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FIRENZE – Maria Cassi è tornata e lo ha fatto alla grande, nel suo stile inconfondibile, nella sua cifra unica e inimitabile. Ed è in formissima. Dopo un paio di spettacoli di ripresa e di “alleggerimento”, “Diamine” e “La solita zuppa”, con il nuovo “Alè”, sempre insieme al fidatissimo Leonardo Brizzi al pianoforte e nel ruolo della spalla impostata e compunta contraltare della sua energia e follia scenica, si è tornati ad applaudire a piene mani alla sua fiorentinità, al trionfo di una comicità sincera, che non è passata mai di moda. Le sue battute, la sua gestualità da mimo consumato, le facce esplosive, la bocca usata in mille espressioni, il gergo tutto nostrano (che piace in egual modo ai suoi concittadini come ai tanti stranieri che affollano il Teatro del Sale), i modi di dire forzati ed esagerati sempre efficaci. E “Alè” è un inno alla vita dopo il periodo difficile della chiusura del Covid prima e successivamente della scomparsa del compagno Fabio Picchi, ideatore e fondatore del concetto del Sale, un mix inscindibile tra musica, teatro e buon cibo in un luogo magico. Un “Alè” contro le brutture, contro la sfortuna, contro le negatività, un saluto al domani pieno di sorprese, un andare incontro LEOG3412-1-scaled.jpgalla bellezza, senza lasciarsi schiacciare dai momenti no, un sorriso al nuovo, all'ignoto, un lasciarsi andare incontro al futuro pieno di sorprese, un racconto poetico ed emozionale, un abbraccio senza preclusioni né pregiudizi, un saluto al Sole della risata che rischiari sempre il buio dei nostri tempi.

Non possono mancare i suoi classici tormentoni, ai quali il suo pubblico si è fidelizzato e non vorrebbe mai rinunciare: le sue digressioni sul “ragionare” dei fiorentini, il discorrere principalmente sul nulla, lo “scuotere la testa”, segno distintivo di chi abita vicino all'Arno, l'avere il “palletico”, ovvero non stare mai fermo un attimo, le lamentele continue come mantra, quell'“oioi” cantilenato, i “canti” che a queste latitudini sono gli angoli delle strade dantesche. E' una rana dalla bocca larga con una mimica facciale che inevitabilmente fa esplodere il riso, improvvisa un gramelot, giocando con la sensualità intonando un'aria in tedesco (e qui ci ha ricordato Ute Lemper), ora è “fantozziana” piena di tic nervosi e nevrosi, adesso canta a cappella dimostrando alte doti canore.

Con il Maestro di pianoforte Brizzi, il loro rapporto artistico va avanti da trentacinque anni, che fa il serioso e la spalla rigida, opposto della sua imprevedibilità stupefacente, l'alchimia, i ritmi e i tempi ormai sono naturali e spontanei e si muovono come un unico organismo: rappano oppure si cimentano in Stanlio ed Ollio o ancora si lanciano in sfide non-sense cariche di buon umore. Non puoi non sorridere, non puoi non farti venire le brizzi-e-cassi-1024x485-1.jpgrughe d'espressione agli angoli delle labbra. Non ci si stancherebbe mai neanche di seguire un altro dei suoi cavalli di battaglia più longevi, “La morte del cigno” esilarante, che sempre scatena risate contagiose. Il suo duetto con gli ottantotto tasti ci porta ad un medley dove dal “Don Giovanni” si passa a “Un cuore matto” di Little Tony arrivando ad “Azzurro” di Celentano fino ai Blues Brothers e concludendo con Fred Buscaglione. La gag con la lingua fuori è un pezzo di bravura da LEOG3414-5-scaled.jpgsottolineare, così come quella spassosissima del “Voltapagine”, la persona che durante i concerti di musica classica ha il compito di girare le pagine degli spartiti di un solista, che in questo caso però è distratto, cialtrone, sbadato e disattento creando caos clownesco e confusione indicibile sul palco. Maria Cassi si merita il Fiorino d'Oro, le chiavi della città per essere da tanti anni ambasciatrice di Firenze, per il suo amore per la città di Brunelleschi e Michelangelo, per averla portata sui palcoscenici nel mondo e per aver regalato ed elargito così tanto buonumore. La formidabile Cassi è Firenze, l'una compenetrata nell'altra.

Tommaso Chimenti 01/05/2023

FIRENZE – Il teatro è lo spazio della finzione, della metafora, dell'essenza. Se il teatro si trasforma in un mero palco dal quale sciorinare le proprie sentenze, e tesi e idee e teorie, il proprio curriculum, le cose fatte e quelle che non ci hanno fatto fare (per colpa degli altri sempre, ovviamente), il teatro, come luogo del possibile, del divenire, della trasformazione, come spazio di libertà, forse perde la sua funzione e diventa comizio, culto della personalità. E così Beppe Grillo torna dopo molti anni nei teatri e, non avendo più come unico argomento il Movimento Cinque Stelle, ci parla (è anche tenero nei suoi capelli candidi; somiglia sempre più a Michael Douglas) dei temi a lui più cari, sempre gli stessi: l'ambiente, la tecnologia che potrebbe salvarci, l'abbattimento della povertà, il tutto infarcito di citazioni e nomi di scienziati, dati per scontati, per avvalorare discorsi e ragionamenti. Certo è bello stare a sognare tutti insieme nel caldo del teatro, sprofondati nelle poltroncine rosse a sentir parlare il “nostro” guru del domani, di futuro, dell'evoluzione, secondo lui, del pianeta. E' bello sognare e lasciarsi trasportare dalle sue invettive rabbiose (infatti si prova costantemente la pressione), nel suo elitario snobismo ma anche nella sua vicinanza agli ultimi.
E allora ha soluzioni per tutti i mali del mondo e sicuramente potrebbe risanare l'Italia in un battibaleno (“però non ce lo hanno fatto fare”) dai suoi annosi problemi atavici che ci portiamo appresso come i barattoli attaccati alla macchina degli sposi. Detto questo, è sempre affascinante ascoltare un uomo appassionato e vivo e lucido che, a piccole dosi, può ancora insegnarci molto.
Lo spettacolo in sé, considerato in quanto pièce teatrale, praticamente non c'è, Grillo che appunto si definisce “Io sono il peggiore” autoironicamente, potrebbe andare a braccio per ore con i suoi cavalli di battaglia senza contraddittorio, con numeri e slide che ci arrivano addosso come onda di marea. Che lo spettacolo non rispetti le regole del teatro lo sottolineano le luci costantemente accese, e faticose da sostenere, sulla platea in un guardarsi continuo (con la parvenza dell'uno vale uno, perché Uno è sul palco con un microfono e noi siamo tanti, ammassati e confusi in una massa indistinta in basso), in un dialogo, in un divertente sfottò (la comicità ha sempre bisogno di un bersaglio tra il pubblico per far ridere, esorcizzando, gli altri ai quali non è capitata la sfortuna di essere preso di mira dal demiurgo di turno), in un botta e risposta con un unico chiaro vincitore.

