispirati all'opera di Stoker.

Se da un lato, infatti, riprendono la sua opera ed i suoi personaggi, dall'altro vengono completamente stravolti. Senza dubbio, i più importanti sono il conte (Claes Bang) e suor Agatha (Dolly Wells), due personaggi il cui contrasto costituisce l'impalcatura narrativa di tutta la serie, che non si scontrano mai a livello fisico: il loro scontro è, tutto sul piano mentale, un inseguirsi di ragionamenti che li rende incredibilmente intriganti anche grazie alla loro caratterizzazione precisa che viene, puntata dopo puntata, sviluppata ed analizzata in ogni sfaccettatura. Accanto a loro, si sviluppa la storia del giovane avvocato Harker, che fungerà da voce narrante per la lunga parte introduttiva, in cui i due registi sembrano omaggiare il Dracula originale come mostro assetato di sangue i cui colori si alternano ora tra il rosso del sangue, ora il nero della notte senza stelle.

E' solo verso la fine della prima puntata che la serie prende una piega diversa e più audace, quando gli autori decidono di rivisitare la letteratura su Dracula e spalancare le porte ad una nuova prospettiva sul vampiro. Un progetto audace, quello di raccontare una storia nuova, ma pericoloso. Apprezzabilissime le citazioni e rimandi al Mondo di Tenebra, il fortunato universo narrativo prodotto da casa White Wolf, con un occhio di riguardo soprattutto per il gioco Vampire la Masquerade. Impossibile inquadrare la serie in un genere preciso, per via dei molti cambi di direzione imposti dagli autori, mescolando l'horror, che però funge da cornice per tutte e tre le puntate, condito da un'ironia pungente e sadica che resta sempre presente e tuttavia gradevole, al genere investigativo e introspettivo, anche grazie ad un sapiente uso delle inquadrature e della fotografia, sempre perfetta: in alcune scene, i personaggi potrebbero anche fare a meno di parlare, per quanto potente essa sia, comunicando comunque il messaggio proposto dai registi allo spettatore.

Purtroppo, la serie perde molto nel suo terzo atto finale, in cui solo l'ironia, lascito dei primi due episodi, resta apprezzabile. Dracula viene messo di fronte alle sue ragioni che però non trovano una seppur piccola giustificazione narrativa e il finale lascia lo spettatore stupito ed imbarazzato. In quest'ultima puntata i due autori mettono troppa carne al fuoco che non viene esplorata a dovere, scelta forse dettata dalla troppa fretta di concludere una serie fino ad allora ben riuscita e il cambiamento rispetto alle due puntate precedenti risulta eccessivamente brusco, sprecando, da questo punto di vista, un'occasione d'oro che fino a quel momento era stata magnificamente portata avanti e risultava in un'affascinante rivisitazione di Dracula, finalmente visto sotto tutta un'altra luce.

