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Il formidabile mondo delle corse: “Febbre da cavallo” quarant’anni dopo

È romantica nostalgia. Tra le poltrone del Teatro Sistina il pubblico si intrattiene con spensieratezza, “i tecnici ippici” sono in fibrillazione, c’è chi ha grandi aspettative, chi interroga il compagno di gioco, chi già sa che non sarà all’altezza e mormora il nome di Gigi Proietti ed Enrico Montesano guardandosi attorno per attirare sguardi compiaciuti. Ormai gli ippodromi si svuotano, le scalinate restano deserte, gli uomini non scommettano più su i cavalli e l’Italia guarda altrove, ma i cult non si dimenticano e all’abilità istrionica non si rinuncia. Le luci si abbassano e “Febbre da cavallo” inizia sulle note scritte da Franco Bixio, Fabio Frizzi e Vince Tempera, un tormentone che da quarant’anni si fischietta.
Come nascosti nel buio di un set, partono i titoli di testa accompagnati da una folla di ballerini con costumi in sintonia con la sgargiante moda degli anni Settanta. All’orizzonte un tempo ricco, colorato, alla ribalta, palcoscenico di una Febbre2società tutta titoli, imbellettata con cilindri, frac e pellicce. Accavallati alle sbarre di ferro, protesi in avanti a incitare il proprio ronzino, eccola qui, la vecchia schiera di incalliti scommettitori a digerire l’ennesima sconfitta. Il computer equino di Er Pomata ha fatto cilecca, deve continuare a studiare mentre Bruno ha da farsi venir un’idea, l’ennesima Mandrakata per riprovarci.
Il pasticcio si consuma sempre a Tor di Valle, con il giornale “Cavallo” tra le mani e la sigaretta tra le labbra. Le battute sono sempre le stesse, la trama si dipana come il copione originale, ma lo spettacolo si arricchisce, diventando una commedia musicale che solo a tratti funziona. Le coreografie di Stefano Bontempi si impongono grazie ad un ensemble di danzatori energici, ma divengono una virtuosistica confusione nella struttura narrativa, incapace di far progredire la storia. Le scenografie sono sempre in movimento, salgono, scendono e avanzano, una ricostruzione perfetta di quegli spazi iconici, come il Gran Cafè di Roma, la farmacia Magalini e la camera da letto, luogo piacevole quanto dilettoso quando l’amore non si consuma.
Patrizio Cigliano costruisce un Mandrake tutto suo, non cerca il confronto con Proietti. Un allegro e incorreggibile briccone dalla voce persuasiva. Insieme ad Andrea Perroni che mantiene le stesse inclinazioni e intonazioni del personaggio reso noto da Montesano e il dolce impacciato Tiziano Caputo, i tre amici risultano un trio musicalmente molto affiatato. Risplende Maurizio Mattaioli nel ruolo dello squattrinato Avvocato De Marchis, subissato dalle cambiali e dall’affiorare di quel desolante pensiero che è il suicidio. Il finale come di rito non può essere che un’assoluzione.

Francesca Fazioli 15/04/2017

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