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"Quasi una vita": 60 anni di amore e di teatro

PONTEDERA – “Vita in te ci credo, le nebbie si diradano e oramai ti vedo, non è stato facile uscire da un passato che mi ha lavato l'anima fino quasi a renderla un po' sdrucita” (Dalla-Morandi, “Vita”)
“Che vita! Ah, puoi dirlo, sento sempre il peso di un controllo appeso al collo” (Samuele Bersani, “Che vita”)

Dario Marconcini e Giovanna Daddi sono una coppia, nella vita e sul palco, da sessant'anni. Hanno tenuto le redini del piccolo teatro di Buti, in provincia di Pisa, e hanno tirato fuori dal cappello Quasi una vita - foto di Roberto Palermo 2.jpgqualche piccolo capolavoro pieno di artigianato, d'amore per la scena e di rispetto per il pubblico: uno su tutti il “Minimacbeth”. La loro è, ed è stata, una vita consacrata alla provincia e al teatro, a quel fare lontano dai grandi riflettori, dai grandi palcoscenici. Quel che si trova(va) a Buti, nel piccolo gioiello all'italiana, era la cura, la dedizione, la gentilezza, la passione, la calma, la riflessione distante dalle mode urlate, dai chiacchiericci di costume, dal glamour che allontana dall'arte, dal finto gossip di facciata. Le parole erano sostanza, non solo dette ma pensate, vissute prima; e così sono nati i lavori su Straub come su Koltes, da Pinter fino a Handke. Testi tosti, contenuti sostanziosi, passaggi all'interno di una coerenza netta, di un percorso inanellato a scavare, sondare, scoprire, definire l'indefinibile mistero dell'uomo.
Quasi una vita - foto di Roberto Palermo 3.jpgAnche in questo caso mistero appare la parola più giusta per delineare l'esistenza, quella stessa che, complice la penna del regista Roberto Bacci e del drammaturgo Stefano Geraci, è la base di partenza di questo “Quasi una vita” (prod. Teatro della Toscana) che prende l'incipit dalla loro reale esperienza fino ad aprire le porte di uno spazio altro, di un'anticamera fumosa e furtiva dove cadere, rifugiarsi, dormire, forse morire shakespearianamente. In quest'arena, che con l'occhio di bue di luce diventa quasi un agone circense (che cos'è in definitiva la vita se non un grande varietà dove si alternano numeri, clown, buffoni, animali, tragedie e risate?), si affaccia una panchina (due sedie allineate) che fa tanto amanti di Peynet senza cadere rovinosamente né sul romanticismo spiccio né sul mieloso amoreggiare. Più che altro i loro ricordi sono velati dalla mancanza, dalla perdita, da questo imminente trapasso.
Ecco questo “Quasi una vita” (in più parti decisamente di respiro dostoevskiano) pare essere un giusto omaggio ad una coppia che molto ha dato,Quasi una vita - foto di Roberto Palermo 5.jpg in silenzio senza parlarsi addosso in maniera autoreferenziale, senza tante cerimonie autoincensanti né fanfare d'autocompiacimento, a tutti quelli con i quali sono entrati in contatto, in punta di piedi, guanti di velluto e sempre un “grazie” caloroso a stringere mani e ha profondere abbracci. Non è un saluto, non è un epitaffio, non è la fine. Si raccontano, si tengono leggeri la mano, si carezzano, ricordano ora la dolcezza di un bacio (come ogni amante hanno versioni diverse del come e del quando sono accaduti fatti salienti della loro relazione) prima però che cali come mannaia cupa la malinconia di quell'“Ora non c'è più niente” che deflagra sinuoso e morde lo stomaco. Si entra in una sorta di sala d'aspetto tra la verità della coppia, la finzione del teatro e il teatro nel teatro reso manifesto, dove quattro anime (prevedibile il loro cerone bianco e le facce candide cadaveriche d'aldilà), diavoletti (Francesco Puleo e Tazio Torrini i più limpidi ed efficaci), Quasi una vita - foto di Roberto Palermo 6.jpgaccompagnano i due ad accettare il passaggio, a metabolizzare ciò che è stato, a non svelare certamente l'enigma ma a preparare i due al grande salto. La frase che più ci ha colpito è il dubbio amletico senza risposta: “Abitare la vita o attraversarla?” che scardina le certezze che affastelliamo come sovrastrutture per tenere in piedi il nostro scheletro giorno dopo giorno.
E' il cardine del sottotitolo, “Scene dal chissàdove”, questo limbo amniotico e acquitrinoso nel quale sono caduti e sprofondati, questo salone d'attesa, con il timore dell'ignoto e dello sconosciuto da affrontare, simboleggiato da una porta con due aperture e una sola anta che ogni volta che si apre da una parte si chiude dall'altra: “Siamo alla fine del nostro viaggio” in questa parentesi temporale, tra sogno e incubo kafkiano, in questa dimensione fuori dallo spazio degli umani. E la riflessione sulla vita passata sul campo fangoso e incerto della terra si sposta e si trasla ad un ossequio al teatro, radice e filtro, dono e salvezza, perdono purificatore e veglia ristoratrice, che è riuscito a farli galleggiare, come boe sull'oceano, senza affondamenti senza annegamenti tra i marosi che gli si sono parati davanti. Il teatro come esercizio che fortifica, come allenamento, come cura necessaria e rimedio miracoloso, come medicina faticosa e sollievo doloroso. Ma questa è “Quasi una vita” che non è finita la sabbia nella loro clessidra, che non è scoccata l'ora, che qualcuno non ha ancora tagliato il filo. Un quasi che risulta fondamentale perché ancora hanno molto da vivere, tanto da dire e da dare, fuori e dentro il teatro. Lunga vita.

Visto al Teatro Era, Pontedera, il 18 aprile 2018

Tommaso Chimenti 19/04/2018

Foto: Roberto Palermo

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