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Al Piccolo di Milano, Latella rifà di Pinocchio un Grande classico

Neppure un quarto d’ora di bene né di benessere per Pinocchio, e per noi tutti. Se il palcoscenico riflette qualcosa che conosciamo o sentiamo, il Pinocchio di Antonio Latella, interpretato dal trentenne Christian La Rosa, ci ridà quella sensazione di “sconforto” per la naturale diversità che ognuno porta in sé, chiave di interpretazione della persona, mai del tutto accessibile agli altri. “Je suis Pinocchio”, potremmo pensare.PinocchioLatella02
Si dimena tra le scenografie di Giuseppe Stellato, in ambientazioni surreali che ingigantiscono elementi chiave della celebre fiaba di Collodi. Il naso che cresce non è quello dell’attore protagonista, ma è una presenza costante, un tronco d’albero che invade la scena e sembra puntare il pubblico. Dal cielo, un soffitto di cui non vediamo i contorni, e che corrisponde ai limiti più alti della scena del Piccolo Teatro di Milano, cadono trucioli di legno come giganti fiocchi di neve; sembra un pianto incessante che si attutisce sul suolo, accumulando collinette di dolore qua e là. Latella agisce alla sua maniera: prende un classico, lo fa a pezzettini, si attiene al filo della narrazione e, al tempo stesso, lo ricrea, gli dà nuova vita. Un esercizio di scrittura e di stile che culmina in scelte estetiche raffinate, geniali, pur se a volte difficili da “mandar giù”. Perché, se il pubblico del teatro vuole essere stupito e compiaciuto, basta un niente per contraddirlo, per deludere aspettative o per tradire il comfort del vedere “il già visto, il già conosciuto”.

PinocchioLatella03Pinocchio è un piccolo uomo, la messa in scena diventa meta-teatro e il pensiero di Latella arriva chiaro, avvalendosi della proverbiale ribellione del burattino: “che schifo la pelle del personaggio!”. Una piccola invettiva contro “il calarsi nei panni di…”, come se l’attore dovesse diventare uno zero malleabile, un tronco di legno di fronte agli scavi del testo. Invece il Pinocchio di Latella vuole parlare da sé, non cita solo Shakespeare o Dante, integrandoli con naturalezza a dei passi drammaturgici, ma dice ciò che pensa, pure quando si tratta di un “vaffanculo” liberatorio e una crisi d’isterismo contro la troppa sfortuna a cui l’autore l’ha relegato.
Geppetto e la Fata Turchina danno vita al ragazzino che ben presto li lascerà per andare nel mondo e venire fregato. Una serie di sfortune, irresponsabilità, cattiverie degli altri e vizi propri, lo trascineranno fino alla pancia della balena, dove si ricongiungerà con un padre che non lo ama.
Un conto è essere genitore, un altro conto è amare: non per forza le due cose coincidono. Geppetto è quanto mai cristallino e non resta che fare i conti, sul finale, con l’eventualità della mancanza di affetto e con l’incomunicabilità con i più prossimi. In una sorta di dramma tra Dante e La Divina Commedia, Omero e Ulisse, Shakespeare, la critica al metodo Stanislavskij e Carmelo Bene, tra i surrealisti, il teatro dell’assurdo, il teatro della crudeltà ma pure quello borghese, tra la nascita e la passione di Gesù Cristo e la rottura dei canoni, tra Lucignolo/Lucifero e Le Metamorfosi di Ovidio, tra il grillo parlante - perlopiù inascoltato -, la Fata dai Capelli turchini - che gli dà la vita e poi, di fatto, sparisce - e il gatto e la volpe, il testo ha una tale densità che ridiventa un classico, diverso dalla matrice, ma infinito di rimandi e interpretazioni.
Un lavoro di scrittura magistrale e una messa in scena, quadro dopo quadro, che parlerebbe anche senza dialoghi e monologhi. Tra le centinaia di significati che rinascono con da Collodi a Latella, l’importante è ritrovare quelli che ci stanno meglio addosso, senza per forza prendere in prestito “la pelle degli altri”, come ci insegna il Pinocchio-regista.

Agnese Comelli  17/10/2017

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