Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

"Primavera dei Teatri" fa 18: Cutino e Babilonia

CASTROVILLARI – Ci sono festival che chiudono e festival che raggiungono la maggiore età. Primavera dei Teatri compie diciotto anni. E li festeggia riaprendo una sala, il Teatro Vittoria, chiuso per un incendio da trenta anni, e adesso riconsegnato alla città. Castrovillari è sempre la stessa, il centro saldo delle operazioni è ancora la sua Fortezza, mentre il monte Pollino dietro gonfia il petto e all’ora del tramonto fa ombra, s’incupisce sereno e placido. Quest’anno la squadra di calcio della città è retrocessa. Nessuna paura, qui si tifa Juventus. Il vento scende sul corso che taglia e in discesa arriva fino all’Osteria della Torre Infame. Infame perché lì stavano i condannati a morte in attesa dell’esecuzione. In-fame perché, se ne hai, te la puoi togliere gettandoti in pasto agli “Spaghetti al Fuoco di Bacco”, piccanti e cotti nel vino, i “Maccaruni a firrittu del pastore”, con la ricotta, i “cancariddi arrustuti” (peperoni secchi fritti), le “patane mblacchiate” castro1(patate e peperoni). O puoi provare “cucurriddi e mirlingiane” (zucchine e melanzane), lasciarti tentare dalla “saburizza” (salsiccia piccante, e che te lo dico a fare). Nduja patrimonio dell’Umanità. Il palato schiocca, la lingua s’attorciglia in questo scioglilingua.

Lingua che è incipit e soglia, sosta e prolungamento, scivolamento e consonanza, caduta e risalita nel lavoro di Giuseppe Cutino, regia, e Sabrina Petyx, drammaturgia. “Lingua di cane” ci porta al “Cuore di cane” di Bulgakov. Pezzi, muscoli, organi. Son quelli che ci vogliono per sopravvivere, per tentare almeno di farlo. È anche un cercare di parlare di un fenomeno, quello dei migranti, sul quale in questi ultimi anni, anche e soprattutto in teatro, si è detto tutto ma sempre, o nella quasi totalità dei casi, in maniera diretta, dritto per dritto, raccontando l’orrore. Però, lo sappiamo, il teatro ha bisogno della metafora, del simbolico, del detto tra le righe, senza riproporre la cronaca, senza rincorrere la realtà che è molto più potente di qualsiasi racconto. A meno che non si scelga un’altra strada. Quella di una poesia cruda (certo la retorica è a tratti inevitabile) che coinvolge, spinge, sposta, dilania, riprende, recupera, porta in superficie sensazioni e situazioni, perfino corpi. E sono questi corpi (i siciliani della Compagnia dell’Arpa; in sei frontalmente emmadantescamente) ammessi a questa messa di ammassi di stracci, abiti galleggianti come fiori di loto in uno stagno, che non salvano ma affossano, pesanti d’acqua imbrigliano, s’attorcigliano agli arti impedendoti il nuoto e la risalita.
castrocaneBoccheggiano, i respiri si fanno profondi e intensi e sempre più la lingua vira verso un ennese stretto, i loro movimenti sono onde che sbattono sulla battigia, riflussi in un andare e tornare di fiordi e gorgoglii che forma curve della schiena e di polmoni, una danza macabra come un elastico che prende la rincorsa, si schianta e ritorna al suo posto. Un teatro fisico la cui portata s’ingigantisce, monta come panna, suda in questi frammenti che tolgono il fiato, affannano l’esofago in questa lotta feroce per la sopravvivenza. È un vortice quello che fluttua di vestiti e cenci che sanno di cimitero, Diluvio Universale e Olocausto, che sa di gioco crudele e fisarmoniche, come uscire da un bozzolo e nuovamente proteggersi come fa il riccio o l’armadillo, si annidano e si rannicchiano in un cantato-nenia-urla-preghiera soul e porosa. Vengono alla mente la “Venere degli stracci” di Pistoletto ma anche “L’Isola dei morti” di Bocklin e per finire il continente di rifiuti e plastica che staziona e s’amplia nell’Oceano Indiano. Le domande escono senza trovare riparo né soddisfazione, la barca è alla deriva (la loro reale? Noi, l’Europa metaforica?). La morte peggiore non è il decesso ma la sparizione. Se sei disperso, e non classificato come morto, non puoi attingere al senso di colpa, alla pietas, alla consacrazione, alle lacrime, alla perdita, alle cerimonie, ai fazzoletti, all’indignazione. Lo sapevano bene i generali argentini.

C’è un amore per la P, la lettera, nei titoli del gruppo veronese, Leone d’argento ’16 alla Biennale di Venezia, Babilonia Teatri. Sicastrobab parte da “Popstar”, passando per “Pinocchio”, “Purgatorio” e arrivando a quest’ultimo nato “Pedigree”. Che la P è anche l’iniziale di Padre che è centrale nel loro discorso scenico dove è proprio l’assenza del genitore maschio a farsi presenza ingombrante fino ad essere ossessione, tarlo, domanda strisciante che riempie le giornate e i pensieri di una vita. Un ragazzo ormai uomo (ritorna la forza espressiva di Enrico Castellani, vigoroso senza essere tragico) va a ritroso, indietro a scoprire i perché di quel buco nero che lo cinge e stringe. Cresciuto, e molto amato, da due madri, ha sempre sentito un vuoto incolmabile. Il padre biologico ha donato il suo sperma in una banca del seme per l’egoismo delle due donne che l’hanno sì ben cresciuto ma anche privato della sfera maschile utile, necessaria, fondamentale. L’indagine, scandita dalle musiche sdolcinate e ammiccanti, sensuali e pelviche (il gesto della penetrazione che manca a due donne), di Elvis, fa capolino sulla famiglia e sulla discriminazione paesana, sui giudizi provinciali sulle coppie di fatto.
Ma non è qui, comunque la si pensi, che i Babilonia si soffermano. Il salto è andare indietro, a quella mancanza paterna di questo genitore-milite ignoto, fumoso e allo stesso tempo onnipresente. Perché, indubbiamente, anche se il genitore mancante non ha potuto influire sull’educazione e sull’atteggiamento, sul DNA e sui tratti fisici quello sì. Quella del ragazzo è una “vendetta” lontana e distante: ogni anno per Natale organizza una cena, irreale, che riempie d’attesa tutti gli altri giorni dell’anno, con gli altri “figli” biologici dello stesso padre sparsi per il globo. Ed è questo senso della famiglia che forse lo lega maggiormente rispetto al rapporto con le due donne. Il sangue, seppur inspiegabile, pulsa più dell’affetto, per quanto grande sia. E sempre per vendetta diventa a sua volta donatore, mettendosi nella stessa condizione del padre. Il padre (ma anche la madre in caso di due uomini che allevano figli), come figura simbolica, è necessaria, non solo a livello biologico; non si può estrapolare e censurare, cancellare e nascondere la sua presenza terrena, materiale, costante. Padre e madre non possono chiamarsi semplicemente “genitore 1” e “genitore 2”. Con buona pace dei vendoliani.

Tommaso Chimenti 05/06/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM