Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

"Amletto": le voci di dentro dell'attore

GENOVA – “Eccoci qua, siamo venuti per poco perché per poco si va, e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, e ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel” (Francesco De Gregori, “La valigia dell'attore”).

Dato per scontato che un uomo è anche la somma delle azioni, degli eventi e degli accadimenti che gli occorrono ogni giorno che ruga la propria fronte, che ogni mattina sia anche il prodotto dell'elaborazione inevitabile del giorno precedente e dell'accumulo di esperienze vissute, allora l'attore è, e sarà, l'addizione dei testi letti, delle drammaturgie mandate a memoria, delle prove, delle recite e delle repliche, della farcitura con parole antiche e moderne, altrui, provenienti da chissà quale universo, quale penna, quale contesto. La domanda è se l'attore sia se stesso o sia quell'agglomerato di Amlettosentimenti e sensazioni suscitate dalle frasi enunciate e dette da un palco, se sia la sua vita a scegliere i testi da rappresentare, per unione, vicinanza e osmosi, o se, al contrario, siano le parole scritte sul copione e da lui vomitate alla platea a modificare, plasmare, direzionare la sua esistenza. Dilemma amletico, diremo.
Perfetto, siamo nel climax giusto, perché la nuova produzione del Teatro della Tosse genovese, che vede la collaborazione tra il regista e direttore artistico Emanuele Conte (suo il testo e la visione d'insieme), e la colonna attoriale della struttura da decenni, il solido Enrico Campanati, sodalizio forte e coeso (si sente, si vede, si percepisce la malta che cementa lo sguardo complice e l'intesa), è proprio la prima nazionale dell'“Amletto”. Avete letto bene, non è un errore di battitura; ci sono quelle due “t” che, già dal titolo, ci immergono nella dimensione “letto”, da una parte luogo intimo, interno, personale, casalingo, privato, e dall'altro che rimanda alla sfera del paziente, al mondo ospedaliero, malato, affetto da patologie. Un Amleto a letto, convalescente, che ripercorre, rievoca, riporta alla mente pezzi, stralci, flash, sussurri, gusti, lampi. L'attore si scambia con il personaggio, l'attore ora è il personaggio, si perde in lui, trova nuova dimora, l'attore che non sa se egli stesso sia soltanto personaggio, dentro il quale i suoi contorni di persona dissipano contatto ed aderenza.
Amletto3Chi è l'attore? Troppo semplicistico definirlo un mezzo, un passaggio per la trasmissione di parole lontane, basterebbe un megafono o un disco registrato. Invece qui c'è qualcuno che interpreta, che prende quelle parole, mero inchiostro nero su cellulosa bianca, e le rende vive, feroci ferite, sanguinanti deliri, eclettici sogni, parabole nelle quali cadere, scivolare, o volare. L'attore, da lì sopra, ha la forza dell'infinito nelle mani, e questa potenza può soverchiarlo, mangiarlo, crollargli addosso. E' un peso da dover tenere in equilibrio con la propria, comune, normale, quotidiana vita di uomo con le sue piccole sciagure e tragedie, con le sue minuscole claudicanti vittorie.
In questa stanza, forse uno sgabuzzino, forse un palco, forse una rimessa per gli attrezzi o un camerino, o una mansarda parigina, buia e angusta, tetra e cupa, il nostro attore pirandelliano rimugina, rumina il suo presente di persona con i suoi tanti passati dentro le membra, le azioni, i panni di vari personaggi ai quali ha prestato volto e anima. E se i personaggi, notoriamente, sono a caccia del loro autore, anche l'attore si trova nella stessa situazione. Il confine tra l'attore e i suoi ruoli interpretati adesso è infranto, non esiste più frontiera, i bordi sono ovattati e non più definiti. Per diventare qualcun altro devi immergerti bipolarmente, totalmente, senza freni, senza remore. No limits. Che se tieni un piede dentro e uno fuori si sente, la fluidità ne risente, la pasta s'inceppa, i grumi s'addensano.
Quest'anziano attore, nella piece, in questa sua confessione liberatoria, miscela la propria esistenza semplice (come quella di tutti noi) con le vite romanzate e altisonanti della storia del teatro; Campanati qui riesce, ipnotico e amniotico, calma olimpica e profonda indagine nelle pieghe del non-detto, senza addomesticamenti né pietismi, senza lasciarsi cadere nel facile pathos o esibizione del proprio privato, con pochi accenni biografici, a farci entrare nella sua personale sfera, creando, con la dolcezza dei suoi occhi e con l'ammissione delle proprie debolezze terrene e fragilità (questa la sua forza scenica e umana) continui paralleli tra il se stesso e il Principe di Danimarca, rimandi e palleggi che fanno perdere anche nello spettatore, naufragio mirabile, i punti di riferimento tra la finzione drammaturgica e la realtà della persona.
