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"La veglia": la tv del dolore che mastica e sputa prima che faccia neve

PALERMO – “Chiedi un autografo all'assassino, guarda il colpevole da vicino e approfitta finché resta dov'è, toccagli la gamba fagli una domanda cattiva, spietata con il foro di entrata, senza visto di uscita” (Samuele Bersani, “Cattiva”).

La veglia” (prod. Teatro Biondo di Palermo, lunga tenitura) è il nuovo testo del drammaturgo e romanziere siciliano Rosario Palazzolo (“Concetto al buio”, “L'ammazzatore”, “Cattiveria” i suoi titoliPalazzolo editoriali) che torna potente alla scrittura per la scena sferzando queste pagine cariche di vigore, passione e cementandole da una parte con un attore d'eccezione, Filippo Luna che nel suo campo di battaglia, il monologo, si esalta, e dall'altra con una sua lingua, un'invenzione sgrammaticata che ha dentro di sé la bellezza dell'onomatopeica e dell'errore come la miseria umana. Questo parlato affascina e trascina per il suo essere sporco, sciatto e sbeccato, sdrucito e crettato, senza filtri, uno slang da bassifondi.

E' un testo complesso (messo in essere grazie a un affiatato ensemble d'energie fresche e sinergie giovani: scene di Luca Mannino, costumi di Daniela Cernigliaro, luci di Alice Colla, musiche di Francesco Di Fiore, assistenti: Angelo Grasso e Clara De Rose) che ha bisogno di entrare nel vivo per capirne le pieghe, per entrare appieno all'interno del suo meccanismo di doppiezza, di teatro nel teatro fino al suo scardinamento e svelamento. L'ottimo e solido Filippo Luna è Carmela, una madre di un rione che ha perso la figlia e che adesso è in tv, recitando la parte di se stessa, davanti a Barbara D'Urso e alla giuria popolare dei telespettatori da casa che possono, con il televoto, renderle il corpo della piccina o tenerselo per farne una santa. Siamo qui oltre la tv del dolore, abbiamo abbondantemente superato il concetto del reality. Infatti Luna-Carmela (per tenerezza nel tratteggiare il personaggio ci ha ricordato come Saverio La Ruina delinea i suoi ruoli al femminile) alterna il recitato all'interno della trasmissione (è sola nello studio e parla con il deus ex machina-regista chiamato Piero Angelo, che non le risponderà mai) sottolineato da un gigantesco On Air e si rivolgerà al pubblico in platea (diviene la platea all'interno della trasmissione) interagendo con esso (quando campeggia la scritta Off) e raccontando i dettagli, spiegando le scene, cosa le hanno chiesto e cosa cerca di ottenere.

Filippo Luna La veglia 1Carmela è lì, su questo banco mediatico degli imputati, per cercare perdono e comprensione, assoluzione e salvezza. A terra i segni classici di posizionamento di uno studio televisivo che ci rimandano alla violenza psicologica di Dogville di Lars von Trier. Invece potremo essere tranquillamente dentro un episodio della serie tv distopica “Black Mirror”. Carmela è sola davanti alle telecamere come di fronte al pubblico, seduto comodamente a casa o lì nello studio-teatro; è stata lasciata sola in questa sfida invincibile, in questa disfatta annunciata, in questa sconfitta, in questa Caporetto e Waterloo. Le sue parole, ingenue, popolari, di borgata, dilaniano a morsi, sono strazianti e devastanti, squarciano senza sortire nessuna pietà. Il popolo è sovrano, come sottolineava la statista Ventura. E il popolo è incattivito e vuole annientare e abbattere i suoi simili per non sentirsi l'ultimo boccone della catena alimentare in un continuo mors tua.

Luna, con umiltà e dedizione, si getta tra le braccia di Carmela, sentendola, avvinghiandola, mai soverchiandola, ma prestandole il corpo in un dentro e fuori straniante, cingente. E ogni volta che, con doppio carpiato, esce dalla Carmela che sta recitando davanti alla macchina da presa per interpretare la Carmela che si apre con gli astanti in sala è una fatica, una ferita.

Carmela, nome tipico del Sud (nome di battesimo della D'Urso), e la figlia-santa Samantha, nome di origine straniera che si rifà al mondo delle soap opera, a quella patinatura esterofila che stride con certe realtà che i Thomas, i Nicolas, le Donna, i Kevin e i Maicol di tutta Italia devono affrontare quotidianamente. Palazzolo è riuscito a costruire una lingua a sé stante, gaddiana per coloriture, piena e sfaccettata, stropicciata (“cazzipicchia”), infarcita di parole storpiate (“amore maleminchiato”), traslate e stravolte di senso (“telecomando pronto di spremuta”), impiastricciate (“voi siete scuolati”), impastate di dialetto, confuse a creare un impianto trash (“piangeva colato di rotto”) che mette il sorriso ma che subito dopo alza il velo della grettezza culturale, della solitudine, dell'ignoranza diffusa (quella che non permette di capire e quindi di difendersi) e dell'abbandono. Carmela è timida, impacciata, non conosce i meccanismi della tv, quella dei “programmi verità” che la vuole così vera perché è più facile ammaestrarla, coglierla in fallo, farla cadere.

