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Festival Periferico: l'arte salverà le periferie?

MODENA – “Gli autobus portano a spasso quella luce fioca, randagi come cani li ho visti traballare davanti a vecchie fermate, dimenticate negli angoli di periferia, davanti a moto rubate e buttate come questa sotto casa mia” (Luca Carboni, “Gli autobus di notte”).
Portare la periferia al centro. O meglio spostare il centro in periferia. O ancora far si che non si parli più, con una visione dicotomica e contrapposta, con scala valoriale annessa e giudicante, di centro, salottiero-culturale-borghese, e periferia, lontana-disagiata-distante-problematica. Le visioni di “Periferico festival” sono più un percorso che va ad insistere durante tutto l'arco dell'anno e che esplodono nei tre giorni di fine maggio in un'esposizione di lavori non prettamente, classicamente e canonicamente parlando, teatrali. Il gruppo Amigdala (in anatomia è parteperiferico1 del cervello che gestisce le emozioni e in particolar modo la paura), con la capofila Federica Rocchi, ha messo in piedi un'impalcatura che, dopo anni di itineranza e viandanza tra varie zone dell'hinterland modenese (qui si parla di lambrusco, Vasco, Ferrari, Pavarotti e aceto balsamico), ha trovato la sua sede, #ovestlab, per mettere a frutto le proprie idee di riqualificazione e nuova vita dell'ex Villaggio Artigiano di questa parte di città che tira verso Reggio, tagliata dalla Via Emilia. Qui vicino, pochi giorni fa, la sede dell'associazione di destra “La Terra dei Padri” è stata dolosamente incendiata. Hanno eliminato i binari della ferrovia lasciando però la massicciata di pietre che divide in due la zona. “La periferia è una fabbrica di idee, è la città del futuro” (Renzo Piano).
Più che una rassegna teatrale, o di arti performative, si tratta, o si cerca di fare, di ragionare e scandagliare attorno al tema dell'urbanizzazione, del recupero di una certa architettura abbandonata, del riappropriarsi di spazi abbandonati e lasciati ammassati e accatastati in disuso senza alcuna nuova specifica qualifica. La situazione non è prettamente di degrado; non la identifichiamo così. periferico2Nemmeno la possiamo bollare come pericolosa. Passiamo tra i fabbricati chiusi di un artigianato che o si è spostato, o nel tempo è fallito perché non è riuscito a stare al passo con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione divenendo ben presto obsoleto, scaduto, vecchio, scartabile. Ad annusare le rovine che un tempo producevano reddito ci si sente leggermente svuotati, nella perdita, tra la ruggine, le sterpaglie, le scritte, gli alberi sparuti e spauriti, i mattoni sbrecciati, le serrande, i bandoni, gli stabilimenti con dita di polvere sopra, i tubi, le ragnatele, i calcinacci. Non ci sono panchine, non ci sono marciapiedi.
“Sei un fiore che è cresciuto sull'asfalto e sul cemento” (Jovanotti, “Serenata rap”).
Parola d'ordine: dare ai luoghi una seconda possibilità, una nuova vita. E il concetto di per sé è ecologista: non costruiamo ancora ma riutilizziamo, cambiandogli destinazione d'uso, il cemento che abbiamo colato nei decenni precedenti. Tanti cancelli, pezzi rotti, ferraglie, bombole, barili addentrandoci in questo paesaggio urbano e umano, in questa morfologia del territorio sospesa, in attesa di una nuova linfa o dell'eutanasia definitiva. Vince l'ex: ex industriale, ex artigiano, ex commerciale, ex agricolo. Ci sono però spazi da riempire con processi partecipativi che possono diventare laboratori permanenti urbani aperti, virtuosi e positivi. Può nascere un'idea diversa di città: spazio degli uomini e non dei luoghi, senza cedere alla nostalgia, senza musealizzare i quartieri mummificandoli. L'organizzazione proposta non è verticistica né gerarchica ma orizzontale, creando un borgo responsabile che non si senta più ai margini néperiferico3 geograficamente né umanamente. Casermoni ed erbacce ai lati di un asfalto sbucciato, offeso e ferito. Come piantare dei semi per far nascere qualcosa in un territorio apparentemente morto, con pochi abitanti, questa è la missione di Amigdala. Ed infatti si parla di paesaggio e di orizzonti. Di coraggio e avanguardia.
Questo viaggio nel Villaggio Artigiano modenese ci ha ricordato la bella esperienza fiorentina di qualche stagione passata di Virgilio Sieni e del suo “Oltrarno Atelier Festival”, carovane di piccoli gruppi che, religiosamente laici e scopritori silenziosi, si recavano nelle varie botteghe fallite in Santo Spirito o in San Frediano, luoghi storicamente popolari della città sull'Arno, per assistere e seguire brevi piece di danza contemporanea proprio all'interno, e intorno ai materiali di quella minuscola fabbrica di saperi e polveri, di decenni di gesti millenari fatti da mani e polpastrelli sapienti. Qui il motore che muove la macchina è un po' diverso, più concettuale, anche se i suoi abitanti si sono prestati concretamente a donare vari loro racconti autobiografici con passeggiate, aperture di case private e industrie a conduzione familiare. Il senso con il quale se ne esce è più sociologico e antropologico che artistico, anche se il programma era infarcito di attimi, periferico4momenti e appuntamenti che avevano tale parvenza e costruzione. Esperimenti che hanno cassato, escluso, divelto la fase attoriale, sminuendo l'aspetto di “spettacolo dal vivo” con qualche presunzione da architetti che vogliono insegnare il mestiere ai teatranti (OHT) con in scena filmati, voci registrate e oggetti che si muovono meccanicamente (come dire: l'attore non è utile, serve soltanto la mente, installativa), impianto riprodotto anche dai Muta Imago con la loro versione di Bartleby, romanzo breve di Melville ancora capace di aprire finestre di pensiero potenti, ridotta ad un filmato con lettura da audiolibro, il ché, a nostro avviso, non giustifica il rito collettivo nel buio e nel caldo di un hangar, più cinema che palcoscenico. Forse, avanziamo il nostro dubbio, questa popolazione aveva, o avrebbe avuto, bisogno anche di qualcosa di meno sperimentale e criptico vista anche l'età media di chi qui è rimasto a vivere. Così l'esperienza ci è sembrata scollata dal contesto, quasi una forzatura.
Invece è valsa l'esplorazione “La disobbedienza dell'acqua” degli stessi Amigdala (molto bravi a comunicare il loro festival), per la carica emotiva di magia e mistero, di cupezza al pian terreno e di paradisiaca luce usciti dal garage-budello interrato per infine riveder le stelle in un brillante e luccicante primo piano costellato e cosparso da centinaia di bottiglie contenenti messaggi, poesie, parole da lasciar macerare nel liquido. Bottiglie come un campo di battaglia o un cimitero, campi seminati o croci. Per altoparlanti imbuti. L'acqua disobbedisce perché il ruscello scende e travolge. Come la vita, come le idee. Chissà cosa rimane in questa periferia dopo la luce accesa di questi tre giorni di rassegna. Qualche seme germoglierà?

“Nato ai bordi di periferia dove i tram non vanno avanti più, dove l'aria è popolare è più facile sognare che guardare in faccia la realtà” (Eros Ramazzotti, “Adesso tu”).

Tommaso Chimenti 28/05/2017

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