Alessandro Perri

David Lynch, entra nel raggio visivo d’una mdp fissa su un tavolo e due sedie in una non ben identificata stazione ferroviaria. Il bianco e nero ci riporta immediatamente ai tempi di Ereaserhead, e la simulazione di uno schermo filigranato, ad un vecchio film anni Quaranta. “You know anything about birds, jack?”, chiede il regista e attore al suo interlocutore, un piccolo primate seduto difronte a lui. Niente di nuovo su quel fronte, Jack si aggiunge al vasto bestiario lynchano, con quella sua inquietante bocca umana sovrapposta al viso irsuto tramite un sistema di effetti visivi, e in cui ritroviamo tutto l’amore “malincomico” del regista per il mondo dei freaks.
What did Jack do?, scritto, diretto e interpretato da David Lynch, è un cortometraggio prodotto nel 2016 da Fondation Cartier in occasione del lancio di un libro fotografico sul regista. Netflix lo salva dalla damnatio memoriae, e lo inserisce nella coda dei prodotti d’autore dei quali si va arricchendo il suo catalogo. Riconosciuta immediatamente familiare l’estetica del genio dell’onirico, la diegesi imbrocca, invece, una strada sorprendentemente lineare, atta a fare luce su quelle prime domande bestiali: Jack è il principale indiziato di un delitto a movente passionale, e Lynch è lì per interrogarlo, nelle vesti di un elegante detective. What did Jack do? è il focus sul momento migliore di un’indagine, quello consumato nell’intimità del vis à vis fra potenziale colpevole e investigatore, fra i quali si mette in moto la macchina del linguaggio, della dialettica tensiva che oscilla continuamente fra la costruzione dell’alibi e della sua immediata distruzione e che scopre le carte migliori degli attanti. Per i diciassette minuti di durata del cortometraggio, la scena è popolata da due personaggi rubati ad un dramma di Beckett o Ionesco, impossibilitati a muoversi per una qualche ragione (Jack sarebbe potuto andare via, ma i treni sono stati bloccati per permettere il decorso delle indagini), monchi, manchevoli di una parte del corpo fondamentale alla deambulazione, e per questo costretti a veicolare la narrazione mediante il solo utilizzo della parola, mentre fuori dalla scatola in cui sono costretti, c’è quasi sempre un’apocalisse imminente o appena scampata.
Il dialogo procede serrato, le inquadrature secche, fra campi e controcampi, omaggianti il noir, plongée di wellesiana memoria, che a loro volta si rifacevano alla distorsione spaziale dell’espressionismo tedesco. Del noir classico, si rinvengono tutti gli stilemi e gli archetipi: c’è il detective, c’è il braccato, e c’è persino la femme fatale, che ironia della sorte, è qui diventata la gallina Tootatabon, contesa fra Jack, un certo scimmione Shelby, e Max Clegg, perito sotto i colpi di un’arma da fuoco. Le domande dell’investigatore si fanno sempre più incalzanti, e come se non bastasse lo straniamento prodotto dalla conversazione con la creatura antropomorfa, l’ironia, che s’insinua continuamente fra gli spazi di questo dramma dell’assurdo, è un ulteriore agente raffreddante: “Be a man Jack,and tell me about her”. unnamed
Fanno capolino, come in un compendio sull’ultima fase della sua carriera, i grandi feticci del regista, come quel “damn good coffee”, ampiamente abusato da Dale Cooper (Twin Peaks) e qui portato a Jack da una cameriera del diner, erotizzato dal primo piano sulla tazza fumante. E poi torna lo show, commento decadente del plot, ch’è la cifra di ogni loggia lynchana (e Blue Velvet è solo un esempio), questa volta riproposto da un intermezzo cabarettistico che devia per pochi minuti la narrazione e che vede Jack esibirsi in una malinconica canzone per dimostrare al detective il suo amore nei confronti di Tootatabon. Quello di Lynch è un gioco, con la macchina da presa, con gli stili cinematografici, con le potenzialità del racconto, un divertissement ch’è fatto della stessa sostanza dei sogni, come disse Humphrey Bogart nei panni del detective Sam Spade (Il Mistero del Falco) al quale Lynch, seduto nella sua poltrona e avvolto nel fumo delle sue troppe sigarette, sembra assomigliare inesorabilmente.

Gabriella Longo

Dopo il fortunatissimo esordio seriale, Spike Lee da maggio è tornato su Netflix con la seconda stagione di She’s Gotta Have It, produzione originale che riprende i protagonisti e le vicende della sua omonima opera prima di Lee del 1986, riadattandoli al contesto della Brooklyn contemporanea.

Già con la prima stagione Lee, che rimane l’unico regista di ogni puntata, era riuscito a ricostruire psicologie dei personaggi molto più profonde e articolate rispetto al lungometraggio, ponendo maggiormente l’attenzione sulle rivendicazioni identitarie e di genere della sua Nola Darling, interpretata da DeWanda Wise. L’obiettivo e l’ambizione di She’s Gotta Have It si dimostrano comunque molto più elevati in questa seconda stagione, più esposta e militante dal punto di vista culturale e politico e, di conseguenza, più didascalia e a tratti persino più complessa e ostica per un pubblico generalista.

La prima e più evidente differenza, in questi nuovi nove episodi, è il ridimensionamento della presenza maschile: Jamie, Greer e Mars, gli ex tre amanti di Nola, riappaiono come delle vecchie conoscenze, ognuno nel separato tentativo di rimettere in sesto la propria vita. Il fulcro della stagione non è più la triplice relazione e l’assoluta libertà sessuale e personale di Nola, quanto piuttosto la sua autoaffermazione.

I nuovi episodi ruotano infatti intorno alla crescita professionale e individuale della protagonista, trovando più di un’occasione per far riferimento alla reale comunità artistica afroamericana, che trova in questa serie una vetrina internazionale di tutto rispetto, dimostrando ancora una volta la stretta relazione che secondo Spike Lee intercorre fra la politica, l’arte, la cultura e la condizione sociale degli afroamericani.