Citazione visiva oggettistica scenica beckettiana (ma ci ha ricordato anche “La recita dell'attore Vecchiatto” di Gianni Celati) è il registratore come ne “L'ultimo nastro di Krapp”, anche se qui si arrivaamletto2 alla stessa conclusione, il bisogno di risentire la propria voce, ma partendo da posizioni antitetiche: se il personaggio del drammaturgo irlandese nel suo fine vita si siede per risentire i nastri registrati negli anni passati con pazienza certosina e maniacalità collezionista, non riconoscendosi, qui il “nostro” si registra nel presente per cercare una sempre migliore e più calzante e aderente versione nel suo timbro, impostazione, sentimento. Se nel primo caso il risentirsi ha la funzione della tortura autoinflittasi, qui diviene strumento perfezionista. I mostri, i demoni del nostro non sono nel registratore, nel passato come per Krapp, ma nel presente con tutte quelle voci che fanno capolino, vogliono emergere, chiedono la loro libbra di carne, la loro linfa per esserci, per dire la propria.
La memoria (il certificato medico dice: amnesia totale transitoria) da un lato si sfalda mentre dall'altro i puk, i folletti, le voices al suo interno prendono campo e corpo, sgomitano per rubare quelle corde vocali che gli permettono di esistere. La domanda è sempre quella: chi è l'attore? E' o recita? Essere o recitare, questo è il dilemma. L'attore vive o rappresenta le vite di altri? Gli attori vivono, si sentono vivi, solo quando recitano? Gli attori sono persone, certo, ma anche i personaggi sono persone. E il personaggio si nutre anche del vissuto dell'attore, per vivere, per esistere, per esserci. L'attore è un'accezione, l'attore è un'eccezione. Parafrasando Einstein e il suo calabrone: “La struttura dell'attore, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”.
Quell'“Io”, detto “autisticamente”, all'infinito, compulsivamente nell'incipit, nel mini prologo, che gradualmente perde terreno e consenso, lasciando alle voci di dentro eduardianamente ampi margini di manovra, alternando, e alterando, momenti di follia ad altri di lucidità. Ma quali sono quelli connotabili e inseribili nella categoria “folli” e quelli lucidi non è dato saperlo. Lo strazio è palpabile, c'è vuoto e Amletto4disperazione, l'unico appiglio al reale sono le frasi che affiorano, le citazioni che escono di getto, come il mal di testa dopo la sbornia della sera prima. Il mestiere dell'attore è ogni sera diventare altro rispetto a sé: “Ci vorrebbe un suggeritore nella vita vera”, dice, per non sbagliare, per non cadere in fallo. Gli alter ego che stanno sotto lo sterno non lo salvano ma fanno rumore, creano caos dentro la cassa toracica, tra pancia ed esofago.
Potremmo essere in un Purgatorio dove si confessano le proprie pene, ci si libera di pesi e zavorre, ci si mette a nudo, la propria carne, le debolezze, gli inciampi, quando non c'è più niente da perdere. “Amletto” (dovrebbe essere visto dai giovani allievi delle scuole di teatro) si esalta in un doppio binario: quello “freddo”- antartico, della scena, della professione, ma anche della paura del non farcela, della perdita di memoria e di controllo, il mestiere da portare a termine e farsi sentire ogni sera fino all'ultima fila, quello “caldo”- catartico, autobiografico, quel groviglio di budella e sangue di cui siamo fatti (come i sogni) e che qui Campanati ben riesce a trasferire portando, ad occhio di bue, dal personale al generale, creando empatia, dal piccolo al grande, creando confidente familiarità, facendoci sentire tutti Amleto, figli che sentono le voci dei padri, dubbiosi, incerti, barcollanti, fragili destini.

“E abbiamo fame di quella fame che il vostro urlo ci regalerà. E abbiamo l'aria di chi vive a caso, l'aria di quelli che paghi a peso” (Luciano Ligabue, “Tra palco e realtà”).

“Riprendo il mio canto sincero, canto di un torbido amore, canto del bene e del male, del buio del mio cuore del rosso dolore. Tra cielo e terra, paradiso e guerra, il mio destino si dividerà, il mio bel nome e la mia faccia chi la ricorderà” (Fiorella Mannoia, “Non sono un cantautore”).

Tommaso Chimenti 17/11/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM