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Elena Sofia Ricci, Gianmarco Tognazzi e Maurizio Donadoni alla Pergola con "Vetri rotti" di Arthur Miller

Mario D'Angelo

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Sulla scia degli studi psicanalitici del primo Novecento e della letteratura che ne derivò, Armando Pugliese dirige una sua versione di “Vetri rotti” di Arthur Miller, in scena al Teatro della Pegola di Firenze dal 6 all’11 marzo 2018. Il testo, composto nel 1994, è ambientato nel 1936 in un’America benestante in cui giungono le prime notizie delle persecuzioni razziali e le minacce di una nuova guerra. Elena Sofia Ricci interpreta il ruolo di Sylvia, affetta da una strana infermità: tra il dramma di appartenere a una razza perseguitata e quello di essere una donna oppressa, la protagonista illanguidisce in una paralisi mentale prima che fisica. L’essenza sincera del suo carattere è bloccata da etichette resistenti agli impulsi interni e agli stimoli esterni. È una donna in lotta con sé stessa, in bilico fra trasgressione e buone maniere: ricorda figure femminili come Nora di Ibsen, rinchiusa nella sua “Casa di bambola”, o Anna Karenina di Tolstoj. «Il viaggio all’interno del testo è stato interessante, con il tentativo di restituirne tutti gli infiniti livelli di lettura: si parte dalla Notte dei Cristalli, dalla tragedia della guerra che sta per abbattersi sull’Europa, fino ad arrivare ad una riflessione sull’essenza del matrimonio e della crisi di coppia» così la Ricci.

Il richiamo alla sessualità e all’inconscio riporta invece ai personaggi di Schnitzler e ai loro mondi interiori. Anche se gli anni Novanta sono lontani da questi modelli, l’autore ne risente gli influssi a partire dagli studi; quanto al contesto spazio-temporale, esso appartiene certamente alla memoria del giovane Miller, ebreo residente a New York. Tutti i personaggi incarnano il tipo borghese, intrappolato in un vortice socio-economico in cui non si riconosce e in cui fa fatica a stare in piedi. È la crisi dell’identità umana; della società dei consumi americana che, alle porte di una nuova guerra, risente echi malinconici e inquietanti di una paura non del tutto vissuta e conosciuta; degli ebrei emigrati che non si sentono ebrei, che si vergognano di esserlo o che vogliono esserlo a tutti i costi; di una comunità che sembra accontentarsi dei beni materiali ma si rende conto di non riuscire a trovare la felicità. Vetrirotti5

La recitazione offre agli spettatori un'illusione di realtà: ci dimentichiamo del nostro posto in platea immergendoci completamente nei fatti, nel plot. Elena Sofia Ricci, GianMarco Tognazzi (dott. Hyman) e Maurizio Donadoni (Philip) sorprendono per rigore ed energia. Attraverso la voce e l’immedesimazione totale in caratteri e situazioni, riescono con successo a trasmettere emozione. Anche l’uso dello spazio è intelligente: la scenografia di Andrea Taddei, semplice e funzionale, basta per rappresentare quattro spazi diversi. La messinscena si pone a confronto con il primo allestimento italiano (Bologna, 28 febbraio 1995), realizzato con la traduzione di Masolino D’Amico e con la regia di Mario Missiroli: le finestre sul fondale si aprono su Manhattan, lontana dal dramma del mondo europeo che esplode oltre i confini del vasto panorama e nell’interiorità di Sylvia. Le vetrine ebree ridotte in frantumi dalle SS sono celate nel ricordo storico di una delle più grandi tragedie dell’umanità e tale dramma non trova rimedio nelle coscienze della collettività e del singolo, vittime degli stereotipi.

Benedetta Colasanti 07/03/2018

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