È per questo motivo che nell’idea di messa in scena di Spike Lee, ogni creazione musicale, letteraria o visuale a cui si fa riferimento nella serie, merita un suo spazio preciso di riconoscibilità, anche se questo implica l’interruzione della narrazione. In altri termini, per esempio, ogni volta che risuona una canzone in colonna sonora, la copertina del singolo viene mostrata su fondo nero alla fine della scena, oppure ogni volta che Nola fa riferimento ai grandi nomi della cultura afroamericana, viene citato direttamente almeno un titolo o un brano delle opere più celebri, come accade con Zora Neale Hurston e i suoi romanzi come They’re Eyes Were Watching God o Barracoon. Soprattutto in questa seconda stagione, la continuità tradizionale degli eventi passa in secondo piano rispetto al valore culturale delle situazioni mostrate; molto rimane nel non detto, fra un’ellissi e l’altra, come se fosse più urgente e più necessario arrivare a raccontare solo i punti salienti che portano Nola alla sua rivelazione finale: la sua opera d’arte definitiva. 

L’autoritratto mostrato nell’ultimo episodio non a caso provoca sgomento e sofferenza nella sua comunità o persino disgusto fra gli amici esterni ad essa. È un’immagine che racchiude e concentra in sé, alla massima potenza, tutte le contraddizioni e i traumi irrisolti della società statunitense, soprattutto in materia di razzismo, supremazia bianca, relazioni interculturali e identità nazionale. Nel corso della serie si parla apertamente di Trump, di gentrificazione, di dominazione culturale, di integrazione e persino del rifiuto dell’integrazione stessa. Si arriva anche a dedicare un’intera puntata al cosiddetto cinquantunesimo stato della nazione, Porto Rico, con un interessante viaggio culturale che inoltre permette a Spike Lee un perfetto autocitazionismo, grazie alla partecipazione straordinaria della sua Rosie Perez a trent’anni esatti da Do The Right Thing.

Tutto ciò però acquista senso in prospettiva del viaggio interiore che compie Nola, alla ricerca di un senso nella sua arte, per la sua gente. Lo stesso senso che, a suo modo, ricerca il regista con questa serie e con i film precedenti, costringendo lo spettatore, qualsiasi spettatore, a reagire e a elaborare un’opinione su ciò che viene mostrato, senza assorbirlo passivamente, ma senza obbligarlo comunque a rimanere allineato con la protagonista.

Nola Darling diventa l’alter ego di Spike Lee, in una visione che si può definire, senza timore, un manifesto estetico in cui ogni dettaglio ha sempre senso per la Black Culture, anche quando diventa straniante per uno spettatore sprovveduto. Fortunatamente, in questi casi, è sufficiente il fascino utopico e intrinseco della figura di Nola e della sua pura libertà dello spirito a trattenere un pubblico più vario possibile.

Valeria Verbaro 18/06/2019

«Fuggire da chi sei è dura. Soprattutto se sei zoppo». Ryan Kayes è un ragazzo gay affetto da paralisi cerebrale, una disabilità dovuta a danni al cervello subiti prima, durante o poco dopo la nascita, che porta alla mancanza di coordinamento muscolare. Di lui racconta “Special”, la nuova serie Netflix 2019 scritta, co-diretta (insieme a Anna Dokoza) e interpretata da Ryan O'Connell, che ne ha scritto la sceneggiatura seriale a partire dal suo libro memoir "I'm Special: And Other Lies We Tell Ourselves", pubblicato nel 2015 da Simon and Schuster, e che ha attirato l'attenzione di Jim Parsons (Big Bang Theory), produttore esecutivo della serie.

Ryan, a poco più di vent'anni – nella finzione come nella vita vera – si sente in un limbo: non è sufficientemente normodotato da frequentare il mondo dei “normali” (e nemmeno Grindr), né invalido a tal punto da poter passare il tempo con altri disabili più gravi. «È dura la vita di uno storpio», dice, sconsolato, nella prima puntata, dopo aver incontrato per strada un bambino che, vedendolo zoppicare, gli ha consigliato preoccupato di andare in ospedale. «La gente non capisce la tua disabilità. È la reazione al diverso», lo consola il suo fisioterapista.

