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“Celeste”: la pantera nera del Ghetto

In araldica, la pantera è simbolo di sottile astuzia: nel suo habitat naturale, infatti, segue furtivamente le sue prede, aggirandosi e appostandosi dove pensa possano esserci maggiori possibilità di attaccare con successo; gli animali le si avvicinano attratti dal fascino del suo manto, per finire irrimediabilmente divorati. Affascinante, astuta, aggressiva: come Celeste Di Porto, la pantera nera del Ghetto di Roma, che tra l’ottobre 1943 al giugno del 1944, collabora con le truppe naziste facendo arrestare tanti suoi correligionari. Lei, nata da una povera famiglia ebrea, bellissima a tal punto da essere soprannominata la Stella di Piazza Giudia (oggi, Piazza delle Cinque Scole), consapevole della sua avvenenza e stanca di dover subire le sofferenze della guerra e di una vita di privazioni, a soli 18 anni decide che se proprio deve essere considerata il Male, allora il suo “sarà un Male unico”. La tattica migliore e più vantaggiosa è rendersi predatrice: per questo si allea con chi, in quel momento, può garantirle la sopravvivenza, sua e della sua celestefamiglia. Una storia, quella di Celeste, a lungo divisa fra verità e leggenda: poiché dopo i vari processi a cui fu sottoposta e gli anni di carcere, Celeste riuscì a nascondersi alla memoria e a sparire nelle nebbie del tempo. C’è chi dice che morì a Roma nel 1981, chi invece che abiti ancora a Milano sotto falso nome.
A ridarle attenzione, dopo un lungo periodo di ricerca, è stato Fabio Pisano, un giovane drammaturgo, dal 19 al 21 gennaio, al Teatro Studio Uno di Roma. Analizzando gli atti giudiziari e gli articoli dell’epoca, incontrando la storica Anna Foa e i testimoni che conobbero Celeste o semplicemente sentirono parlare di lei, Pisani ricostruisce la vicenda della Pantera nera e nel piccolo e raccolto spazio della sala teatrale fa rivivere Celeste (interpretata da una convincente Francesca Borriero), le cui candide vesti, il simpatico accento romano e il sorriso dolce ed ingenuo ben si scontrano con le dure e spregiudicate parole della ragazza, a volte così drammatiche nella loro fredda razionalità, che chiede di non essere giudicata “perché non vi siete mai trovati soli con la morte accanto, senza voler morire”. Ad affiancarla, le ombre dei suoi ricordi, i cui volti sono, in un gioco di alternanze, dei validissimi Roberto Ingenito e Claudio Boschi, ai quali sono affidati anche i cambi di scena e la costruzione della scenografia, sia verbalmente che con il loro stesso fisico: il padre, il fratello Angelo, l’amante fascista Vincenzo Antonelli. Su tutte spicca la voce di Lazzaro Anticoli, il pugilatore romano venduto ai nazisti da Celeste, che dalla cella 306 del carcere Regina Coeli chiede di essere vendicato. La storia scorre veloce, con pose e scene a volte simili ad inquadrature cinematografiche. A legare gli otto quadri di cui si compone lo spettacolo, le canzoni alla radio degli anni Trenta e Quaranta, tanto amate dalla ragazza, vere train de union delle sue memorie, e le musiche live di Francesco Santagata, molto suggestive. L’augurio è che questa rappresentazione non rimanga confinata a soli tre giorni di repliche, ma che presto possa trovare spazio nel programma di altri teatri. Perché, se anche la memoria del Male non è ancora riuscita a cambiare completamente l’umanità, “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” (frase incisa su un monumento nel campo di concentramento di Dachau).

Chiara Ragosta 21/01/2018

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