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"Casa del popolo": una piazza con un tetto sopra

BOLOGNA – Forse per dare voce alla pressante domanda su che cosa significhi oggi “collettività” e l'aggettivo “comune”, il Teatro dell'Argine è andato alla radice di quella socialità che in Italia e nelle terre rosse soprattutto, l'Emilia è una di queste, faceva rima con “Casa del Popolo”, la nuova produzione targata Itc San Lazzaro (in collaborazione con il Teatro delle Temperie) che da poco ha inaugurato anche un tendone da circo all'esterno per ampliare le possibilità di vedere teatro ma anche di coinvolgere, attrarre spettatori, prima, durante e dopo le piece per creare, o rafforzare, quella comunità che attorno al loro teatro s'anima, sciama, segue, s'accalora, fiorisce, semina e germoglia. Forse, questa è la risposta che possiamo aver captato, è proprio il teatro, come edificio, punto di casa1riferimento e istituzione, che dovrebbe e potrebbe prendere il testimone dalle Case del Popolo, chiuse, abbandonate o svuotate, e fare da punto di raccolta, divenire nuove “piazze con il tetto” come vengono giustamente definite. Senza trascendere nell'abusata descrizione di “luogo d'aggregazione”, didascalia che pare imposta dall'alto, il teatro, con le sue luci, i suoi volti e occhi, le sue storie, può, dal basso, riuscire a catalizzare quelle energie che altrimenti finirebbero disperse in varie solitudini.
casa2E la sensibilità dell'autore, Nicola Bonazzi sempre a suo agio tra il popolare, l'ironia e l'analisi sociale, tra Stefano Benni e Michele Serra, lo ha spinto ad avventurarsi dentro questi luoghi mitici, posti fumosi di ricordi ad intervistare gli avventori anziani, ultimi baluardi di una politica che non c'è più, dove si gioca ancora a briscola e scopa, si fa la tombola e si balla il liscio. Il tempo sembra si sia fermato. Già, il tempo. Ecco il vero protagonista della “Casa del Popolo”, fino al 10 dicembre nel teatro di San Lazzaro; i tre attori (bell'amalgama affiatata, precisi e ben calibrati Micaela Casalboni, Giovanni Dispenza e Andrea Lupo, sua l'idea dello spettacolo, per la regia nitida e puntuale di Andrea Paolucci), che interpretano una carrellata simpatica e nostalgica di figure, molte realmente esistite, ma anche topos e stereotipi da bar di provincia, Fellini o Avati, di periferia, se ne stanno dentro una ipotetica CdP tra le loro scartoffie a redigere trascrizioni d'archivio mentre fuori, come se a loro non tangesse, il tempo, il secolo scorresse. Cento anni di solitudine, si potrebbe dire.
Dal 1918 al 2017, passando dalla Prima guerra al fascismo, dal dopoguerra alla ricostruzione, dallo sbarco sulla Luna gli anni di piombo fino aicasa3 leggeri '80 (unica nota: manca totalmente però il Berlusconismo, attendiamo la seconda parte), affacciandosi alla finestra e notando un mondo in trasformazione, che muta pelle come un rettile lasciando i resti di ciò che era. La Casa del Popolo è un universo in via d'estinzione che sempre più si tramuta in sala biliardo, sala da macarena e balli latini, burraco o giochi elettronici e macchinette. Quelle che resistono, tentennano come l'età degli aficionados che la abitano più per routine che per convinzione. Prima la CdP era sinonimo di una certa appartenenza politica, era il coerente sviluppo e prolungamento sociale della croce messa sulla scheda elettorale. E lì si parlava, ci si confrontava, si aprivano lunghi dibattiti e le parole chiave erano “ordine del giorno”, “bisogni del popolo”, “assemblea”, “fabbrica”. E passano in rassegna personaggi dai soprannomi mirabolanti e coloriti: “La Sboldrona”, come non innamorarsene, donna casa5libera e generosa con gli uomini, “Etilico” che gli dà giù di lambrusco, la moglie “Speranzosa”, incallita devota e pia, e poi ancora “Portamonete” e “Merdazza”, “Traviata” e “Clelia la pigna” non così acuta e arguta, “Il ragioniere” convinto sostenitore della DC, “Salame”, il narratore che tiene le fila (Andrea Lupo saldo). Un ventaglio di varia umanità che fa sciogliere ora un sorriso, adesso una lieve commozione.
Come il mondo là fuori si è svuotato così le case del popolo hanno perso il loro tratto distintivo, quell'essere a metà strada tra lo svago e la riflessione, tra l'amicizia e l'umanità, tra il bisogno individuale di condivisione delle proprie idee e quello collettivo di cambiare e migliorare il mondo. “Casa del popolo” è anche un grido d'allarme su quello che stiamo perdendo e sul nebuloso futuro simboleggiato da quel piccolo cactus che se ne sta in scena, come ognuno di noi all'interno della propria esistenza, solo, con le spine per difendersi dalle carezze e dagli abbracci di altri simili, senza l'apparente necessità di essere abbeverati con nuova acqua, nuova linfa, nuovi slanci e idee. Moriremo cactus isolati o torneremo, se lo siamo mai stati, foresta?

Tommaso Chimenti 03/12/2017

Foto: Luciano Paselli

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