Special

Tutti sanno che Ryan è gay ma pochi sanno della sua paralisi cerebrale (anche nota come PCI), che compromette la parte destra del suo corpo, e che lui vorrebbe “togliersi di dosso” a tutti i costi. Così, quando accidentalmente viene investito da un'auto, decide di riscrivere la sua identità: Ryan Rayes non zoppica perché è disabile, ma perché vittima di un incidente d'auto. Lo racconta nel suo articolo d'esordio su Eggwoke, il blog in cui lavora come stagista. Olivia (l'esilarante Marla Mindelle), la sua cinica direttrice dall'umorismo nero, obbliga i suoi scrittori a scrivere articoli che scavino il più possibile nella loro intimità, quelli che lei chiama «saggi confessionali», ossessionata dai contenuti virali e dalle visualizzazioni. La redazione di Eggwoke è popolata di casi umani sottopagati, tra cui spicca Kim, interpretata da Punam Patel, «una stronza che cambia il modo in cui parliamo del corpo femminile». Kim – donna nera e oversize – diventa molto presto una persona cruciale per la vita di Ryan, un esempio di accettazione di sé e body positivity, di resilienza e non-conformismo. E poi c'è Karen (Jessica Hecht), la mamma un po' svampita ma adorabile di Ryan, che ha passato la vita intera a fargli da badante, instaurando con lui un rapporto di dipendenza reciproca.
Arriva un momento in cui Ryan sente che è arrivato il momento di liberarsi dall'iperprotettività di sua madre per andare a vivere da solo e conquistare la sua indipendenza. Karen inizialmente non è convinta, ma questo decisivo passo le permette di smettere di spiare dalla finestra il suo affascinante vicino di casa per conoscerlo davvero. Soprattutto è l'opportunità di lasciare che sia qualcun altro a prendersi cura di lei: Phil è la prima persona a prepararle un toast al formaggio dopo decenni.

Non solo Ryan, anche gli altri personaggi raccontano bugie su sé stessi per sentirsi accettati. C'è Karen che per settimane tiene nascosto a Ryan il suo love affair con Phil, c'è Kim che ha costruito la sua facciata di ragazza ricca e alla moda ma, in verità, ha il conto in rosso. E poi ci sono le bugie che ci raccontiamo da soli, i pensieri negativi con cui alimentiamo la scarsa considerazione di noi stessi. Ryan non ama il suo corpo, odia la sua PCI, si sente uno sfigato e finisce sempre per credere che chi gli sta vicino lo faccia solo per compassione. Ma quando menti su te stesso, a te e agli altri, finisci per creare un sacco di problemi...

Special2

Ryan O'Connell, come il sé stesso della serie, ha affrontato la dura sfida di “uscire dall'armadio” per ben due volte. In un'intervista a Vulture, racconta che fare coming out come disabile è stato estremamente più difficile che farlo come gay. Potremmo definire Special una “serie di formazione”, il racconto dell'evoluzione di Ryan nella consapevolezza di sé e dei suoi desideri, della sua sessualità in quanto gay e disabile. «C'è così tanta ignoranza sulla disabilità, perché non c'è dialogo, non ci sono rappresentazioni positive dei disabili in TV», riflette O'Connell su Vulture. Anche il sesso gay è ancora scarsamente rappresentato o, nell'estremo opposto, tendenzialmente ispirato alla pornografia mainstream che ipersessualizza i corpi («è ormai dato per scontato che scopiamo come conigli»). La scena in cui Ryan perde la verginità con un sex worker – oltre a dare dignità alla categoria dei lavoratori sessuali – mostra un sesso umano, comunicativo e, soprattutto, realistico. Sembra che quando si vuole parlare di sesso nel cinema la scelta sia sempre e solo tra: fornire indizi, evocare molto lontanamente l'incontro tra corpi senza mostrarli, limitando le inquadrature a pezzi di pelle (viviamo ancora in un'epoca in cui i corpi nudi sono offensivi); oppure creare un prodotto di nicchia, o strettamente pornografico, che mostra un sesso integrale, ma meccanico, degradante, irrealistico. Contribuisce ad avvicinare il racconto alla realtà la scelta di far interpretare i personaggi gay uomini (che costituiscono la maggior parte dei personaggi maschili) da attori gay.

Special tratta temi difficili come disabilità, omosessualità e pregiudizio sociale, senza appesantirsi di drammaticità e vittimismo, ma sempre con un tono leggero e divertente. Tutti/e siamo insicuri, fragili di fronte al (pre)giudizio. Tutti/e abbiamo bisogno di essere spronati ad amarci per chi siamo.
Special celebra la diversità senza ghettizzarla: chiunque, indipendentemente dall'orientamento sessuale o dalla propria capacità ambulatoria, può identificarsi nella storia di Ryan. È questa, dopotutto, la modalità più efficace di arginare la discriminazione: stimolare la conversazione sugli “invisibili” della società invitando tutti/e a partecipare e a divertirsi. Aspettiamo la prossima stagione.

Sara Marrone, 06/05/2019

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