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Martedì, 29 Agosto 2017 06:40

Romeo e Giulietta non riescono a resuscitare

SANTA MARIA A MONTE – “Oh, che sarà, che sarà che vive nell'idea di questi amanti, che cantano i poeti più deliranti, che giurano i profeti ubriacati, che sta sul cammino dei mutilati e nella fantasia degli infelici, che sta nel dai-e-dai delle meretrici nel piano derelitto dei banditi”. (Ivano Fossati, “Che sarà”)

Dio è morto, Marx è morto, ma “Romeo e Giulietta stanno bene”. Potremmo parafrasare così il gigante Woody Allen, ossimorandolo, per immergerci nel nuovo testo dell'impegnatissimo Andreakaem2 Kaemmerle. Un testo che, a scanso di equivoci è doveroso riportare, si porta il peso addosso di un'estate lavorativamente faticosa tra l'organizzazione del festival di Volterra e Utopia del Buongusto, un grave lutto all'interno della compagnia Guascone Teatro e un infortunio al ginocchio occorso ad una delle attrici in scena, subendo, inevitabilmente, contraccolpi, sbilanciamenti, disequilibri, perdita di slancio e brillantezza, scivoloni e cadute. Diciamo che questo R&G non è nato sotto una buona stella. Altri recenti testi kaemmerliani ci avevano fatto gridare con veemenza e inneggiare giubilanti alla sua penna (secondo noi sottovalutata dall’establishment teatrale toscano che nei suoi confronti ha sempre storto il naso), al suo stare in scena con forza e grazia, al grande “mestiere” dell'attore fiorentino prestato a Bientina e Casciana Terme.
Piccoli onesti pamphlet portatori sani d’ironia, malinconia, malessere, voglia di vivere e allo stesso tempo carichi di quel vintage patinato, seppiato, rustico e ruvido che faceva sorridere e riflettere delle nostre crisi, delle nostre sciagure miserabili, del nostro essere così fragili e minuscoli in questa grande giostra che è la vita che non riusciamo mai né a capire né tanto meno a comprendere, pur sforzandoci, e fingendo, soprattutto con noi stessi, di esserne i motori, i padroni e proprietari decisionali, sapendo però, nel nostro intimo, di essere soltanto pedine, pedoni di cartapesta che verranno spazzati via dal tempo, dalla storia, del vorticare compulsivo dell'universo.
kaem0Ci ricordiamo “L'uomo tigre” che graffiava, “Lisciami” che carezzava, “Il tamburo sfondato” antibellico, “Vagoni vaganti” sul viaggio dentro e fuori di noi, “Odore di mare” traballante di onde e nostalgia; piccoli artigianali “capolavori” intimi che abbiamo avuto la fortuna di scoprire e gustare, vedere e assaggiare in queste appena passate notti d’estate utopiche. Non ci sentiamo di inserire l'ultima neonata opera in questa lista, certamente per i problemi contingenti emersi che ne hanno afflitto il difficile parto ma anche perché l’essenza drammaturgica, il nocciolo, la colonna vertebrale, pur partendo da un'idea solida, si è ben presto sfilacciata e sgretolata. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Andrea Kaemmerle funziona meglio nella fase monologante dove, solo in pista, ha tempi giusti, pause perfette, dove con i suoi guizzi controlla l'imponderabile e si lascia andare a piacimento portato dalla corrente delle parole, della platea e della sua gestualità franca. Le altre due figure in questo “Romeo e Giulietta”, appunto Giulietta e la “sposa” (perché questo inserimento?), rimangono compresse, e troppo sospese, indefinite e indecifrabili, attorno alla sua presenza catalizzatrice, nascoste nella sua ombra ingombrante: la prima una Silvia Rubes charlottiana, la seconda un’Anna Dimaggio timburtoniana.
In un limbo – sala d'attesa caotica di un qualche girone infernale (ci ha ricordato gli amanti suicidi danteschi Paolo e Francesca prima di diventare, sul finale, Olindo e Rosa, la coppia assassina di Erba,kaem3 con un accenno ai Renzo e Lucia manzoniani in un potpourri composito dai troppi sapori) stazionano, ma senza lo “star bene” del titolo sia chiaro, i due ragazzini shakespeariani che, evidentemente, non sono morti nella sventurata notte veronese seicentesca di veleno e fraintendimenti. Il plot sembra quasi un castigo, punizione-coazione a ripetere, ogni notte da allora per un tempo infinito, una formula che fa credere loro, più che altro sperare e autoconvincersi, di essere ancora vivi in questa parentesi remota, spazio galleggiante, anfratto nel tempo, dispersi nella loro sterminata e sconfinata “solitudine dei campi di cotone”.
E tra una panchina da innamorati di Peynet (spunta quasi un’iniziale Pietà michelangiolesca con Giulietta-Mary Poppins accasciata), e una cabina telefonica (ve la ricordate la pubblicità con Massimo Lopez della Sip “una telefonata allunga la vita”?) ci accorgiamo che non “stanno affatto bene” come nella pellicola eufemistica e quasi omonima “Stanno tutti bene” di Giuseppe Tornatore con Marcello Mastroianni. Ansiosi, ansiogeni, chiusi, relegati e segregati nella loro finta libertà, nei momenti di lucidità hanno dubbi se essere ancora di questo mondo o essere passati alla sostanza dei sogni. Da un cappotto tirano fuori (è tornato alla mente “Scene da Romeo e Giulietta” di Federico Tiezzi al Fabbricone di Prato di qualche anno fa, dove i due giovani amanti erano felicemente anziani e ancora insieme) una corda, un martello, una pistola, tutti oggetti utilizzabili per la soluzione estrema. Stranamente, però, niente veleno all’orizzonte.
Ma è l’impasto che non funziona pienamente, l'amalgama si fa collosa soprattutto con l’innesto, alquanto forzato, di un terzo personaggio all’interno del classico binomio amoroso: una sposa cadavere (avvicinabile a quella della “Carnezzeria” di Emma Dante), un'Anna Di Maggio che ce la mette tutta ma il suo ricamo appare fin dalle prime battute lontanissimo dall’atmosfera, una sposa irrazionale e bipolare che telefona disperatamente al marito già defunto. Neanche Leonard Cohen, nella ballata conclusiva, riesce a riesumare i due innamorati per eccellenza da questa dimensione parallela, sprofondati nel buco nero, nell’attesa di qualcosa che non accadrà.

