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Michele Sinisi non ha paura di tradire Eduardo: il suo “Miseria e nobiltà” sorprende, diverte, emoziona

“Ho sempre pensato che il Teatro fosse l’arte più moderna che esiste: l’evento artistico si verifica davanti ai nostri occhi come un miracolo. È un’arte tridimensionale e oggi, massacrati dalla virtualità delle immagini del piccolo schermo, dà emozioni nuove e inedite rispetto al passato.” (Vincenzo Cerami)

Viviamo in un’epoca in cui gli schermi sono diventati ancora più piccoli e il massacro ancora più spudorato, in cui la crisi spinge, da quasi un decennio, un meccanismo di impoverimento materiale ed emozionale ormai fagocitante, e la precarietà porta a cercare soluzioni alternative spesso parafrasate in roboanti parolone anglofone o discipline orientali, perché, anche solo dirlo, fa tendenza. Per fortuna, però, che esiste un’Italia miracolosa capace di regalarci una pace interiore altrimenti irrealizzabile, che fa ancora di un certo teatro la chiave di lettura, d’interpretazione sensibile ed empatica del nostro tempo e sa recuperare una storia così nota come “Miseria e nobiltà” per farne un inno, un orgoglio nazionale, popolare, collettivo.
Michele Sinisi crea uno spettacolo di grande impatto, estetico e drammaturgico, che diverte, respira e fa respirare, grazie anche al lavoro sul testo di Scarpetta, fatto con Francesco Asselta, che rende leggerezza, velocità, colore. I due “snapoletanizzano” la storia per dare libertà espressiva, di suoni e parole, agli undici attori presenti, i quali in un melting pot di dialetti (anche se la Puglia vince) abbracciano quasi l’Italia intera, restituendoci la voglia di unità, ma anche il riflesso delle nostre nature più basse. Perché le miserie di Felice Sciosciammocca e co. sono le miserie di tutti, rintracciabili nei tessuti e tra i confini nazionali, degli ultimi, dei semplici, di chi dà la colpa all’epoca per non sentire il peso della crisi, dei falliti. Ci guardano da vicino, anche se non ci riguardano, ci fanno paura.
La storia è conosciuta da tutti (grazie soprattutto al film del 1954, con Totò e la Loren) e ha seminato immagini e frasi divenute ormai patrimonio comune, eterno riso ma ciò che ci rende indimenticabile questa versione (prodotta da Elsinor) è lo sguardo profondo e originale dell’attore e regista pugliese, che non stravolge il senso della narrazione ma aggiunge significati e significanti, suoni e leggerezza, in maniera lucida. Lo spettacolo si regge, infatti, su un equilibrio perfetto, dall’inizio alla fine: i personaggi sono cuciti addosso agli attori, c’è pienezza interpretativa, ritmo incalzante e mai un momento di stasi, tecnica ed emozionale, una bolla entro la quale smarrire il senso. Da ricordare, in una squadra che funziona, Gianni D’Addario (Felice) ispirato, lieve ed essenziale; Ciro Masella (Pasquale) roboante, potente senza prevaricare, prima luce di questo cammino di stelle; Diletta Acquaviva (Concetta) graffiante, viscerale, di rara bravura; Stefano Braschi (Don Gioacchino/Don Gaetano) fragoroso, incisivo, a tratti grottesco; Gianluca Delle Fontane (Eugenio/Ottavio) pieno di colore, straripante, vertiginoso nel dialogo tra i suoi due personaggi all’interno dell’armadio roteante, come due facce della stessa medaglia.
Le scene di Federico Biancalani sono essenziali, luminose, con misurate scelte a effetto (come gli spaghettoni giganti e il lampadario fatto di cucchiaini) e perfettamente speculari all’intreccio della vicenda: i pochi oggetti in scena della prima parte, su cui prevale un tubo arancione di scarico delle acque nere (“polvere siamo e polvere ritorneremo”), vengono rapidamente spazzati via dal ribaltamento della situazione. Un luccicante tappeto bianco viene srotolato davanti alle facce stupite di Felice, Pasquale e delle rispettive famiglie e da questo momento tutto è ciò che appare (“adesso sono vestito da principe e io sono un principe”, come sottolinea con forza Felice), inizia la farsa, il “mestiere del vivere recitando”; come se bastasse un colpo di colore a cancellare la miseria che i nostri eroi si portano addosso. Per questo, in anticipo sulla scoperta di una nobiltà fasulla, venduta per amore e per fame, sul finale il “white carpet” si squarcia e, come un vaso di Pandora scoperchiato, libera l’umanità rappresentata dei pesi e dei filtri. Tutto ci appare, piano piano, per ciò che è realmente: povertà d’animo, invidia (superba Stefania Medri/Luisella), superficialità, falsità, ignoranza, stupidità, piccolezza.
A fare da collante a questo insieme denso è lo stesso Sinisi, che non abbandona mai la scena, ora il giovane Peppiniello, ora regista a spostare le pedine del suo scacchiere, deus ex machina silenzioso ma ingombrante. Ed è sul continuo rimando tra teatro e finzione, svelamento del trucco, del gioco, che costruisce anche le scene delle lettere, con Felice e Pasquale - prima Troisi/Benigni, poi Totò/Peppino - che tanto s’impegnano, senza successo. Sinisi usa una botola di luce per dettare i tempi del qui e ora e della narrazione, come fosse un occhio che tutto osserva e livella, lo stesso che ci punta addosso nel finale tanto noto: “Torno nella miseria, però non mi lamento: mi basta di sapere che il pubblico è contento”.
Michele Sinisi è l’Italia dei piccoli miracoli luminosi, l’Italia che plana “sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore” (Italo Calvino).

Visto a Milano, Teatro Sala Fontana, il 3 gennaio 2016.

Giulia Focardi 12/01/2016

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