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"La Cupa" di Mimmo Borrelli: la feroce bellezza della discarica degli ultimi

NAPOLI – Se cupo come aggettivo ha nel suo intimo significato l'oscuro, il buio, alla napoletana “La Cupa”, sostantivizzato, diviene la cava, si trasforma nella grotta con tutte le metafore che nascono a catena, a valanga, da scavo a tomba, da scasso a fogna fino a ventre materno, riparo, rifugio ma anche trappola profonda, buco nero, imo, pozzo. E' il cantore del nuovo teatro napoletano, Mimmo Borrelli (sua drammaturgia e regia), l'aedo che con i suoi versi si batte il petto tenendo il tempo rappato come i “vattienti” in questo rito sacrificale, grazie a questo gergo che scartavetra, che spella vivi, urticante, in questo corteo d'anime dissolte e dissolute, sprofondate, compresse, accecate giù nella crudezza della terra. Nelle sue nenie angosciate, nelle sue litanie tanto armoniose quanto sporche sta tutta la linfa umida di questo “La Cupa” (due parti da 1h30' l'una visibili a settimane alterne per un mese; prod. Teatro Stabile Napoli), vero evento immerso in un Teatro San Ferdinando sventrato di una parte della platea per permettere ad un lingua nera di affondare i propri denti fin dentro le poltroncine per un ensemble di tredici attori e un musicista fuori campo (intenso Antonio Della Ragione) che hanno fatto vibrare, incupire, temere, tremare.Autilia Ranieri e Gennaro Di Colandrea in LA CUPA.jpg

Questi esseri primitivi, primordiali (da citare sicuramente lo stesso Borrelli e la sua trance ma anche il corposo Gaetano Colella, l'impetuoso Gennaro Di Colandrea e la voce poderosa di Marianna Fontana), che sembrano essere usciti dall'immaginario visionario delle tele di Bosch, pare che scontino una pena, una colpa capitale deflagrante: o qualcuno li ha ficcati dentro questo buco lercio oppure sono stati loro stessi a fuggire dal mondo di sopra per riunirsi, tra lotte intestine asprissime e sanguinarie, conti da regolare e faide e vendette, nel mondo di sotto. Qui vigono altre norme, duelli e sortilegi. Come topi contaminati, come ratti rugosi, come sorci cadaverici, si muovono in capannelli, corrono, emettono suoni gutturali, vestiti di stracci e vergogna, tra rumori di conchiglie sbattute lontane nel tempo. “La Cupa” è una favola cruda, è un bagno nel fango, ha il profumo del tanfo, di dove può arrivare l'uomo, fino a quali limiti può spingersi, nel delitto, nello schifo, nell'aberrazione, nell'animalizzarsi, nel perdere i propri contorni regredendo allo stato di Gollum o a quello di mummia. Sul palco, lungo come binari di un treno, scorrono le grate del buco e allo stesso modo una palla gigante, il mondo, la Terra, il globo terracqueo, che faceva da tappo a questo universo nascosto, celato.

LA CUPA in foto MIMMO BORRELLI.jpgNella loro terra guasta affiorano le scorie nucleari e radioattive (con riferimento alla Terra dei Fuochi campana) e non c'è salvezza in questa parentesi martoriata, in quest'incubo abitato da mostri d'ogni fattezza, tra grida lancinanti, urla disperate e pianti strazianti. Sono deformi tra pelle che si stacca e teste di bestia, sono anime dannate, demoni dell'oltretomba che qua vivono in un infinito dejavù, in un continuo contrappasso, tra fumo e cemento, intonaco sui volti e calce sugli zigomi. La musicalità delle rime, quasi un rosario smozzicato, cantilena in questo campano arcaico, batte il tempo dei sassi, salta la polvere, si macchia di cenere, e la ferocia è perennemente una minaccia. Sui volti il carbone, addosso hanno cappe e mantelli, cenci e stracci medievali (suggestivi i costumi di Enzo Pirozzi). La disgrazia incombe su questo manipolo di guerrieri cacciati dall'Eden. Sono angeli dal volto di diavoli o sgherri miserevoli, mariuoli e guappi, bravi manzoniani, gramigna e ortica, talpe, vermi, rifiuti vomitati dalle zolle, violentatori, pervertiti, pedofili.

Dentro “La Cupa” (l'ultimo album di Vinicio Capossela si intitolava "Le canzoni della Cupa), scavando, ci puoi trovare il Mito greco e Shakespeare, a grandi morsi dall'“Otello” a “La tempesta”, dall'“Amleto” fino al “Sogno”, si può scovare del felliniano e del circense, come del beckettiano apocalittico, i racconti di Basile o “2001 Odissea nello Spazio”, il Far West, Orfeo e Euridice, il Totò di “Uccellacci uccellini”, La Divina Commedia, Prometeo, Ulisse, Mosè e il Marat Sade, Medea. L'impianto scenico (intenso di Luigi Ferrigno) invece ha echi di Bob Wilson.LA CUPA una scena f.jpg

C'è un mondo che sta crollando (Napoli? L'Italia? Il capitalismo? Il mondo, visto nella sua accezione ecologista e ambientalista?), c'è una cava che si sta sgretolando in un'empatia, simbiosi e osmosi tra il luogo fisico e le persone che lo abitano, come se la morale e la condotta dei residenti donasse forza o togliesse vigore alle mura, alla struttura stessa della caverna fino a disintegrarla, a potarla dalle radici, mangiarla fin dalle fondamenta, marcirla. Non sappiamo se questa feccia umana, esclusa e prigioniera, che si muove come dervisci dentro un continuo mantra di cori e canti propiziatori, preghiere di naufraghi, iniziazioni spiritiche di stregoni e sciamani, sia l'inizio del Big Bang oppure sia la conclusione dell'avventura LA CUPA una scena l.jpgdella creatura-uomo sulla Terra, adesso prostrata, annerita, prosciugata, azzerata, inaridita, smembrata: “Il cielo ci cadrà addosso”, dicono, ha un sapore biblico. Hanno facce bruciate dall'acido, acne e tumori, sono scimmieschi nelle movenze e dilaniati in mezzo alle crepe del loro spirito. Nel loro girone dantesco ci sono catene come cordoni ombelicali e candele e lutti e rutti. Sono una malarazza infilata in un presepe (dopotutto siamo nella “casa” eduardiana per eccellenza, il San Ferdinando) vivente doloroso e fragile, malato e patologico quanto carnascialesco. Tutt'attorno l'umidità delle viscere, il putrido dei bassifondi, il corrotto pestilenziale del cancro; l'uomo è la metastasi del mondo. E' una fine, una perdita, una ferita. “La Cupa” si candida ad essere “il caso” teatrale del 2018 per completezza dell'operazione, uniformità, coerenza, convinzione, estetica, linguaggio, forma e sostanza. Adesso la sfida, lo sforzo e il coraggio sarà, da parte dello Stabile, quello di cercare, in ogni modo possibile, di far girare “La Cupa” nella prossima stagione anche fuori Napoli. Non può morire qua tanta atroce bellezza.

Visto al Teatro San Ferdinando, Napoli, il 10 aprile 2018

Tommaso Chimenti 11/04/2018

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