Tommaso Chimenti 29/08/2017

TRIESTE – “Ancor oggi il tango conserva quel qualcosa di proibito che stimola il desiderio di scoprirlo sempre un po’ di più e quel qualcosa di misterioso che ci ricorda quel che siamo stati o, forse, quel che avremmo voluto essere” (Jorge Louis Borges).
“La mia musica è triste perché il tango è triste. Il tango ha radici tristi e drammatiche, a volte sensuali, conserva un po’ tutto... anche radici religiose. Il tango è triste e drammatico ma mai pessimista” (Astor Piazzolla).

Esiste altra musica, se non il tango, per esplicare ed esemplificare il contatto, ma anche il contagio, la febbre che sale scena dopo scena del “Romeo e Giulietta” shakespeariano? Anche se quattrocento anni fa (il 23 aprileromeo2 1616 moriva il Bardo di Stratford-upon-Avon) il tango, evoluzione oltreoceano del liscio nostrano ballato a sud dell'equatore tra pampa e gaucho, non era ancora stato inventato, quella passione, quei passi, quelle mani addosso, quegli scarti recalcitranti per poi lasciarsi andare e cadere nelle braccia l'uno dell'altro sembrano essere la fotografia postuma di quell'amore giovanile universale mai consumato, schiacciato dall'odio, compresso dalle famiglie, ucciso da diatribe politiche che niente avevano a che fare con la purezza e dolcezza, con la limpidezza e il chiarore di questo sentimento così leggero e così profondo.
“Il tango è un pensiero triste che si balla” (Enrique Santos Discépolo). Luciano Padovani è uno specialista nel portare il tango a teatro, drammatizzandolo, coniugandolo con concetti classici, declinandolo a favore di drammaturgie. Questo è il suo quinto spettacolo dove al centro, e in sottofondo, visibile e come fil rouge, sta imperioso e impetuoso il tango argentino nel quale la forza si mischia alla dolcezza, la sensualità all'impossibilità dell'aversi, gli sguardi e la carnalità si fanno cosa viva e pungente. Sei coppie ad orchestrare tutto il parterre dei personaggi della tragedia, quattro tangueri e otto danzatori contemporanei. Anche questo mix di impostazione da una parte e improvvisazione e rottura degli schemi classici dall'altra, di rigidità e flessuosità, di movimenti certi, fermi, dritti, tenaci che si incastrano con armonie rotonde e gesti scardinati crea un afflato di sorpresa, un respiro incandescente che sovviene e monta ad ogni scena.
romeo3“Il tango è saper camminare abbracciati” (Carlos Gavito). Particolare l'idea del regista e coreografo Padovani (e della sua compagnia vicentina Naturalis Labor) in questo “Romeo y Julieta tango” (visto nel magnifico Teatro Rossetti di Trieste); i Capuleti sono tutti impersonati da donne e ragazze, mentre i Montecchi sono tutti uomini. Gli incontri-scontri, infatti, prendono anche una piega di frizione e onda d'urto tra i sessi, quel cercarsi e non capirsi tra maschi e femmine, quell'averne bisogno e non poter del tutto convivere, quelle diversità che annusiamo e desideriamo con ardore per poi allontanarcene con distacco. Il tango è proprio questo, caldo e freddo che si miscelano per creano spaesamento e brivido. Il campo della pièce si trasforma in una milonga con il bandoneon straziante che fruscia come i piedi sul palco a scandire un tempo che è più dell'anima e del sogno che quello reale del possibile. E' come se il tango ci raccontasse le potenzialità dell'animo umano, l'andare oltre le apparenze per superare l'impossibile. Il tango è forza e fragilità, senza che questi termini vengano necessariamente associati il primo al maschile e il secondo al femminile.
“Il tango dà un passato a chi non ce l’ha e un futuro a chi non lo spera” (Arturo Pérez-Reverte). L'orchestra dal vivo, i quattro di Quartango, riempiono di vita malinconica ogniromeo4 spazio sonoro con feroce dolcezza. Non siamo a Verona, o non vi è niente che ce lo indichi, ma non è presente nessun elemento che ci spinga in una città, luogo o situazione precisa: questo R+J è atemporale e senza indicazione spaziale ma l'unico, gigantesco e imponente, oggetto di scena, che riempie gli occhi con la sua robustezza e solidità, è una porta in legno, alta e spessa e massiccia, che fa da apertura ma anche da balcone con la finestrella che si apre sopra portandoci nel mondo delle fiabe delle principesse che si scioglievano i capelli per far salire gli amati nelle loro stanze protette. Un portone che può aprire il sogno e le braccia della felicità mentre, una volta reclinato al suolo, si fa, purtroppo per i due amanti, bara e tomba, sarcofago pesantissimo che niente e nessuno potrà sollevare. Nel finale, in quella presa fatale, tutte le ballerine e danzatrici sono una Giulietta in rosso muovendosi all'unisono strette nell'abbraccio e delle giravolte di tutti i danzatori-moltiplicazione dei Romeo in camicia bianca. Alcuni amori sono accettati, e pianti e capiti e compresi, solo quando non possono più portare il “cattivo esempio”. Chi non ha vissuto un amore impossibile non ha vissuto l'amore.

“Le gambe s’allacciano, gli sguardi si fondono, i corpi si amalgamano in un firulete e si lasciano incantare. Dando l’impressione che il tango sia un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi. Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo” (Jorge Louis Borges).

Tommaso Chimenti 25/04/2017

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