Tra la finzione e la rappresentazione della verità, Luna sta in equilibrio, non facile, tra due Carmela, nel suo snocciolare con termini puntuti, scogliosi, spigolosi, arrangiati; quella che deve convincere ilFilippo Luna La veglia 4 pubblico da casa e quella che cerca l'appoggio di quello in sala. Un gioco crudele dove lei è l'ingranaggio più esposto e più fragile ma ne è anche complice perché accetta quel ruolo (la madre della bambina santa defunta) che l'ha portata in tv e, anche se per poco, famosa. La lingua ha tratti acrilici, ora è ondosa come mare in piena, Luna-Carmela è una diga che fatica a non cedere e a non sfondare gli argini in quest'altalenante e ardimentoso fluire di sensazioni, nel rivivere le scene che l'hanno martoriata, deturpandole intimamente.

La scrittura di Palazzolo ora è una cantilena che culla, armonia di inesattezze sintattiche e spericolatezze ortografiche che ci fanno sentire più vicini, in modo paternalistico e condiscendente, a questa vita sgrammaticata e senza punteggiatura, emblema di esistenze senza virgole, colme di parentesi del non detto ma soprattutto del non saputo e potuto dire. Nessuno ascolta Carmela, per lei è pronto il giudizio finale del televoto, dei pulsanti in questo quiz dove una perde e tutti gli altri credono di aver vinto. Come i gladiatori nel Colosseo. Questo palinsesto televisivo la succhia e la sfrutta, non le concede pace ma anzi la pungola come un letto da fachiro alla ricerca del nodo da sviscerare, accerchiare e sciogliere. Questa tv discioglie nell'acido i corpi che troppo le si avvicinano, li brucia, li tritura, li mastica, ne fa stracci fino al prossimo caso lacrimevole da usare come carta igienica.

Se prima la televisione faceva vedere quello che da casa non avevamo mai visto né potuto conoscere, oggi il quadrato magico posizionato in salotto ripropone, ma in termini scadenti, compressa tra i ritmi bilanciati di lacrime e spot, fazzoletti e merce da vendere, la realtà stessa mettendo lo spettatore da un lato in un ambiente voyeuristico dall'altro esorcizzante, condito dal meschino e dal viscido del non essere il capro espiatorio che oggi stanno massacrando. Le storie reali vengono trattate come fossero fiction, le persone non sono più in carne e ossa ma assumono la forma bidimensionale dei personaggi, ruoli scritti da sceneggiatori che giocano con il torbido e sono abituati a mettere le mani nel fango. La tv diventa finta bocca della verità e ha sempre bisogno di carne fresca da addentare per mandare avanti il proprio carrozzone fatto di applausi (contraffatti), di commozione (posticcia), di ilarità (falsa).

Da sottolineare anche la gigantesca e rumorosa assenza del maschio, degli uomini, accusa sottile sotterranea, segno per sottrazione della mancanza del cosiddetto “sesso forte” che davanti a molte tragedie familiari lasciano le madri a fare le front man, intanto i padri, se ci sono, si sono già defilati nell'ombra, nascosti come uno spermatozoo passato di lì per caso. Carmela è una madre-coraggio immersa in quello che potrebbe essere un incubo, costretta, ogni giorno, a rivivere, come Prometeo con il proprio fegato strappato dall'aquila, la tragedia che l'ha colpita, ormai entrata in questo loop vigliacco dove deve riesumare emozioni e ricordi ancora vividi, costretta dallo show business, riportando alla mente pose, parole, azioni e momenti prima e dopo la morte della sua bambina in una sequenza angosciante, logorante, pena senza fine.

Ci fa compassione questa madre che non ha saputo come proteggere la figlia in vita e come difenderla nel trapasso da quest'assalto feroce e vorace di iene e sciacalli barbaradursiani. Lecchiamo la mano del padrone che ha appena finito di bastonarci. Come Carmela non saremmo stati in grado di dire no e sottrarci a questa gogna pubblica, a questo lurido marchingegno che prima fintamente consola e poi, come boa constrictor, soffoca. Carmela non aveva altre possibilità, non le è stata data nessun'altra chance se non quella di mostrarsi friabile e perduta, denudarsi davanti agli occhi di chi guarda la tv spazzatura, indiscreti e infami pronti ad indicare il torto altrui, a cercare il colpevole anche tra le file delle vittime.

Tommaso Chimenti 14/03/2018

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