Lo scrissi GRRILLO-1-900x600.jpggià molti anni fa dopo un suo monologo: quando si esce dalle performance di Beppe Grillo ci si sente sempre un po' (più) scemi e stupidi, sicuramente ignoranti e con la netta consapevolezza che in ogni parte del mondo, anche la più povera e recondita, tutto, i servizi, i rapporti umani, la politica ovviamente, l'empatia tra le persone, l'intelligenza di base, la corruzione, tutti i piani sociali e civili siano migliori rispetto alla nostra tanto vituperata Italietta messa ai raggi X e scandagliata e scarnificata fino all'osso delle sue magagne, difetti, delitti, mancanze, colpe. E' un ridere di noi stessi per sentirsi migliori, per sentirsi popolo eletto che ha capito e ha visto la luce mentre gli altri ancora brancolano nel buio come pecorelle smarrite senza il bastone e la carota del pastore. Dopo il Movimento Cinque Stelle, adesso è l'ora di un movimento filosofico-religioso, “L'Altrove” con tanto di statuto e sito, per mettere in pratica i progetti visionari e illuminati del nostro Grillo (Parlante). Il pubblico comunque gli vuole bene, forse non pende più dalle sue labbra come prima che si sarebbe buttato nel fuoco (il Vaffa Day o l'iconico “Siete circondati”), ma lo stima come un nonno saggio che ne ha viste tante e che ne sa su più fronti, al quale affidarsi nei momenti di sconforto, di paura, di timore, di incertezza e instabilità come quello attuale. Si paragona a Gesù e chiede (scherzosamente, spero, credo) Screenshot 2022-11-08 at 14-20-20 beppe grillo sfascia pc - Ricerca Google.jpguna morte all'altezza delle sue aspettative, una fine trionfale che ne esalti le gesta in vita e in terra tra noi comuni mortali che abbiamo sempre avuto bisogno di una guida, di una retta via da seguire. Finire come John Lennon o John Kennedy, Malcolm X o Enrico Mattei, Giulio Cesare o Aldo Moro, Martin Luther King o Falcone e Borsellino, in un qualcosa di eclatante e drammatico e tragico per, ancora una volta, essere ricordato in eterno, anche nell'assenza del corpo, far parlare di sé, porre l'occhio di bue sul personaggio e non sulla persona (o forse i due aspetti si sono sommati e sovrapposti e ormai sono inscindibili).

Io sono il peggiore” (ovviamente non lo è ed il primo a saperlo è proprio Beppe in persona che gioca sull'attacco altrui, cerca affetto e vicinanza, e si autoalimenta se lo aggrediscono in tv, sul web o su qualsiasi piattaforma) forse starebbe meglio nelle piazze più che nei teatri; nel chiuso di uno spazio deputato alla narrazione e al racconto si rischia il pericolo di una riunione di adepti, di un circolo attorno al capo, al deus ex machina, di un'aria un po' viziata nozionistica che fa sembrare necessariamente il Principale con il microfono in mano il migliore della mischia e noi sotto, adoranti, silenziosi, annuenti, pappa incerta a bocca aperta, naso all'insù ad abbeverarci di una cultura che poi, nella vita reale, non potremo mai mettere in campo né vedere realizzata perché dobbiamo soddisfare bisogni più piccoli e miseri e necessità economicamente più impellenti e semplici. Il suo è uno sfogo intellettuale che accogliamo ma che, alla fine, poco riuscirà a cambiare rimanendo carta, parole sicuramente entusiastiche, calorose, accese e, mi sbilancio, anche sincere, ma che forse non riusciranno a produrre i cambiamenti che propone che potrebbero diventare realtà non in una democrazia, dove convivono più voci e molteplici opinioni sul reale, ma in una dittatura tecnologica spersonalizzata che ci auguriamo di non avere il tempo di vedere realizzata. Grillo comunque rimane un Patrimonio dell'Umanità da proteggere e difendere.

Tommaso Chimenti 16/03/2023

 

CALENZANO – “In questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità” (Bertold Brecht). Se ci si sente smarriti è perché abbiamo la netta consapevolezza di aver perso la strada maestra, abbiamo perso l'orientamento e siamo finiti “in una selva oscura che la diritta via era perduta”. C'è un bianco abbacinante in questo interno borghese, candido manicomiale: scrivania, libreria, gli stessi libri, il divano, la poltrona, tutto è di quel colore non-colore che attende di essere sporcato di vernice vitale. L'abito stesso della protagonista, le sue scarpe. A provare “Smarrimento” (prod. Marche Teatro; visto al Teatro Manzoni di Calenzano) è questo personaggio metateatrale, costantemente con un piede dentro e uno fuori dalla scena, dal testo. Due Lucia, Calamaro l'autrice Mascino l'attrice, hanno creato un impianto che funziona alla perfezione, una drammaturgia al tempo stesso solida ma anche malleabile, comoda, dove la monologante spazia, improvvisa, si sente a proprio agio, la fa sua, ci gioca, se ne appropria, la digerisce, ne fa poltiglia, la riprende, la accartoccia, la rende luminosa con cambi umorali da psicanalisi, sdoppiamenti di personalità in un vorticoso perdersi di voci.Smarrimento_Lucia-Mascino_foto-Kimberley-RossDSC7050-1-scaled.jpg

La protagonista interpretata dalla Mascino è una scrittrice con la sindrome della pagina bianca, vagamente snob, aristocratica, trasognata che si appresta a mostrarsi al pubblico per un reading. Diventiamo la platea dell'happening e il botta e risposta tra personaggio e pubblico si fa intensa relazione. Smarrimento_Lucia-Mascino-foto-Kimberley-Ross-DSC7712-2-scaled.jpgLa Mascino, nel pieno della maturità recitativa, è qui magistrale in un mix tra l'indecisione cronica della miglior Buy, il sarcasmo pungente di Franca Valeri, l'aria rarefatta di Laura Morante, l'ironia di Monica Vitti. Negli spettacoli precedentemente visti a firma dell'autrice romana (“Tumore”, “L'origine del mondo”, “La vita ferma”) la caratteristica principale emersa era una densa verbosità, una corposa prolissità, parole che allora ci erano sembrate più letterarie che teatrali, scorrendo con fatica dal boccascena alla sala. Questo “Smarrimento” invece è stata una vera sorpresa, una bella scoperta: qui c'è ritmo, velocità, un'armonia, una musicalità tenuta e orchestrata con grazia esperta dalla Mascino che tiene le redini del testo come del pubblico, spostando l'attenzione a piacimento, divertendosi, aulica e popolare, in questo affresco meschino e cinico delle nostre misere esistenze.

Woodyalleniana, incerta e titubante, salta da un argomento all'altro (nel rapporto con la platea per certi versi ci ha ricordato una sorta smarrimento-evi.jpgdi “Insulti sul pubblico” di Peter Handke in tono soft, mentre per l'ardimentoso oscillare delle parole senza una sua centralità ci è tornato alla memoria “Thom Paine. Basato sul niente” di Will Eno), si apre, si racconta instabile, si ritrae, si confessa, sproloquia in questo sfogo che ci porta sul bordo dell'abisso umano, trattato con leggerezza amarognola ansiogena, di squallori quotidiani che non hanno resa né soluzione. Lo smarrimento è quello della scrittrice, acidula, problematica, annoiata, infastidita, scocciata (si appunta idee e frasi che poi non svilupperà perché niente le sembra importante e tutto le pare una perdita di tempo), ma anche quello, in una triangolazione di specchi e riflessi, dei personaggi evocati dei suoi libri, Anna, il marito Paolo, i due figli, voci che si addensano e si affollano reali nella mente, nei dubbi, nelle pagine della protagonista che si sente braccata, in apnea da tutto questo coro che improvvisamente prende il sopravvento, la parola, lo spazio. Riempie con teatro.it-Smarrimento-Lucia-mascino-ph-Giulia-Di-Vitantonio-recensione.jpgi suoni delle parole un silenzio materico del quale, forse, ha paura, ha timore del vuoto, dell'eco dei propri pensieri, contempla la realtà più che viverla, non prova più piacere.

Se la forma è brillante, scorrevole, piacevole, un divertissement nel quale emergono e s'impongono le capacità attoriali della Mascino, l'intimità e l'interiorità del testo è caustico, profondo, aspro e doloroso di solitudini, di depressioni esacerbate. La sua esplosione dialettica rancorosa e delusa appartiene a tutti noi, ci fa sorridere per esasperata esorcizzazione, perché ben fotografa le piccole manie, le ripetute sconfitte di tutti i giorni, le incomprensioni, la mancanza di desiderio, la voglia di non aver più voglia. Sfrondato da questa sua forma brillante, “Smarrimento” si potrebbe sintetizzare con la battuta all'interno della piece: “Tu perché campi? Qual è il tuo buon motivo per vivere?”; la domanda risuona ancora calda, molesta, traumatizzante. Se ci pensi e non trovi risposte adeguate c'è di che smarrirsi.

Tommaso Chimenti 05/03/2023

Foto: Kimberly Ross, Giulia Di Vitantonio

FIRENZE – Nella vita, fuori dalle tavole del palcoscenico, “mettersi la maschera”, così come “recitare” o “essere teatrali”, hanno sempre accezioni negative, sottintendono un sotterfugio, una fregatura, un doppio fine malevolo. Ma del mettersi la maschera ne ha fatto un mestiere l'attore e regista fiorentino Duccio Barlucchi, mascheraio, costruttore, insegnante, attore, formatore, artista a tutto tondo. Nella sua casa-atelier alle pareti sono attaccate sue opere d'arte suggestive in cartapesta che hanno al centro la maschera, appunto, o un corpo di donna o quelle che lui chiama “per sottrazione” scrostando il colore superficiale e portando alla luce figure sottostanti evocative e magiche. Ci tiene a sottolineare: “Non sono un pittore”. Barlucchi ha vissuto molte vite: è stato per anni in Messico, poi stanziale a Parigi, ha girato il mondo con i suoi spettacoli nei festival internazionali più disparati, ha venduto migliaia delle sue maschere, ha fatto parte dei match d'improvvisazione a livello mondiale (recitando anche al Teatro Bataclan, purtroppo reso celebre dalla strage del 2015 di matrice islamica, e vincendo un premio come miglior attore), fino ad alcune scene nella recente pellicola “Colibrì”.

IMG-20230207-WA0021.jpgAdesso la sua casa artistica è il Teatro d'Almaviva, compagnia che ha fondato, e che ha residenza al Teatro Il Progresso, dove abbiamo visto la sua nuova pièce “Il mercante di maschere” che riassume tutto il suo percorso di questi anni, con venti diverse maschere in scena per portare alla ribalta altrettanti personaggi o tipologie umane. Al Progresso insegna teatro, con e senza maschera, ad adulti e adolescenti (con i quali in questo periodo sta lavorando sull'Art 21, su libertà d'espressione, censura e coming out). E' lì che prende, e restituisce, la sua linfa. Si vede negli occhi ancora guizzanti che la curiosità per il mondo, la vita, il domani è ancora presente come fuoco. Proprio nei giorni scorsi ha ricevuto, per la sua attività pluridecennale (dal '77), a Roma, nella sede del Parlamento Europeo, il meritato e prestigioso “Premio Internazionale Comunicare l'Europa”. Ma è nell'atelier che si respira la magia della polvere, il lavorio delle mani, l'arte dei polpastrelli, in mezzo ai suoi “esperimenti di materia”. Ce ne sono centinaia, e sembrano parlarti o dirti con tono candido e mellifluo: “Prendimi, indossami”.

Ecco IMG-20230207-WA0022.jpgle maschere delle serie degli Argonauti, un Pierrot del 1980, un elmo: “La maschera deve funzionare, se funziona riesci a vedere un'entità”. C'è molto studio e ricerca dietro, sicuramente molta psicologia ed energia incanalata. C'è quella del Giudice, le molte della Commedia dell'Arte, quella del Matto di De Andrè e poi le maschere doppie emozionali, con due facce che raffigurano serenità e rabbia, o addirittura quelle con tre, male, colpa e peccato. La meravigliosa maschera dell'Aquila fatta di pelle, quella del Lupo-Ariete, la maschera di Paride con lo scudo incorporato, e poi l'Amazzone e Don Chisciotte o Dance la ballerina. E' un vero viaggio immergersi nelle parole, nei ricordi, nei racconti di Barlucchi che tocca i suoi oggetti (che non sono soltanto oggetti ma sono vivi ed hanno un'anima, se ne percepisce il respiro) le sue creazioni e si accende, apre i cassetti del tempo, ci fruga dentro, ne prende a piene mani e comincia a raccontare. E' un piacere ascoltarlo, immaginare. Ha molto da insegnare nella sua umiltà e tranquillità quasi ascetica: “La maschera rivela, non nasconde, dà voce a quello che è stato per troppo tempo zitto e silente”. La maschera può fare paura perché fa emergere i nostri volti nascosti, celati per troppo tempo sotto la cenere, spalancando il nostro palcoscenico di dentro. Il suo motto è: “Essere o esserci” nel solco del fare finta oppure di metterci, letteralmente in questo caso, la faccia.

Il suo “Il mercante di maschere”, giocando sul mercante shakespeariano ambientato in laguna, è un caleidoscopio variopinto e vPanoramica-Maschere-Duccio-Barlucchi-1024x768.jpgariegato di tante figure e caratteri ai quali Barlucchi dà forma e voce, un balletto al quale tutte le maschere vogliono partecipare con la loro carica, energia e storia: “La maschera fa da tramite con l'energia di chi la indossa”. Questa sua pièce è una summa di decenni di lavoro a contatto con la materia, è un rito pagano, è una festa: “La maschera risveglia ciò che dorme, rivela i volti nascosti, ti scuote, svela un altro te”. Emozione, cuore, fantasia, psicologia, c'è un che di trascendente, che esula dal materiale, che assurge all'altrove, in mezzo a tutte quelle cose sospese tra cielo e terra. Apparizioni, epifanie: ecco la prima gialla con un grande naso-becco azzurro. Ti portano in un altro mondo, aprono baratri, abissi, paradisi, panorami. Barlucchi dialoga con le proprie maschere che sono vive. Arriva un vecchio con il bastone che parla con le sue scarpe, quasi fossimo dentro la “Fantasia” disneyana, tra giochi di parole, parodie dialettiche. Arriva il bellissimo ironico duetto, “dialogo calorico-glicemico” tra due personaggi innamorati, Meringa e Strudel, tutto giocato sugli zuccheri, sui dolci, sulla pasticceria: da leccarsi i baffi. Si cambia la giacca, e la maschera ovviamente, ed entra in un'altra esistenza: c'è il Poeta-scrittore e il Capitano di nave con una maschera acquea (ci ha ricordato il “mostro” de “La forma dell'acqua”), il Matto con la camicia di forza quasi Gobbo di Notre Dame. C'è la Preghiera al Teatro come il pezzo antibellico in giacca mimetica tra sirene d'allarme e rombi di missili e scoppi di granate, infine si apre una valigia piena di nuovi lineamenti: “Metterci la faccia? Sì, ma quale faccia ci devo mettere?”, chiede in un gioco freudiano di doppi sogni. E' il Mercante di Maschere che propone, vende, contrabbanda, spaccia nuove identità. Barlucchi, con il suo volto medievale, alto e nodoso come una quercia, voce baritonale profonda e calda, è un alchimista, quel che tocca trasforma, e ci dice di “tirare su il mento”, di non avere paura, di essere orgogliosi di noi stessi, di andare fieri delle nostre debolezze e, se c'è qualcosa che non ci piace possiamo sempre cambiarlo, come lui fa con le maschere, mutando in altro, avendo il coraggio di cambiare e allo stesso tempo diventare sempre più noi stessi.

Tommaso Chimenti 20/02/2023

FIRENZE – Quello messo in scena da Lino Musella è un Eduardo uomo, terreno, non le sue tragedie popolari dei quartieri napoletani ma la sua lotta quotidiana con i soldi, con i debiti, con le banche, con la burocrazia, con il teatro, nel teatro, per il teatro, la sua battaglia per la dignità della sua città. E se ne sente tutta l'amarezza, ma mai la rassegnazione, nelle lettere, lette alla vera scrivania dell'autore di “Natale in Casa Cupiello”, inviate dalla fine degli anni '50 per far rivivere il San Ferdinando, quello che sarebbe stato sangue e lacrime, sua croce e delizia, ma anche soddisfazione e felicità e responsabilità, per il Maestro. Chi meglio di Musella poteva portare in scena Eduardo in questo “Tavola Tavola, chiodo chiodo”? Le tavole del palcoscenico e i chiodi per fissarle, l'artigianalità del fare teatro, le mani, la fatica, i polpastrelli, il sudore non soltanto il genio e la creatività e le idee delle drammaturgie. Senza travestimenti, infingimenti, modulazioni vocali, baffetti posticci. 04_ridotta.jpgMusella si fa transfert delle sue parole scritte, passaggio e megafono in una sorta di seduta spiritica dalla quale emerge un uomo piccolo ma solido, tenace, ossuto che sembra lottare contro i mulini a vento dell'amministrazione, dei fondi alla cultura, nell'indifferenza generale, non un uomo solo al comando ma un uomo solo contro le intemperie che non si è lasciato abbattere ma che giorno dopo giorno, come sabbia nella clessidra, è stato un po' mangiato lentamente dai problemi, dalle preoccupazioni, dalle ansie del lavorare per ripianare i debiti per far tornare, dopo i bombardamenti, a far risplendere quello che ancora oggi è il suo teatro. Tutt'oggi, sul bandone del teatro, davanti alla piazzetta, appare la sua immagine iconografica disegnata e sembra che ci sia ancora a proteggere gli dei del palcoscenico, gli spettatori, e sembra sia ancora lì dentro quelle pareti e palchetti e poltrone, e che la sua anima non se ne sia mai andata da quei luoghi.

Lino Musella ha sicurezza da vendere, classe cristallina, raffinatezza, è un giocoliere, un funambolo senza personalismi o egoismi scenici né da mattatore, preciso e morbido non schiaccia con la sua presenza il testo, non ne fa una macchietta, mai impacciato né impallato dal gigante al quale dà voce, in una prova d'attore eccelsa, di quelle che vorresti non finissero mai. Siamo fortunati ad avere la possibilità di vedere certe performance attoriali, di poter godere di tanta bellezza, di tanto accurato lavoro di sottrazione, di tanta maestria e umiltà. Lino picchia sul legno a metà tra un fabbro e un ciabattino e inizia questa celebrazione laica. Questa “Tavola tavola” (progetto di Musella e di Tommaso De Filippo; prod. Elledieffe, Tavola-tavola.jpgTeatro di Napoli; visto al Teatro di Rifredi) è un inno al mestiere dell'attore, una lode alla scena, una lezione di teatro, aperta, sincera, commovente, totale, comprensibile, materica senza svolazzi pindarici con tante perle lanciate senza la prosopopea di sentirsi guru né tanto meno Maestro: “Il giorno di riposo è la morte” o ancora “Che cos'è il teatro? E' il disperato sforzo dell'uomo di dare un senso alla vita”. In scena la scrivania, il camerino e il plastico del teatro, le tre anime: la scrittura, l'attore e il sognatore visionario che non si arrende (“non abbiamo una lira ma siamo i più ricchi di tutti”) che aveva immaginato e poi realizzato il suo chimerico progetto.

C'è un amore spasmovp3E882SVNwWLnB4.jpgdico, e doloroso, per il teatro ma anche per la gente, per il popolo, “voglio biglietti accessibili a tutti”, senza infarcirsi troppo la bocca con la tanto abusata parola “cultura”. Il ritratto che emerge di Eduardo è quello di un intellettuale illuminato schietto sofferto. Musella costruisce un rito e ogni rito che si rispetti ha bisogno di candele e di fuoco salvifico e purificante in un testo semplice e profondo, semplicemente emozionante. Ci sono le lettere toccanti al figlio Luca, quelle ad Andreotti, la lettera di Pirandello, le molte alle banche o alla SIAE, alla madre come alla moglie, al ministro o ai carcerati. Da oggi, grazie ad un Musella autentico lancinante immenso, Eduardo è ancora di più patrimonio di ogni italiano con le sue frasi iconiche passate al nazional popolare e permeate e stratificate nelle generazioni come “Adda passà 'a nuttata” o “Te piace 'o presepe?”. Eduardo non è solo Napoli, è di tutti.

Tommaso Chimenti 12/02/2023

FIRENZE – In questo mondo di estetica, fatto d'immagine, dove conta più la quantità che la qualità viene considerato e ricordato chi lascia il segno, chi appone la sua firma, e che sia riconoscibile appunto come Zorro. Il nostro spadaccino contemporaneo però passa inosservato, senza nome, se ne sta agli angoli, ai margini, nell'ombra, conta i treni, gira nei suoi pensieri, per giorni non apre neanche bocca, nessun suono esce dal suo corpo. Ma “Zorro” (prod. Prima International Company, visto al Teatro Puccini) non è nemmeno una persona, è un cane, anzi due, o identifica proprio una vita da randagio, zingaro, mendicante d'amore. Dopo vent'anni ritorna in scena il monologo che Margaret Mazzantini scrisse per il suo compagno di vita, Sergio Castellitto che dimostra padronanza, prontezza, centratura nel delineare un carattere nelle sue sbandature scomposte dell'esistenza, un antieroe sporco e tenero, una discesa fino al budello delle fogne dell'anima. C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgIn scena fumo, nebbia e una panchina, il suo letto, giaciglio, casa e un oggetto-feticcio con il quale dialogherà e toccherà e cercherà un contatto per tutta la piece (1h15'): una coperta isotermica (un po' come quella di Linus), di quelle che quando le tocchi friggono, che paradossalmente ha un lato dorato e il rovescio argentato per una vita che al contrario il podio e le medaglie non le ha mai viste.

Il racconto è cadenzato dalla musica che chiude i quadri in questo blu di fondo che tutto ammanta e dove Castellitto sparisce, un blu che rappresenta il sogno-incubo, quel torpore che ha contorni d'irrealtà, che sfugge alla logiche, quel tangibile che si sfa, che si annacqua, che si scioglie tra annebbiamenti, mostri, paure, desideri ormai fuori controllo e fuori portata. “Starry Night” di Don McLean, ballata dedicata alla parabola di Vincent Van Gogh, apre e chiude questa parentesi, questo occhio di bue su uno sconfitto dei nostri giorni, un reietto della società, un rifiuto, un perdente, un fallito, epiteti visti dalla prospettiva di quelli che lui chiama “cormorani” cioè tutti noi, borghesi in platea, con i nostri vestiti buoni e le nostre certezze che altro non sono che castelli di sabbia che un dolore qualsiasi può spazzare via in un attimo perché non siamo temprati alla sofferenza ma soltanto ai consumi, alle comodità, agli agi, al voglio, pago, pretendo. Il cormorano è molto pigro ma è anche un buon volatore e nuotatore ma per questo tipo di uccello è il decollo dall'acqua la parte più difficoltosa e dove appare impacciato. Quindi il borghese sta e armeggia al meglio con i suoi strumenti nel suo habitat ma il complicato arriva quando deve spiccare il volo.

Ma Sergio_Castellito-004.jpgil nostro Zorro è un cane nella metafora e nel parallelismo tra randagismo e vagabondaggio; un cane è l'impossibilità delle carezze e della tenerezza, un cane che è il quid e la molla che scatta, il filo della presa che improvvisamente stacca la corrente, il crack che “incrina il vetro” anche se ancora non si è spezzato. Senza orologio, “la mia testa galleggia in un ricordo di anni fa” e quel cane trovato per strada del quale la madre, seppur amata, se ne era liberato. Una crepa che non farà altro che allargarsi, un tarlo che si mangerà dall'interno il ramo, la corteccia e l'albero intero. Che la mazzata non arriva all'improvviso, tutta insieme, è invece una goccia cinese di accadimenti ed eventi che si sommano, si accatastano ai quali non fai neanche caso fin quando non ti accorgi del muro che è issato attorno a te, della terra bruciata, dei solchi tra te e gli altri. In questo mondo C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgse sei goffo perdi terreno, inciampi nella dislessia dei sentimenti, travolto da un sistema tanto fragile quanto cattivo.

E allora il nostro (potrebbe capitare a tutti di scivolare nel gorgo della depressione) dopo essere stato privato da adolescente dell'unico essere che lo ascoltava, il cane, dopo la scomparsa della madre, un incidente che gli cambierà la vita (omicidio colposo stradale, può davvero capitare ad ognuno di noi; vengono in mente tragedie accidentali simili legate a volti noti), smette di andare a lavoro e inevitabilmente si separa dalla moglie: la frittata è irreparabile e non rimane che la strada fredda e buia ad accoglierti, la notte sdentata e senza sorrisi a morderti. Ha disceso tutti i gradini, adesso c'è soltanto il granito, la risalita è troppo faticosa, le energie scarseggiano, l'autostima è sotto il livello del mare, non rimane che tenere, stare, resistere e abituarsi ad una nuova condizione di cittadino di scarto, di scorta, di serie C. Ormai la sostituzione tra il cane Zorro e lui è completata, lui è diventato il “cane alluvionato”. Zorro era contro il potere e contro le ingiustizie, alcune vite però sfuggono nel fango e slittano nella miseria, senza reti, senza protezioni, senza salvagenti, senza pelle.

Tommaso Chimenti 18/01/2023

FIRENZE – “Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C'è tempo”).

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l'eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione DSC_2566.jpegdell'orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C'è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell'intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l'onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c'è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l'emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell'abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore DSC_2578 (1).jpege drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l'universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un'ora di piacere, un'ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E' un viaggio dagli anni '60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po' di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E' un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell'anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l'essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così” (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

Tommaso Chimenti 23/12/2022

FIRENZE – E' la vita, già. Anche la sua conclusione, anche l'amarezza della perdita, anche lo strazio della scomparsa fanno parte del viaggio, del percorso. “That's Life” canta The Voice in apertura e in chiusura. Ed è proprio così, è il passaggio delle stagioni, è la notte che segue al giorno, è la Natura che non possiamo fermare e di fronte alla quale non possiamo fare niente se non accettare e accogliere, sentirci fortunati per ogni giorno su questo Pianeta, grati per i sorrisi, per le persone vicine, per la felicità che possiamo ritagliarci. E' l'ultimo spettacolo di Maria Cassi nel suo Teatro del Sale che riapre dopo due anni di pandemia e soprattutto dopo la dipartita dello chef e mentore Fabio Picchi che lo aveva concepito, ideato, creato e regalato alla compagna. Palco e cucina un binomio eccezionale che qui ha trovato il suo habitat ed è esploso tra sapori e arte. A prendere il posto del padre, ecco Giulio, che ha seguito le orme in cucina del genitore, solita prestanza fisica e presenza, stesso vocione caldo, colorato, familiare. Tra Giulio e Maria c'è grande sintonia e complicità, empatia, armonia, vicinanza. Infatti si riprende con le vecchie abitudini, con l'applauso a chi ha cucinato Maria-Cassi-e1635164339352.jpgper noi, con un discorso caloroso ed entusiasta, quasi motivazionale, emozionante, per poi lasciare il palcoscenico alla Cassi che, da sola (anche se dialoga spesso con la colonna centrale), spazia sui suoi cavalli di battaglia dei quali non ci annoieremo mai. L'ora e mezza scorre veloce ed è un ringraziamento alla vita, al godimento, al piacere dello stare insieme. E non nomina mai il cuoco Picchi ma nelle sue parole c'è grazia e sentimento, eleganza e leggerezza nel riportarlo tra noi senza lacrime: soltanto sorrisi per celebrare la vita, quella che ci stupisce e sorprende e quella che a volte ci tira dei brutti scherzi. “La vita senza tenerezza e senza amore non è che un macchinario non oliato, pieno di cigolii e di strappi”, sentenziava Victor Hugo. E' questo il lascito di chi non c'è più, è questa la lezione che Maria diffonde dal suo palcoscenico: “La vita deve essere vissuta come un gioco”, argomentava Platone. Picchi era il suo e nostro “Garibaldi”.

La Cassi, con le sue smorfie e gramelot, con le sue facce e boccacce, nella sua mimica istrionica e contagiosa ci porta dentro il suo mondo (un mondo antico di fiorentinità che forse non esiste più) e ci racconta la sua Firenze e le caratteristiche dei fiorentini, ai quali piace “ragionare”, ovvero discorrere e parlare sugli argomenti più disparati senza in effetti dire niente ma soltanto per il gusto appunto di chiacchierare, che scuotono la testa ad ogni piè sospinto in segno di protesta o per evidenziare che qualcosa, se non tutto, non gli vada per il verso giusto, che dicono sempre “Oioi” per lamentarsi di qualsiasi cosa. “Che vita, ah, puoi dirlo, sento sempre image (1) (1).jpgil peso di un ricordo appeso al collo” (Samuele Bersani, “Che vita!”). Ecco il confronto impietoso con l'altra sua città del cuore, Parigi, dove ha casa, città e abitanti pieni di charme e fascino, di classe e incanto contro l'artigianalità della lingua toscana, quell'essere sboccato, ma non volgare, del fiorentino doc.

Fanno capolino anche i suoi vecchi personaggi, i suoi topos, le sue macchiette esilaranti, quelli che l'hanno accompagnata da sempre sul palco e che, anche stavolta, vogliono farsi nuovamente vedere, accennano ad uscire, vogliono anche loro godersi la serata di questo nuovo debutto, di questa riapertura: c'è l'Omino che aspetta l'Autobus e come intercalare usa “Vaia Vaia”, altra locuzione gergale per esprimere dissenso e malcontento, le due Pettegole, la vedova e la zitella, che si becchettano continuamente e dalla finestra giudicano il mondo là sotto la loro strada e se ne stanno a “bracare”, ovvero a spiare e ficcare il naso negli affari altrui, il Tossico che dice sempre “bischero”, la Matta del Quartiere, tragicamente bella che offende con epiteti pesanti le ragazze al loro passaggio, l'Omino con il Cane che si assomigliano. Maria Cassi è un fiume in piena, non scenderebbe più da lì sopra e il pubblico le tributa grande affetto, un amore sconfinato, ovviamente da dividere tra lei e il Picchi, che se n'è andato ma non se n'è andato per davvero.

Vita io ti credo dopo che ho guardato a lungo, adesso io mi siedo, non ci son rivincite, né dubbi né incertezze ora il fondo è limpido, ora ascolto immobile le tue carezze” (Dalla, Morandi “Vita”).

Tommaso Chimenti 19/10/2022

FIRENZE - “Ogni corpo immerso in un fluido subisce una forza diretta dal basso verso l'alto di intensità equiparabile alla forza-peso del fluido spostato”. Semplicisticamente, una sorta di azione e reazione. Siamo, inevitabilmente, in una piscina, anzi negli spogliatoi tra armadietti e la scena, didascalica ma efficace, di Federico Biancalani (il pubblico è posto sul palco del Teatro di Rifredi), che ci ricorda proprio le corsie di una vasca olimpionica con i galleggianti a dividere il percorso dei nuotatori. E subito la mente vola al videoclip anni '80 “Smalltown boy” dei Bronski Beat: acqua, spogliatoi, violenza, nudi, prurigine, voyeur. Già perché nel testo acuto e brutalmente psicologico del catalano Josep Maria Mirò si parla di acqua come liquido amniotico, ovvero come affetto e dolcezza e salvezza e protezione degli adulti verso i più piccoli, si parla di acqua come galleggiamento di fronte alle accuse infamanti, si parla di acqua in termini di annegamento dentro la shit storm, si parla di acqua come boccheggiamento tra le insidie di chi vuol vedere il male ad ogni costo, si parla di acqua come paura dell'ignoto, del cadere, del non riuscire a riemergere, soffocare in mezzo ad imputazioni dalle quali è difficile difendersi.ade998328c27804c8008624736894cb9_L.jpg

Ci sono due istruttori giovani (i gagliardi e muscolari Giulio Maria Corso e Samuele Picchi, fisico da gladiatori guerreggianti ben affiatati, affilati e allineati, credibili in tutto l'excursus drammaturgico, tranne che nello scontro fisico risultato ben poco realistico e alquanto posticcio) che sono caratterialmente agli antipodi: uno, il nostro antieroe Corso (sguardo pungente da Lucignolo provocatore e bella tenuta su quella linea sottile tesa tra l'abisso e l'arroganza), spigliato, contro le regole, scavezzacollo, l'altro (Picchi ha fatto un salto di qualità rispetto a “Tebas Land”) è più saggio, posato, con la testa sulle spalle. C'è la responsabile della struttura, Monica Bauco storica attrice con molta esperienza, qui spinge troppo sul melò, che diventa ago della bilancia tra il mondo interno che si sviluppa tra bambini e acquaticità, e quello esterno che vede, controlla, giudica gesti dal cemento delle tribune e affibbia significati a movimenti e tenerezze travisando in malafede la realtà.

C'è ne “Il principio di Archimede” (regia e traduzione di Angelo Savelli; la prima italiana nel 2018) la grande paura del nostro tempo, ovvero quella di perdere la reputazione e, grazie e per colpa dei social network e degli smartphone sempre a portata di mano e di clic e di video, che ci vogliono trasformare in giustizieri della notte, in citizen journalist, in persone in grado, senza conoscenza delle leggi e ignare delle conseguenze, di mettere online contenuti estrapolati, momenti che diventano assoluti strappati a contesti dove sarebbero stati relativizzati. Questa mania, che si fa smania, di diventare giudici della vita degli altri, di essere tutti moralizzatori delle vite degli altri, questo poter monitorare, con la spada di Damocle appunto del telefonino (ma bastano anche le voci di corridoio e le chiacchiere che in un attimo attraverso le chat di whatsapp diventano “virali”, come piace tanto dire), questo aver sempre tutto sotto controllo, questa censura preventiva, questo sorveglianza sociale reciproca, il gusto per il fake che diventa trash e gossip, questo decontestualizzare, e quindi questo rendere freddo ogni rapporto, dinamica e relazione inevitabilmente ha distrutto la spontaneità, l'allegria dell'improvvisazione facendoci sempre chiedere, prima di muoverci, se un gesto o un atteggiamento potrà essere compreso nella sua sincera e reale forma o se potrebbe essere scambiato e frainteso e giudicato “inopportuno” (altra parola che va molto di moda). Abbiamo paura e nella paura legiferiamo e vogliamo che tutto sia spiegato e chiaro, ma il mondo Il-Principio-di-Archimede.jpgci sfugge continuamente di mano e invece vogliamo ingabbiarlo, metterlo in categorie ferree uscito dalle quali sei in fallo, senza possibilità di redenzione, passibile di gogna mediatica.

Un bambino piccolo, avendo paura dell'acqua, era stato abbracciato e baciato (l'insegnante dice su una guancia, una bambina che ha visto la scena dice sulle labbra) dall'istruttore. Comincia un processo illecito alle intenzioni fatto di accuse (essere un pervertito, un molestatore) dalle quali non è possibile difendersi, i genitori montano rabbia e schiumano vendetta (Riccardo Naldini, altra colonna attoriale di Rifredi, non è così incisivo nel lasciarci nella sospensione, nel dubbio su da che parte stia la ragione), l'istruttore infangato e additato, prima di essere principio-di-archimede-fotopinolepera-2.jpgomosessuale poi pedofilo (anche se differente per età e vicende può far nascere un parallelismo con “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese), non sa a cosa appigliarsi per tentare una difesa (tutto sembra assurdo e grottesco) e più cerca di spiegare più si infila in un ginepraio di spine alimentando il sospetto, aumentando la sfiducia attorno a sé. Un gesto che poteva essere di sostegno e supporto ad un piccolo nuotatore tremolante (l'interpretazione e la regia però ci fugano ogni possibile punto interrogativo ed equivocità annullando le ambiguità sulle quali il testo si fonda e donandoci la verità dell'assoluzione e dell'innocenza dell'incriminato che non viene mai messa realmente in dubbio) diventa la ghigliottina, il casus belli, il nodo del contendere, il crack che fa scivolare la vicenda nella tragedia, che fa ribollire gli animi mettendo da parte la logica razionale e pensando soltanto a farsi giustizia da soli.

Molto interessante la scelta del riavvolgimento del nastro, con il classico rumore del rewind delle cassette musicali, per ritornare alla scena precedente, tornare ad un prestabilito momento e da lì ripartire argomentandola, aumentandola, perfezionandola. Escamotage, usato più volte all'interno della pièce, ma che risulta sempre funzionale, fruttuoso, puntuale, una scansione che fa rielaborare gli eventi, riassestare i fatti, riallineare le prospettive. Il politicamente corretto ci distruggerà perché disumanizza e imbriglia, raffredda i rapporti, toglie la vita, il calore. Un testo attualissimo, necessario, indispensabile.

Tommaso Chimenti 04/04/2022

Foto: Pino Le Pera

C'è il “ciao” che deriva dall'antico veneziano “schiavo”, c'è il “mandi” friulano e c'è il veneto “Sani” che in questi due anni di pandemia mondiale ha assunto tutt'altro significato. Il “Stay safe”, quel “restiamo sani”, parafrasando il “restiamo umani”, annesso all'“Andrà tutto bene”, ci è rimasto sottopelle, sotto traccia, come una minaccia, come una promessa non avverata, come una bugia, come una fake news alla quale tutti avevamo voluto fortemente credere. “Sani” è il nuovo spettacolo di Marco Paolini, tra teatro e canzone accompagnato dalla chitarra sempre ruvida, schietta e vera di Lorenzo Monguzzi. Sani perché in questi ventiquattro mesi non abbiamo parlato, letto, sentito, ascoltato altro se non che riguardasse la salute, soprattutto degli altri, ritenuti possibili contagianti e untori. L'altro come possibile fonte e portatore di morte. E allora, proprio in questi momenti ci vogliono le riflessioni (non le risposte) dei poeti, degli artisti per fotografare dove siamo, dove stiamo andando, la strada che abbiamo intrapreso.6319908_2026_img_6726.jpg

Ed è attraverso questo viaggio, come sempre personale e intimo ma che si apre ad abbracciare tutte le nostre vite, che Paolini crea dei nodi, dei blocchi da scucire, delle date simboliche che hanno rappresentato dei dossi, degli ostacoli, numeri cifrati che delineano un tempo, un momento, dopo il quale, necessariamente, si è diversi, cambiati, cresciuti. E non sono date che stanno sui libri di Storia, sono numeri piccoli, date passate sotto silenzio, irrilevanti per la maggior parte di noi, attimi. Alla maniera di Paolini, con la sua cantilena veneta che avvicina e culla, coccola e smozzica le finali dolcemente, con quel suo fare brutale e diretto senza addolcire la pillola, sembra che continui il percorso dialettico aperto con “Miserabili. Io e Margareth Thatcher” dove entravano in scena i macrosistemi politici ed economici e collidevano con le conseguenze nelle nostre misere esistenze. Sembra di stare ad ascoltare una grande lezione di microeconomia, un racconto per capire, toccare con mano le derive di numeri freddi, di spostamenti di capitali, delle fluttuazioni della Borsa, di alleanze o conflitti.

Ecco 115212661-2629d57f-e3b2-49d9-9033-4e566b6cd7b3.jpgil potere del teatro: rendere limpida la strada, non indicare quale è quella giusta ma aprire le possibilità per una lettura più franca, spazzando sovrastrutture e ideologie strumentalizzanti. Anche se la scenografia sembra un chiaro omaggio all'ultima tournée di concerti di Fabrizio De Andrè, con le impalcature realizzate con grandi carte, Monguzzi alla chitarra intonerà, grattugiandoli, Endrigo o Gaber ma mai il cantautore genovese. La lotta non è tra il Bene e il Male ma tra il Benessere e le possibilità per raggiungerlo, tra il Benessere e il Lavoro duro e sudato, tra il Benessere e la voglia di arrivarci senza per questo passare sopra i cadaveri o lucrare indiscriminatamente senza vergogna. Nel nostro mondo sembra sia complicato toccare il denaro senza sporcarsi le mani, anzi è giustificato e accettato ormai ed è considerato stupido o “sfigato” chi non ne approfitta anche in malafede.

Paolini ci apre sempre gli spazi sconfinati della memoria, piccoli momenti o aneddoti che finirebbero nel dimenticatoio ma che, in bocca sua, assumono un corollario di esperienze nelle quali, in maniera differente certo, ritrovarsi, immedesimarsi. E' la gioia della parola che ci scorre addosso e dentro, ci penetra, come un coltello, come un proiettile, ma senza farci male. Non ci fa sanguinare, a tratti però lacrimare. Ci racconta di che cosa significavano a casa sua le banane e ci spiega l'equilibrio fragilissimo sulla Terra tra Peso della Vita e Peso artificiale ridimensionando l'Uomo e la sua alterigia di controllare il Mondo pur essendo una parte infinitesimale del tutto, minima scheggia del Creato. Paolini è un intellettuale e un avventore da bar, uno col quale parlare di rugby con un bianchetto o disquisire di letteratura con quella semplicità che non significa bieca semplificazione e dicotomie, con quel piglio bonario di campagna che ti fa vedere i problemi e considerare i temi da un altro punto di vista, più terreno, materico (non materiale né venale), più vicino ai veri valori che ci muovono, sangue, pelle, sorriso, sofferenza, abbracci, mani, occhi.download.jpg

Ci racconta paolini.jpgdi un cinema andato a fuoco negli anni '80 a Torino al quale seguì la chiusura di spazi teatrali e cinematografici per mettere a norma i locali, oppure quando ingaggiarono il Vate Carmelo Bene (narrazione questa spassosa e divertente, ironica e amara) per una serata a Treviso che avrebbe dovuto risollevare le sorti, e i conti in rosso, della sua compagnia e che invece li affossò nei debiti. O ancora i finti missili che gli Stati Uniti fecero credere ai russi di aver lanciato dal Montana o il proprio resoconto del terremoto nel Friuli e infine il suo rapporto di odio e poi amore con la Sagrada Familia di Barcellona. Paolini è toccante, avvincente, coinvolgente, appassionato, è soprattutto un toccasana in questi tempi di bianco o nero, di ragione e verità. Ascoltarlo è la miglior medicina per rimanere “Sani!”. Oggi più che mai, come diceva Bergonzoni, “avremmo bisogno di rifarci il senno”. Ma è molto più semplice rifarci solo il seno.

Tommaso Chimenti 16/03/2022

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